Contropelo

I polli preferiscono le gabbie

Armand Farrachi
 
Ogni volta che il cuore o la ragione ci spingono ad indignarci per le crudeltà inflitte ad esseri senzienti per motivi che non hanno nulla a che fare con loro, economici, scientifici o politici, per fortuna c’è uno specialista, da qualche parte, che si alza in piedi per ristabilire la verità contro i pregiudizi. In mancanza di lavori approfonditi o di studi specialistici, gli ignoranti, gli stupidi o gli ingenui, per esempio, tendono a credere spontaneamente che un pollo, un semplice pollo, preferisca scorrazzare al sole, razzolare, sbattere le ali, appollaiarsi, piuttosto che muovere appena le zampe in una gabbia di ferro in cui mai s’avventura la luce del giorno. Per fortuna, però, gli scienziati, o meglio, «i membri della comunità scientifica», come amano definirsi, che hanno riflettuto sul problema con strumenti adeguati e metodi certi, sono qui per dire loro la verità.
Dopo «lunghi anni» di studi «relativamente sofisticati» (secondo l’espressione della rivista professionale La France agricole) sul comportamento «di diversi gruppi di polli», alcuni membri della comunità scientifica hanno constatato che quelli in semi-libertà manifestavano una tendenza all’aggressività e talvolta al cannibalismo, mentre quelli in gabbia si accontentavano di strapparsi le penne da soli.
I ricercatori, non avendo dunque mai trovato polli che non fossero in stato di conflitto o di stress, hanno rapidamente dedotto che il fattore libertà poteva essere eliminato d’ufficio, e hanno incominciato a chiedersi se i polli non provassero un maggior «benessere» in cattività. Bisogna sapere che, tradotto nella loro lingua, «il benessere di un animale è giudicato soddisfacente se si sente in sicurezza, se non prova dolore, se non presenta sintomi di fastidio o frustrazione».
Dal paragone emerge, lampante, la constatazione che i polli preferiscono le gabbie.
Senza timore di esagerare, si può dire che l’interrogativo non sia neppure come può un pollo riuscire a sopravvivere ad una prigionia tanto dura, bensì provare scientificamente che fra l’aia e la batteria industriale il pollo preferisce la gabbia. Non ci sarà dunque da stupirsi se all’alba del ventunesimo secolo, in una società "progredita", di elevato livello culturale, scientifico e tecnico, ci si proporrà di provare e di scrivere nero su bianco, in pubblicazioni ufficiali destinate a informare e a convincere, che un essere vivente al quale la natura ha dato zampe per correre, ali per volare e un becco per beccare in terra, quando è posto davanti alla scelta fra la libertà e la detenzione, preferisce essere incarcerato.
Risultati di questo genere, nella loro ambizione di diventare autorevoli, sono innanzitutto la prova di una fiducia pressoché illimitata in un processo di istupidimento collettivo, sul quale ritorneremo in seguito. Provano che lo scopo (malamente dissimulato) dell’economia su scala mondiale è di sottoporre ciò che vive alle condizioni dettate dall’industria. Provano anche che la scienza è sempre più spesso chiamata alla riscossa per ridefinire la facoltà d’adattamento ottimale ai peggiori vincoli del produttivismo. E certo non sarà la prima volta né, indubbiamente, l’ultima, che gli zelanti membri della comunità scientifica vorranno sapere fino a che punto si possono spingere con precisione i limiti del tollerabile, in una prospettiva di applicazioni razionali, sistematiche e normative a proposito delle quali si comincia a suggerire che potrebbero essere assimilate al «benessere».
In questo senso la sorte dei polli, che non vivono più in nessun luogo allo stato brado, che non hanno più un ambiente naturale che li accolga, è di buon auspicio per la nostra, se non altro a titolo simbolico: infatti l’infelice volatile figura qui, per poche pagine ancora, solo come metafora. Agli occhi dell’economia fanatica, l’essere vivente in generale e l’umano in particolare, sono stati, sono o saranno relegati (e mai termine fu più adeguato) sotto la stessa etichetta, come ben presto, e anche troppo spesso, avremo occasione di verificare.
