Contropelo

La guerra è la salute dello Stato

Randolph Bourne
 
A molti americani delle classi che si considerano importanti, l'ingresso in guerra ha recato un senso di santità dello Stato che, se ci avessero riflettuto sopra, sarebbe loro sembrata un’improvvisa e sorprendente alterazione nelle loro abitudini di pensiero. In tempi di pace, abitualmente ignoriamo lo Stato preferendogli controversie politiche partigiane, o lotte personali per le cariche, o il perseguimento di politiche di partito. È con il Governo, piuttosto che con lo Stato, che hanno rapporti coloro che hanno orientamenti politici. Lo Stato è ridotto a emblema misterioso che emerge al livello cosciente solo in occasione delle feste patriottiche. [...]
Ma con lo shock della guerra, lo Stato ritorna in auge. Il Governo, senza mandato del popolo, senza consultare il popolo, conduce tutte le negoziazioni, i tira e molla, le minacce e le spiegazioni, che lentamente lo portano in collisione con qualche altro Governo, e gentilmente e irresistibilmente fa scivolare il paese in guerra. A beneficio dei cittadini orgogliosi e sprezzanti, si fa forte di una lista degli insulti intollerabili che sono stati scagliati contro di noi dalle altre nazioni; a beneficio di coloro che esercitano liberalità e beneficenza, possiede un insieme convincente di scopi morali che il nostro ingresso in guerra raggiungerà; alle classi ambiziose e aggressive, può sussurrare gentilmente di un ruolo più grande nei destini del mondo. Il risultato è che, anche in quei paesi dove il compito di dichiarare la guerra è teoricamente nelle mani dei rappresentanti del popolo, non si sa di nessuna assemblea legislativa che abbia mai rifiutato la richiesta di un Esecutivo che, dopo aver condotto tutta la politica estera in stretta riservatezza e irresponsabilità, ordini alla nazione di entrare in battaglia. 
I buoni democratici sono soliti avvertire la differenza cruciale tra uno Stato in cui il Parlamento popolare o il Congresso dichiara la guerra, e lo Stato in cui un monarca assoluto o la classe dominante dichiara la guerra. Ma alla prova rigorosa dei fatti, la differenza non è così evidente. Nelle repubbliche più libere, così come negli imperi più tirannici, tutta la politica estera, i negoziati diplomatici che producono o prevengono la guerra, sono egualmente proprietà privata della parte esecutiva del Governo e sono egualmente immuni da controlli da parte del corpo popolare, o del popolo stesso come massa che vota. 
Nel momento in cui la guerra è dichiarata, tuttavia, la massa del popolo, attraverso una qualche alchimia spirituale, si persuade di aver voluto e compiuto l’atto in prima persona. Essa quindi, con l’eccezione di pochi scontenti, procede permettendo di essere irregimentata, coartata, sconvolta in tutti gli ambiti della sua vita, e fatta diventare un solido strumento di distruzione nei confronti di qualunque popolo sia entrato, nello schema di cose indicato, entro il raggio della disapprovazione del Governo. Il cittadino getta via il suo disprezzo e la sua indifferenza nei confronti del Governo, si identifica con i suoi scopi, ravviva tutte le sue memorie e i suoi simboli militari, e lo Stato, una volta di più, cammina, augusta presenza, attraverso l’immaginario degli uomini. Il patriottismo diventa il sentimento dominante e produce immediatamente quella confusione intensa e disperata tra le relazioni che l’individuo ha e dovrebbe avere con la società di cui è parte. 
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Lo Stato è il Paese che agisce come unità politica, è il gruppo che agisce come depositario della forza, autore della legge, arbitro della giustizia. La politica internazionale è una «politica di potenza» perché si tratta di relazioni tra Stati; ed è proprio questo che sono gli Stati, infallibilmente e disastrosamente: vaste aggregazioni di forza umana e industriale che possono essere slanciate l’una contro l’altra in guerra.