Giacché è dunque possibile provare che i polli preferiscono le gabbie, e anche, va precisato, che i vitelli preferiscono essere incatenati da soli nel buio (altrimenti si calpestano a vicenda), che i maiali preferiscono starsene con un cappio al collo nella sporcizia (altrimenti si mangiano tra di loro), vi è luogo di credere che, con un po’ di applicazione, si potrebbe provare altrettanto facilmente che le otarie preferiscono i circhi, le orche le piscine, i pesci gli acquari, i conigli selvatici o i lupi i recinti. Ma, procedendo su questa linea, forse che con studi adeguatamente condotti e «relativamente sofisticati», non si troverebbe qualcuno pronto a sostenere che gli indiani preferiscono vivere nelle riserve, che gli ebrei o gli zingari preferiscono i campi di concentramento, che i neri preferiscono viaggiare nella stiva delle navi, con i ferri alle caviglie e la palla al collo, come peraltro si ostinano a provarci ancora oggi, preferendo ammucchiarsi a decine nelle carrette del mare per scappare da paesi dove, se lasciati in libertà e affidati a loro stessi, tendono a dilaniarsi reciprocamente? Questa era, guarda caso, l’argomentazione degli schiavisti del diciannovesimo secolo: lo schiavismo «proteggeva i negri» dalle guerre tribali, dalle mutilazioni rituali e dal cannibalismo, e questo lo promuoveva al rango di missione «umanitaria», tanto per riprendere una delle espressioni più in voga oggi.
Poveri cannibali, così ansiosi di venire protetti dai loro simili! Nel tempo in cui bastava chiamarli così per sentirsi autorizzati a sterminarli, Montaigne scriveva che gli indiani «cannibali», deportati e portati a spasso per le strade di Rouen, «avevano notato che c’erano fra noi uomini colmi d’ogni sorta di comodità, e che le loro metà (hanno nel loro idioma codesto modo di chiamar gli uomini «metà» gli uni degli altri) mendicavano alla loro porta, rese scarne dalla fame e dalla povertà, e trovavano strano come queste metà bisognose potessero patire una tale ingiustizia senza saltare alla gola degli altri o appiccare il fuoco alle loro case». In quei tempi di oscurantismo scientifico, i selvaggi, nell’ignoranza propria dello stato di natura, non sapevano ancora che un giorno si sarebbe potuto provare che quelle «metà» preferivano la loro miseria all’opulenza altrui, e che al cannibalismo e alle lotte tribali si sarebbe opposta la panacea dei lavori forzati nelle miniere d’argento, assolutamente preferibile ai rischi e alle tensioni della vita comunitaria.
Se i polli preferiscono le gabbie (non lo ripeteremo mai abbastanza), non si vede infatti perché gli umani non dovrebbero preferire le condizioni, per quanto penose e oltraggiose possano essere, che limitano una libertà di cui non saprebbero far buon uso e che si ritorcerebbe contro loro stessi. Basterebbe dunque spiegar loro (magari provare loro) che non c’è nulla di meglio delle regole imposte dagli altri, e che sarebbe molto più penoso volerle cambiare o addirittura tentare di liberarsene.
 
L’arruolamento della scienza
La vocazione della scienza moderna non è dunque (o perlomeno non solo) comprendere il mondo fisico o padroneggiarne il funzionamento, ma anche cercare di giustificare, e in modo obiettivo, la cattività , la violenza o l’oppressione. Insomma, provare, sempre e ancora, su un piano pressoché totemico, che i polli preferiscono le gabbie. […]
Che si creda o no nella solidarietà di tutto ciò che vive, non si tarderà a comprendere che nell’era industriale la condizione dei polli, come quella degli altri animali, prefigura o rivela in una luce sempre più cruda la nuova condizione umana. Fin d’ora, alla «clientela prigioniera» viene ingiunto di preferire l’inquinamento e i prodotti nocivi piuttosto che essere privata di certi beni che il fanatismo consumistico ha reso obbligatori. Le indagini demoscopiche, i sondaggi di opinione, gli studi di mercato provano statisticamente che un cittadino normale preferisce respirare l’anidride carbonica, bersi soluzioni di nitrati, ingoiare alimenti sintetici piuttosto che essere privato di una segreteria telefonica, di un detersivo con gli agenti sbiancanti o di un’automobile con la climatizzazione, e che preferisce rimbambire con i giochi televisivi e i parchi dei divertimenti per «sentirsi al sicuro, non provare dolore, non presentare sintomi di fastidio o frustrazione».