Quando un paese agisce come un insieme in rapporto con un altro paese, sia imponendo leggi sui propri abitanti, sia coartando e punendo individui o minoranze, sta agendo come uno Stato. La storia dell’America come paese è molto differente da quella dell’America come Stato. In un caso è l’epopea della conquista pionieristica della terra, dell’aumento della ricchezza e dei modi in cui è stata usata, dell’impresa dell’educazione, della realizzazione degli ideali spirituali, della lotta delle classi economiche. Ma come Stato, la sua storia è quella di interpretare un ruolo nel mondo, fare la guerra, ostacolare il commercio internazionale, impedire a se stessa di dividersi in pezzi, punire quei cittadini che la società è concorde nel ritenere aggressivi, ed esigere i soldi per pagare tutto questo. 
Governo d’altro canto non è sinonimo di Stato né di Nazione. È la macchina con cui la Nazione, organizzata come Stato, compie le sue funzioni statuali. Il Governo è una struttura dell’amministrazione delle leggi e dell’impiego della forza pubblica. Il Governo è l’idea dello Stato messa in opera praticamente nelle mani di uomini ben definiti, concreti e fallibili. È il segno visibile della grazia invisibile. È il Verbo fatto carne. E ha necessariamente i limiti inerenti a tutte le cose pratiche. Il Governo è l’unica forma in cui possiamo considerare lo Stato, ma non è affatto identico ad esso. Lo Stato è un concetto mistico, questo non bisogna mai dimenticarlo; il suo fascino e la sua importanza insistono dietro la struttura del Governo e dirigono le sue attività. 
I periodi di guerra mettono in rilievo l’ideale dello Stato in modo molto chiaro, e rivelano atteggiamenti e tendenze che erano nascoste. Nei periodi di pace il senso dello Stato langue in una repubblica che non sia militarizzata. Poiché la guerra, essenzialmente, è la salute dello Stato.
L’ideale dello Stato è che entro il suo territorio il suo potere e la sua influenza debbano essere universali. Come la Chiesa è il mezzo per la salvezza spirituale dell’uomo, così lo Stato è pensato come il mezzo per la sua salvezza politica. Il suo idealismo è un sangue sostanzioso che fluisce in tutte le membra del corpo politico. Ed è precisamente in guerra che la necessità dell’unione sembra maggiore e quella dell’universalità sembra più fuori questione.
Lo Stato è l’organizzazione dell’orda per agire offensivamente o difensivamente contro un’altra orda organizzata in modo simile. Più terrificante è l’occasione di difesa, più serrata sarà l’organizzazione e più coercitiva l’influenza su ogni membro dell’orda. La guerra invia il flusso degli scopi e delle attività fino al livello più basso dell’orda e fino alle sue branche più remote. Tutte le attività della società sono collegate il più velocemente possibile, con lo scopo fondamentale di costruire un’offensiva militare o una difesa militare, e lo Stato diventa ciò che in tempo di pace ha vanamente combattuto per diventare: l’inesorabile arbitro e determinatore degli affari, degli atteggiamenti e delle opinioni degli uomini. La fastidiosa calma di vento finisce, le correnti incrociate svaniscono e la nazione si muove lentamente e pigramente, ma con velocità e integrazione costantemente accelerate, verso il grande fine, verso la «condizione pacifica di essere in guerra», di cui L.P. Jacks ha parlato in modo così indimenticabile. 
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La guerra è la salute dello Stato. Mette automaticamente in moto in tutta la società quelle forze irresistibili che spingono all’uniformità e alla cooperazione appassionata con il Governo nello sforzo di costringere all’obbedienza i gruppi di minoranza e gli individui cui difetta il più ampio senso dell’orda. La macchina del Governo stabilisce e impone le pene più drastiche; le minoranze sono o intimidite fino al silenzio o convinte con un sottile processo di persuasione che può far sembrar loro vero di essere piuttosto convertite.
Naturalmente l’ideale della lealtà perfetta, della perfetta uniformità non è mai veramente raggiunto. Le classi sulle quali il lavoro amatoriale della coercizione ricade sono incrollabili nel loro zelo, ma spesso la loro agitazione invece di convertire serve puramente a irrigidire la loro resistenza. Le minoranze sono rese tristi e alcune opinioni intellettuali amare e satiriche. Ma in generale la nazione in tempo di guerra raggiunge un’uniformità di sentimento e una gerarchia di valori che costituiscono l’apice indiscutibile dell’ideale dello Stato, che non sarebbe possibile produrre per mezzo di nessun altro fattore che la guerra.
La lealtà — o mistica devozione allo Stato — diventa il più grande valore umano immaginato. Altri valori, quali la creazione artistica, la conoscenza, la ragione, la bellezza, il miglioramento della vita, sono istantaneamente e quasi unanimemente sacrificati e le classi importanti che si sono autocostituite come agenti dilettanti dello Stato sono impegnate non solo nel sacrificio di questi valori per se stesse, ma nella costrizione al sacrificio di tutte le altre. 
La guerra — o almeno la guerra moderna condotta da una repubblica democratica contro un nemico potente — sembra raggiungere per una nazione quasi tutto ciò che il più infiammato idealista politico potrebbe desiderare. I cittadini non sono più indifferenti al loro Governo, ma ogni cellula del corpo politico è colma di vita ed attività. Siamo finalmente sulla strada della piena realizzazione di quella comunità collettiva in cui ogni individuo in qualche modo contiene la virtù dell’intero.
In una nazione in guerra, ogni cittadino si identifica con il tutto e si sente immensamente fortificato in quella identificazione. Lo scopo e il desiderio della comunità collettiva vive in ogni persona che si getta con tutto il cuore nella causa della guerra. L’incomoda distinzione tra la società e l’individuo è quasi cancellata. In guerra l’individuo diventa quasi identico alla società cui appartiene. Egli raggiunge una superba sicurezza di sé, un’intuizione della giustezza di tutte le sue idee ed emozioni in modo tale che nella soppressione degli oppositori o degli eretici egli è invincibilmente forte; egli sente dietro di sé tutto il potere della comunità collettiva. L’individuo, come essere sociale, in guerra sembra quasi aver raggiunto la sua apoteosi.
A seguito di nessun impulso religioso la nazione americana si sarebbe potuta pensare capace di questa devozione di massa, di questo sacrificio, di questa fatica. Certamente neppure per un qualunque bene terreno, come l’educazione universale o la sottomissione della natura, avrebbe versato il suo tesoro e dato la sua vita, o avrebbe permesso che fossero prese nei suoi confronti severe misure coercitive come il prelievo forzato del suo denaro e dei suoi uomini. 
Ma per lo scopo di una guerra di autodifesa offensiva, intrapresa per sostenere una causa difficile per lo slogan della «democrazia», è stata disposta a raggiungere il più alto livello mai visto di sforzo collettivo.
Perché questi beni terreni, legati al miglioramento della vita, l’educazione dell’uomo e l’uso dell’intelligenza per realizzare ragione e bellezza nella vita comune della nazione, sono estranei al nostro tradizionale ideale di Stato. Lo Stato è intimamente legato alla guerra poiché è l’organizzazione della comunità collettiva quando agisce in modo politico, e agire in modo politico nei confronti di un gruppo rivale ha significato, lungo tutto il corso della storia, una cosa sola: guerra.
Non c’è nulla di oltraggioso nell’uso del termine orda in relazione allo Stato. È semplicemente un tentativo di ricondurre più vicino ai principi primi la natura di questa istituzione all’ombra della quale noi tutti viviamo, ci muoviamo e conduciamo la nostra esistenza. Gli etnologi generalmente concordano che la società umana ha fatto la sua prima apparizione come branco umano e non come insieme di individui o di coppie. L’orda è infatti l’unità originaria, e solo quando si fu differenziata poté svilupparsi l’individualità personale. Tutte le più primitive tribù di uomini che sopravvivono ai giorni nostri mostrano di vivere in una organizzazione sociale molto complessa ma molto rigida dove l’opportunità per il processo di individualizzazione è raramente data. Queste tribù rimangono orde rigidamente organizzate, e la differenza tra loro e lo Stato moderno è di grado della sofisticazione e varietà dell’organizzazione e non di genere. 