Secondo la scienza economica, non dobbiamo più definire il nostro benessere in funzione dei nostri bisogni o dei nostri sogni, ma in funzione delle necessità dell’industria e delle leggi di mercato. Poco importa sapere come il pollame umano potrebbe svilupparsi all’aria aperta e alla luce del giorno, ma a quale prezzo preferirebbe una gabbia in cui sentirsi al sicuro, senza dolore, «senza sintomi di fastidio e frustrazione».
Là dove la tirannia impone una costrizione, la democrazia mercantile esige un consenso. E sa come ottenerlo. […]
 
I polli umani
Ogni volta che una foresta è rasa al suolo, un fiume canalizzato, gli animali selvatici scacciati o abbattuti, i prati resi sterili o trasformati in autostrade, in terreni edificabili e in edifici, si sostituisce alla natura libera un costrutto artificiale, arbitrario e autoritario; a mano a mano che veniamo privati di alberi, sorgenti e uccelli, veniamo spinti verso parcheggi, strade, parchimetri, pedaggi, «città-satellite», «spazi verdi» e «spazi-gioco», vasche di sabbia e programmi televisivi. Tutto ciò che ci tolgono sul piano della natura, ci viene reso sotto forma di costrizioni. Non siamo più indotti a trovare il nostro posto nel ciclo stagionale, nel succedersi degli orizzonti o nel concatenamento delle generazioni, bensì rinviati alla nostra individualità, al «ciascuno a casa propria» e al «ciascuno per sé», a spazi ristretti, all’immediato, al breve termine. Già ora sono in vendita cuffie che coprono le orecchie ma anche gli occhi, limitando la portata sensoriale alla superficie degli organi ricettivi, e capaci di dare del mondo situato al di là della cornea o del timpano soltanto un’idea illusoria. Non veniamo più invitati a trovare il nostro posto nell’ordine della natura, ma forzati a guadagnarcelo nei simboli della società, in una cuccia da prendere o lasciare, assegnataci dai funzionari del grande canile sociale. In quest’universo tautologico che ci rimanda soltanto ai propri segnali, tutto ciò che va oltre l’individuo tende a diventare ansiogeno. La minima presenza è percepita come fastidiosa o minacciosa, la città come un ambiente oppressivo e malsano, la strada come uno spazio pericoloso, saturo di frecce, segnaletica, direzioni obbligatorie e sensi vietati. Privato di ogni rapporto con i ritmi del giorno e delle stagioni, con il ritorno dei migratori o il movimento della linfa, il tempo, ormai solo cronometrico, esercita una pressione ininterrotta. Smarriti in un’infinita suddivisione dei compiti, separati dal proprio risultato, i gesti del lavoro assomigliano a rituali astratti, e le immagini tridimensionali offrono ormai, dell’esterno, soltanto una realtà di sintesi. Passare dal lavoro al tempo libero significa passare dallo schermo del computer allo schermo della televisione. E così, a poco a poco, si costituisce un universo di schermi, un universo-schermo, frapposto tra ciò che resta del mondo e ciò che resta di noi. In questo sistema di segni, senza alberi, senza stelle e senza sole, l’informatizzazione del mondo continua ad operare sui suoi sudditi un’eseresi della realtà, una codificazione, una virtualizzazione del reale come se qualsiasi dimensione spazio-temporale si fosse all’improvviso trasformata in una rete materiale di griglie, codici, connessioni e interdipendenze.
Proprio come gli industriali hanno tutto l’interesse ad inquinare l’acqua per poi disinquinarla, vendercela e distribuirla come un prodotto, o a «sporcare di nafta» o «imbottire di amianto» per poi «ripulire dalla nafta» e «ripulire dall’amianto», ad avvelenare l’aria per venderci le maschere, a distruggere la natura per venderci le sue rappresentazioni, allo stesso modo hanno tutto l’interesse a rendere cannibalesca la società, selvaggia la concorrenza, aggressiva la città, favorendo così una preferenza per i gusci e i mini-universi abitabili, ossia equipaggiati di tutti quei beni funzionali che ci permetteranno di sopravvivere in essi «senza sintomi di fastidio e frustrazione», grazie alle immagini che essi avranno appositamente fabbricato per riversarle in quei mini-universi, e grazie agli ansiolitici che ce li renderanno sopportabili. Grazie, cioè, alla «convivialità« delle città moderne, i sistemi di sorveglianza, di allarme e di sicurezza permetteranno di portare a compimento la fortificazione di quei rifugi, trasformandoli in bunker.
Dopo aver sottratto i cittadini alla natura per acclimatarli in gabbie di cemento, rimane ancora da sottrarli ai propri ritmi biologici per sottoporli al ritmo industriale. Non manca certo la coerenza ai pianificatori dello spazio e del tempo: è già da un pezzo che il ritmo della macchina lotta vittoriosamente contro quello del pianeta e dei suoi abitanti; intere popolazioni si vedono ormai trascinate ad ottemperare ciò che la tecnica comanda. Grazie all’energia nucleare, è la società intera a doversi tener pronta a reagire al funzionamento buono o cattivo di un macchinario, e grazie alla televisione sappiamo riconoscere con un solo colpo d’occhio ciò che non ha né realtà né esistenza: non lo si vede in televisione. L’individuo ha già sviluppato comportamenti riflessi analoghi: costretto ad affidarsi alle necessità della produzione invece che al cosmico alternarsi del giorno e della notte, dell’inverno e dell’estate, e invece che al proprio metabolismo, l’operaio del settore edile è diventato un nomade che si sposta di cantiere in cantiere, da una roulotte all’altra. Il custode di un’industria a fuoco continuo, di una produzione a flusso teso o di una catena di montaggio preferisce invertire i propri periodi di attività e riposo, accettare che il suo sonno sia contrariato dal ritmo della città in cui gli tocca abitare, e che la vita sentimentale, familiare e sociale sia compromessa o rovinata da un orario di lavoro che va controcorrente. Il bisogno che lo spinge ad accettare un tale sconvolgimento lo induce a chiedere, in cambio della propria autodistruzione, solo un compenso finanziario, generalmente modesto. A questa perturbazione endogena risponde un’angoscia esogena: adattatosi all’ambiente artificiale e perverso che, alla fin fine, gli offre solo una sicurezza illusoria, il soggetto industriale rischia di sentirsi vulnerabile appena si azzarda ad uscire dalla gabbia virtuale che si è allestito da sé, dalla quale, tuttavia, sogna soltanto di poter evadere.
Un po’ come i bambini che il campanello della scuola fa correre a rotta di collo e gridando nel cortile per la ricreazione, ogni vacanza rovescia sulle strade milioni di automobilisti ebbri di gas di scarico, molti dei quali, poco più tardi, saranno raccolti col cucchiaino dopo essere stati «liberati» dall’abitacolo della loro macchina dai pompieri. La maggior parte di quelli che sopravvivono non faranno altro che andare ad ammucchiarsi altrove, in luoghi meno inquinati e più aperti, fintantoché ce ne saranno. Questa frenesia, che certamente tradisce un’«acclimatazione» ancora imperfetta, assume ovviamente fra i volatili una dimensione estrema, che ancora risparmia gli umani: un pollo allevato in un ambiente da campo di concentramento, e poi reso improvvisamente alla libertà, subisce l’aria, la luce e lo spazio come un’aggressione. L’animale, disorientato, si mette a correre a perdifiato, senza una meta, senza un punto di riferimento. Abbagliato, confuso, spaventato, cade stecchito dopo poche decine di metri, vittima dell’iperventilazione o di un attacco di cuore. Insomma, fuori dalla gabbia non c’è salvezza! [...]