Gli psicologi riconoscono l’impulso gregario come una delle più forti pulsioni primitive che tiene insieme le orde delle differenti specie degli animali superiori. L’umanità non fa eccezione. La nostra bellicosa storia evolutiva ha impedito che l’impulso si estinguesse. Questo impulso gregario è la tendenza a imitare, a conformarsi, a fondersi insieme, ed è più potente quando l’orda si sente minacciata da un attacco. Gli animali si riuniscono insieme per la protezione, e gli uomini diventano più coscienti della loro collettività sotto la minaccia della guerra. 
La coscienza della collettività porta fiducia e un sentimento di forza accumulata che a sua volta provoca bellicosità, e la battaglia comincia. Nell’uomo civilizzato, l’impulso gregario agisce non solo per produrre un’azione concertata per la difesa, ma anche per produrre identità di opinione. Poiché il pensiero è una forma di comportamento, l’impulso gregario inonda il suo regno e richiede quel senso di pensiero uniforme, che il tempo di guerra produce con così grande successo. Ed è in questa alluvione della vita cosciente della società che il gregarismo produce il suo disastro. 
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L’impulso gregario stringe la sua presa in modo sempre più virulento perché, quando il gruppo è in movimento o intraprende una qualunque azione positiva, questo sentimento di stare insieme e di essere sostenuti dall’orda collettiva nutre grandemente quella volontà di potenza il cui nutrimento l’organismo individuale richiede così costantemente. Ci si sente potenti conformandosi, e ci si sente frustrati e deboli se si è fuori dalla folla. Di contro, anche se non si ha nessun accesso al potere, pensando e sentendo come tutti gli altri nel gruppo si percepisce almeno il caldo sentimento dell’obbedienza, la confortevole irresponsabilità della protezione. 
Congiungendosi come fa a queste vigorosissime tendenze dell’individuo — il piacere del potere e il piacere dell’obbedienza — questo impulso gregario diventa irresistibile nella società. La guerra lo stimola al più alto grado possibile, inviando le influenze della sua misteriosa corrente dell’orda, con le sue iniezioni di potere e obbedienza, fino ai più lontani recessi della società, a ogni individuo e piccolo gruppo che possa essere raggiunto. Ed è su questi impulsi che lo Stato — l’organizzazione dell’intera orda, dell’intera collettività — è fondato ed è di questi che fa uso.
Vi è naturalmente nel sentimento verso lo Stato un vasto elemento di puro misticismo filiale. Il senso di insicurezza, il desiderio di protezione, rimandano al proprio desiderio del padre e della madre con cui sono associati i primissimi sentimenti di protezione. Non è per nulla che il proprio Stato è sempre pensato come un Padre o come la Madre Patria, che la propria relazione verso di esso è concepita in termini di affetto familiare.
La guerra ha mostrato che in nessun luogo, sotto lo shock del pericolo, questi atteggiamenti infantili e primitivi hanno mancato di affermarsi di nuovo, tanto in questo paese che in ogni altro. Se noi non abbiamo l’intenso senso del Padre del tedesco che idolatra la sua Vaterland, come minimo nello Zio Sam abbiamo un simbolo di autorità protettiva e gentile, e nei molti manifesti materni della Croce Rossa vediamo quanto facilmente, nelle più tenere funzioni del servizio di guerra, l’organizzazione di comando sia concepita in termini familiari.
Un popolo in guerra è ridiventato, nel senso più letterale, un gruppo di bambini obbedienti, rispettosi, affidabili, pieni di quella fede ingenua nell’onniscienza e nell’onnipotenza dell’adulto che si prende cura di loro, che impone il suo dolce ma necessario comando su di loro e con il quale essi perdono la loro responsabilità e le loro angosce.