 
Rimbambimento collettivo
L’esperienza mostra che un individuo investito di autorità, dotato di una funzione ufficiale e di titolo universitario elevato, può affermare ad alta voce, con sguardo diretto e sorriso sulle labbra, che è meno pericoloso vivere vicino a una centrale nucleare piuttosto che su un terreno granitico, che la crescita demografica crea posti di lavoro, che l’AIDS colpisce soltanto omosessuali, che le nubi radioattive si fermano alla frontiera, che i bombardamenti sono effettuati nell’interesse dei bombardati, che radere al suolo una foresta la rigenera, che la «libera concorrenza» fra i contadini del Sahel e quelli del Midwest «ottimizza la produzione mondiale», che abbattere gli uccelli migratori che si riproducono non influisce sul loro numero, che la preservazione dello strato di ozono indispensabile alla vita della terra costa troppo cara per essere presa in considerazione, che la clonazione permetterà di salvare le specie minacciate, che la deportazione delle popolazioni viene fatta per uno scopo umanitario, che la distruzione del mondo è inerente al cammino del progresso oppure, ricordiamo ancora un volta, che i polli preferiscono le gabbie.
[…]
Queste manipolazioni che offendono gravemente l’intelligenza hanno senso soltanto se si rivolgono a una popolazione non soltanto ignorante o incerta, ma anche rimbambita, intellettualmente incapace di negoziare la fiducia cieca dovuta ai suoi mentori, truffatori e falsari. Tutti fanno del loro meglio per rendere fittizio il reale oppure autentica la finzione, per confondere il falso e il vero, per dare rappresentazioni di un mondo naturale al quale non abbiamo più accesso se non per errore o per effrazione. La valutazione non si fonda sui fatti, bensì sulle statistiche; non sulla realtà, ma su ciò che la misura o la rappresenta, in base a criteri facilmente arbitrari o parziali. La simbologia non è più portatrice del reale; sta al reale adeguarvisi, e materializzare la dimensione simbolica. Tutto sta nel rendere la sofferenza tollerabile, eventualmente nel persuaderci che  essa non esiste, oppure nel chiamarla «benessere». Il consenso che la società industriale esige dalle sue vittime per trasformarle in sue complici implica che esse aderiscano a un discorso, a un’ideologia, o per meglio dire: a una verità scientifica. Una volta private dell’accesso alla realtà, le vittime si trovano spossessate dei mezzi per analizzarla; la sofferenza, che nessuno vorrebbe, è resa necessaria, e quindi più tollerabile, quand’è giustificata da ragioni scientifiche indiscutibili come la legge di gravità, il teorema di Pitagora o il principio di Archimede. La sperimentazione scientifica, che non può essere seriamente contestata se non per mezzo di una contro-sperimentazione, sfugge al controllo e al giudizio dei profani oltre che alla responsabilità degli iniziati. Lo stesso sperimentatore, libero dal pensiero e dall’emozione per dovere professionale, contribuisce a rendere tollerabile, se non addirittura necessaria, la sofferenza che egli studia, infligge o raccomanda.
Per far ammettere il carattere inoffensivo o legittimo dell’oppressione, è essenziale occultare il dolore che l’oppressione provoca, rendere tale dolore indifferente o necessario per coloro che vi assistono e che, lasciati a se stessi, alla propria ignoranza o alla propria incertezza, potrebbero, per «antromorfismo», sentirsene profondamente toccati. È rendendosi insensibili alla sofferenza altrui che riusciamo al meglio a dissociarci da essi, e a farne, più che estranei o nemici, semplici oggetti. E certo non è l’economia che ci dissuaderà dal reificare il mondo e gli esseri viventi, dal considerare la Terra come un immenso negozio pieno di mercanzie, soprattutto quando la minaccia che queste si esauriscono permette di aumentarne i prezzi.