In questa recrudescenza di sentimenti infantili vi è un grande conforto e un certo aumento di potere. Su molta gente la fatica di essere un adulto indipendente grava pesantemente, e su nessuno più che su quei membri delle classi importanti a cui è stata lasciata in eredità o che hanno assunto le responsabilità di Governo. Lo Stato fornisce il più conveniente dei simboli sotto il quale queste classi possono mantenere tutte le attuali soddisfazioni pratiche del Governo, ma possono sbarazzarsi degli oneri psichici dell’età adulta. Essi continuano a dirigere l’industria e il Governo e tutte le istituzioni della società quasi come prima, ma ai loro occhi consapevoli, e agli occhi del pubblico in generale, essi hanno abbandonato i loro modi egoisti e predatori e sono diventati servitori leali della società, o di qualcosa più grande di loro: lo Stato. L’uomo che lascia la direzione di una grande impresa a New York per un posto nel servizio che si occupa dell’industria in tempo di guerra a Washington non cambia apparentemente di molto il suo potere o la sua abilità amministrativa. Ma psichicamente, che trasfigurazione è avvenuta! Sua è adesso, non solo il potere, ma anche la gloria! E il suo senso di soddisfazione è direttamente proporzionale non alla quantità autentica di sacrificio personale che può comportare il cambiamento, ma alla misura in cui egli ha mantenuto le sue prerogative industriali e il suo senso di comando. 
Da membri di questa classe emerge una certa insuperabile indignazione se il cambiamento dall’impresa privata al servizio dello Stato comporta qualunque perdita reale di potere e di privilegio personale. Se sacrificio pratico deve esserci, che sia, essi pensano, sul campo dell’onore, nelle morti in battaglia tradizionalmente acclamate, in quella via traversa al suicidio, come Nietzsche chiama la guerra. Lo Stato in tempo di guerra offre soddisfazione per questo desiderio reale, ma il suo valore più importante è l’opportunità che dà per questa regressione ad atteggiamenti infantili. Nella reazione a un attacco immaginato al proprio paese o ad un insulto al suo Governo ci si fa più vicini all’orda per la protezione, ci si conforma nei fatti e nelle parole, e si insiste con veemenza, che chiunque altro debba pensare, parlare e agire insieme. E si fissa il proprio sguardo adorante sullo Stato con occhi veramente filiali, come sul padre del gregge, il simbolo quasi personale della forza dell’orda e il leader e il fattore determinante della propria azione definita e delle proprie idee. 
[...]
Un paese in guerra — particolarmente il nostro paese in guerra — non agisce come un’orda del tutto omogenea. Le classi importanti hanno tutto il sentimento dell’orda nella sua più primitiva intensità, ma ci sono barriere, o almeno differenziali di intensità, di modo che questo sentimento non scorre liberamente e senza impedimenti attraverso l’intera nazione. Un paese moderno rappresenta un lungo processo storico e sociale di disaggregazione dell’orda. La nazione in pace non è un gruppo, è una rete di miriadi di gruppi che rappresentano la cooperazione e il comune sentire di uomini su ogni sorta di piani e in ogni sorta di interessi e imprese umane. In ogni paese industriale moderno ci sono piani paralleli di classi economiche con atteggiamenti, istituzioni e interessi divergenti — borghesia e proletariato, con le loro molte suddivisioni secondo il potere e la funzione, e perfino i loro intrecci, come quei lavoratori più altamente specializzati che abitualmente si identificano con le classi importanti e proprietarie e lottano per innalzarsi al livello borghese, imitando le sue consuetudini e i suoi modi culturali. 
Poi ci sono i gruppi religiosi con un senso di appartenenza ben definito, anche se in via di indebolimento, e ci sono i potenti gruppi etnici che si comportano quasi come colonie culturali del Nuovo Mondo, abbarbicati tenacemente alla lingua e alla tradizione storica benché la loro caratteristica di orda sia di solito fondata su simboli culturali piuttosto che statuali. Ci sono anche alcuni vaghi raggruppamenti settoriali. Tutte queste piccole sette, partiti politici, classi, livelli, interessi, possono agire come centri di attività e interesse per il sentimento dell’orda. Si intersecano e si intrecciano, e la stessa persona può essere membro di diversi gruppi differenti che si collocano su piani differenti. Occasioni differenti scateneranno il suo sentimento dell’orda in una direzione o nell’altra. In una crisi religiosa sarà intensamente conscia della necessità che la sua setta (o sotto-orda) prevalga, in una campagna politica, che il suo partito trionfi. 
Alla diffusione del sentimento dell’orda, quindi, tutte queste orde più piccole offrono resistenza. Alla diffusione di quel sentimento dell’orda che sorge dalla minaccia della guerra e che coinvolgerebbe normalmente l’intera nazione, gli unici gruppi che fanno seria resistenza sono quelli, naturalmente, che continuano a identificarsi con l’altra nazione da cui i componenti o i loro genitori sono venuti. In tempi di pace essi sono, sotto ogni aspetto pratico, cittadini del loro nuovo paese. Essi tengono vive le loro tradizioni etniche più che altro come un lusso. Invero queste tradizioni tendono rapidamente a estinguersi tranne dove sono in relazione con qualche causa nazionalistica ancora irrisolta all’estero, con qualche lotta per la libertà o qualche irredentismo. Se sono consciamente contrastate da una politica troppo insopportabile di americanismo, tendono a rafforzarsi. E in tempi di guerra, questi elementi etnici che hanno una qualunque relazione tradizionale col nemico, anche se la maggior parte degli individui possono avere poca reale simpatia per la causa del nemico, sono naturalmente tiepidi al sentimento dell’orda della nazione, che risale alle tradizioni dello Stato a cui essi non partecipano. Ma per i nativi imbevuti di sentimento dello Stato, una resistenza o un’apatia come questa sono intollerabili. Questo sentimento dell’orda, questa coscienza nuovamente risvegliata dello Stato, richiede universalità. I capi delle classi importanti, che sentono più intensamente questa costrizione dello Stato, richiedono un americanismo al cento per cento, tra il cento per cento della popolazione. Lo Stato è un dio geloso che non tollera rivali. La sua sovranità deve pervadere ciascuno, e ogni sentimento deve rientrare nelle forme stereotipate del militarismo patriottico e romantico che è l’espressione tradizionale del sentimento dell’orda statuale. 
Così sorge il conflitto all’interno dello Stato. La guerra diventa quasi uno sport tra cacciatori e prede. La ricerca dei nemici interni supera per attrattiva psichica l’assalto ai nemici esterni. L’intera estrema forza dello Stato è fatta pesare contro gli eretici. La nazione ribolle di una febbre lenta e insistente. Un terrorismo bianco è portato avanti dal Governo contro pacifisti, socialisti, nemici esterni, insieme a una persecuzione più dolce e non ufficiale contro tutte le persone o movimenti di cui si possa immaginare che abbiano rapporti col nemico. La guerra, che dovrebbe essere la salute dello Stato, unifica tutti gli elementi borghesi e la gente comune, e pone fuori legge il resto. [...] Le classi importanti devono trarre piacere nel dar la caccia e nel punire qualunque cosa sentano istintivamente non essere penetrata dalla corrente dell’entusiasmo dello Stato, benché lo Stato stesso sia effettivamente impedito nel suo sforzo di raggiungere quegli obiettivi per cui esse stanno appassionatamente lottando. La miglior prova di ciò è il fatto che, con una ricerca di cospiratori che è continuata con vigilanza incessante fin dall’inizio della guerra in Europa, i crimini concreti portati alla luce e puniti sono stati in quantità minore di quelle accuse per meri crimini di opinione o per l’espressione di sentimenti critici verso lo Stato o la politica nazionale.
La punizione dell’opinione è stata molto più feroce e incessante della punizione del crimine concreto. Irreprensibili americani anglosassoni, più prodighi di sfoghi pacifisti o socialisti dell’opinione pubblica dominante ossessionata dallo Stato, hanno ricevuto pene più severe ed anche maggior riprovazione, in molti casi, di cospiratori tedeschi assolutamente ostili. Un’opinione pubblica che, quasi senza protesta, accetta come giusta, adeguata, bella, meritata e in piena armonia con gli ideali di libertà e libertà di parola, una condanna a vent’anni di prigione per un semplice sfogo verbale, non importa quale, mostra di soffrire di un tipo di sconvolgimento sociale di valori, una specie di neurosi sociale, che merita analisi e comprensione. 
In occasione della nostra entrata in guerra, ci furono molte persone che predissero esattamente questo sconvolgimento di valori, che espressero il timore che la democrazia soffrisse più a casa propria con una America in guerra di quanto potesse guadagnare all’estero. Quel timore si è dimostrato ampiamente giustificato. La domanda se la nazione americana abbia agito come una democrazia illuminata che entrava in guerra per la difesa di ideali elevati, o come un’orda ossessionata dallo Stato, ha avuto una risposta decisiva.