Il semplice fatto di guardare la natura come un oggetto invece che come un socio impone un rapporto di forze, una dominazione che non prevede scambi, come in particolare ci mostra, nel campo del genio genetico, il rifiuto di correggere con un principio precauzionale il principio dell’obiettività esente da responsabilità. L’obiettività scientifica tanto evocata dai soldati in camice bianco del disastro planetario, l’oggettivizzazione senz’anima e senza morale, presenta tutte le apparenze di un principio di irresponsabilità o di una irresponsabilità di principio, tanto a priori quanto a posteriori.
Senza parlare delle frodi deliberate: plagi, dati mozzi o incompleti, a cui si dedicano alcuni poco scrupolosi membri della comunità scientifica in modo che la loro carriera e la loro smania di pubblicare passi prima della verità. […]
Il reale non è più soltanto arbitrario, è ormai falsificato anche nelle sue più infime manifestazioni: a Parigi, la piazza Saint-André-des-Arts è stata ristrutturata per assomigliare all’immagine che di essa offre il cinema americano, dal momento che altrimenti i turisti rimarrebbero delusi. I dipinti e gli affreschi del Rinascimento italiano sono sistematicamente «restaurati» in modo che possano finalmente assumere i colori a cui ci hanno abituati i cartoni animati e le scatole di caramelle. Come i doccioni di Notre-Dame, le statue dell’Eretteo, rose dall’inquinamento, sono state a poco a poco sostituite da stampi in resina sintetica; tutto ciò che è vero progressivamente verrà sostituito dal falso, oppure dall’illusione del vero, affinché il falso ci sia somministrato per vero, e la costrizione per benessere.
Per negare ciò che è stato stabilito o anche soltanto suggerito degli specialisti, bisogna abbandonarsi all’ignoranza, a una sensibilità subito definita leziosa, oppure all’«antropomorfismo». Se gli «zoofili», nel loro «oltranzismo», si commuovono di fronte alle condizioni inflitte alle galline, ci spiega il cronista di Filières avicoles, è solo per analogia: «Non vorrei vivere così!».
«Per fortuna un comportamento di questo genere, privilegio dei paesi ricchi, non ha ancora toccato i paesi in via di sviluppo. Perché allora davvero ci sarebbe da temere per la loro autosufficienza alimentare», aggiunge, con un cinismo che meritava questa citazione. Chiamata alla riscossa per fare causa comune, la comunità scientifica si è così ben allontanata dall’analogia antropomorfica, che la natura, affidata a una penna esperta, appare ormai come una semplice metafora ricalcata sulle ultimissime tecnologie dell’uomo, ovunque disseminata di codici, griglie, marcatori, grammatiche o alfabeti. Se si è riusciti a pensare che l’inconscio sia strutturato come un linguaggio, il mondo fisico sembra ormai strutturato come un software, «il software della vita», per riprendere la felice immagine di Guy Paillotin, membro della comunità scientifica e direttore dell’Istituto Nazionale della Ricerca Agronomica. Nell’attesa che questo avvenga, si farà il possibile per piegare il mondo fisico a questo confortevole modello, che così diventerà effettivamente reale. Il sapere da laboratorio elimina a poco a poco il sapere sperimentale, derivato dal rapporto diretto con la materia, con una data realtà, e lascia campo libero e carta bianca ad una scienza sempre più lontana, sempre più astratta, oscura e astrusa, a sua volta così frammentata in saperi specifici che i membri della comunità scientifica specializzati in un campo della loro disciplina si dichiarano incompetenti su tutto quello che riguarda i campi immediatamente contigui. I loro lavori sono d’altronde così orientati, o spesso eseguiti per incarico di enti commerciali, e per fini così eminentemente pragmatici, che la ricerca è sempre più partecipe di una scienza arruolata, e talvolta mercenaria.
 
Lobotomia
Più il reale è inaridito alla fonte, più è trasformato durante il suo corso, più è importante che non lo si possa giudicare all’arrivo. Per farci inghiottire le «farine» ideologiche, piuttosto che per farci andar giù la spuntatura del becco, si impone un’asportazione del cervello, ma su grande scala, e con metodi tanto intensivi quanto quelli che si applicano all’industria, all’agricoltura, all’allevamento e al resto. Mentre le nazioni «sviluppate» sembrano sul punto di rinunciare a trasmettere il loro sapere o la loro cultura grazie al fatto di trasformare le scuole in «luoghi di vita», una propaganda forsennata si incarica di ridurre le coscienze a livello zero, quello massimamente propizio alla libera circolazione delle merci inutili e dei concetti monchi. Mentre ha corso questa moneta falsa, il piacere, l’estetica o la morale non valgono più del dolore, della dignità o dell’emozione, parametri non significativi, valori non commerciabili che quindi non appariranno in nessun bilancio.
La tirannia, come abbiamo detto, non ha bisogno di convincere: si è dotata dei mezzi per costringere. La democrazia invece si è condannata a persuadere e si dà da fare in tal senso. La comunicazione, diventata la forma moderna della propaganda intensiva, si insegna all’università, come una tecnica. Tutto ciò che si rivolge alla stampa e al pubblico passa dal filtro della comunicazione e, in primo luogo, la propaganda industriale, destinata a una popolazione clientelizzata per la quale tutto deve essere ricondotto all’immagine. La qualità, l’eccellenza, l’adeguatezza, la competitività hanno tutte eguale risalto, ma nulla risalta più della menzogna.
Ogni processo che tenda a valutare la produzione in risultati senza alludere a ciò che li rende possibili, è menzogna. Qualsiasi produzione che si astenga dal quantificare il costo di ciò che ha inizialmente distrutto per far bella mostra dei suoi profitti, e il costo di ciò che in seguito andrà pagato per controbilanciarne gli effetti, è una contabilità truccata, fraudolenta, e dunque ancora menzogna. Tutto ciò che tende a cancellare le tracce, a confondere le piste, a impedire il paragone, a cancellare la memoria, è dissimulazione, e quindi, ancora, menzogna. Tutto ciò che tende a valorizzare, a ottimizzare, a rendere positiva una realtà necessariamente complessa, a dare un’interpretazione o una distorsione di tale realtà al posto della realtà stessa, sa di falsificazione, e quindi di menzogna. E non è altro che un mezzo per lobotomizzare la gente.
Deformare i fatti, nasconderli, inventarseli o contraffarli, gonfiarli o sgonfiarli in una prospettiva ideologica, annegarli sotto una marea di informazione indifferenziata è, anche questo, diventato una tecnica che ha un nome adeguato: la disinformazione. Un altro modo per lobotomizzare la gente.
Come la carne da cannone un tempo esposta alle mitragliatrici delle rivalità nazionali, il soggetto delle democrazie commerciali è diventato il bersaglio dell’economia su scala mondiale e dello spettacolo universale. Confinato al domicilio coatto in casa sua, direttamente connesso agli schermi del potere, immerso nell’universo degli show, delle news, dei jingle, degli scoop, e delle star, con la totale libertà di passare da un canale all’altro, esposto inerme al fuoco di fila delle canzonette, dei melodrammi, degli imbonimenti ed ai funambolismi dei dibattiti, monitorato nella scelta dei programmi da istituti di statistica e da misurazioni di audience che ad ogni istante ravvivano la fiamma del telespettatore ignoto, tutto ci persuade che la realtà esista soltanto alla televisione, che il focolare domestico o la donna che rimane a casa possano essere assimilati, come dice la pubblicità, a un altro programma, tanto che il mondo esterno ben presto assomiglierà a un canale criptato. Un altro mezzo per lobotomizzare la gente.
 
 
[I polli preferiscono le gabbie, 2000]