Il responso è scritto e non può essere cancellato. La storia deciderà se la terrorizzazione dell’opinione e l’irreggimentazione della vita fossero giustificate sotto la più idealistica delle amministrazioni democratiche. E dimostrerà che quando la nazione americana aveva apparentemente l’opportunità di condurre una guerra nobile, con scrupoloso riguardo per la sicurezza dei valori democratici a casa, scelse piuttosto di adottare tutte le tecniche più odiose e coercitive del nemico e degli altri paesi in guerra, e di rivaleggiare nell’intimidazione e nella ferocia della punizione con i peggiori sistemi governativi dell’epoca.
Per la sua precedente incoscienza e mancanza di rispetto di un ideale dello Stato, la nazione apparentemente pagò pegno con una violenta virata all’altro estremo. Agì tanto precisamente come un’orda nella sua coercizione irrazionale delle minoranze, che non c’è alcuna artificialità nell’interpretare il progresso della guerra in termini di psicologia dell’orda. Essa, inconsciamente, ha messo nel più ampio risalto le vere caratteristiche dello Stato e la sua intima alleanza con la guerra. Ha fornito ai nemici della guerra e ai critici dello Stato i più efficaci argomenti possibili. La nuova passione per l’ideale dello Stato, inconsciamente, ha messo in movimento e ha incoraggiato forze che minacciano in modo molto concreto di riformare lo Stato. Ha mostrato a coloro che sono realmente intenzionati a porre fine alla guerra che il problema non è quello puro e semplice di portare a termine la guerra che porrà fine alla guerra.
La guerra ha bisogno di Stati e gli Stati hanno bisogno di guerra. Perché la guerra è un modo complicato in cui una nazione agisce, e agisce così in conseguenza di un obbligo spirituale che la spinge, forse contro tutti i suoi interessi, tutti i suoi desideri reali, e il suo reale senso dei valori. Sono gli Stati che fanno le guerre e non le Nazioni, e il pensiero stesso e quasi la necessità della guerra è strettamente connesso con l’ideale dello Stato. 
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La guerra è una funzione di questo sistema di Stati, e non potrebbe accadere se non in tale sistema. Le nazioni organizzate per l’amministrazione interna, le nazioni organizzate come una federazione di comunità libere, le nazioni organizzate in qualunque modo eccetto quello di una centralizzazione politica di una dinastia, o dei discendenti di una dinastia che ha subito delle riforme, non avrebbero la possibilità di farsi guerra l’una con l’altra. Esse non solo non avrebbero motivi di conflitto, ma non sarebbero in grado di concentrare le forze per fare una guerra efficace. Ci potrebbe essere ogni sorta di dilettantesca scorreria, ci potrebbero essere spedizioni di guerriglia di un gruppo contro un altro, ma non ci potrebbe essere quella terribile guerra en masse dello Stato nazionale, quello sfruttamento della nazione nell’interesse dello Stato, quell’abuso della vita e delle risorse nazionali nel convulso e reciproco suicidio che è la guerra moderna. 
Non si può mai comprendere con sufficiente chiarezza che la guerra è una funzione degli Stati e non delle nazioni, anzi che è la principale funzione degli Stati. La guerra è una cosa estremamente artificiale. Non è lo scoppio ingenuo e spontaneo della bellicosità dell’orda; non è più primaria di quanto non sia la religione formale. La guerra non può esistere senza un apparato militare, e un apparato militare non può esistere senza l’organizzazione dello Stato. La guerra ha una tradizione e un’eredità di remotissima origine solo perché lo Stato ha una tradizione e un’eredità lunghe. Ma essi sono inseparabilmente e funzionalmente connessi. Noi non possiamo condurre una crociata contro la guerra senza condurla implicitamente contro lo Stato. 
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Se la principale funzione dello Stato è la guerra, allora esso è principalmente occupato a coordinare e sviluppare i poteri e le tecniche che sono adatti alla distruzione. E questo significa non solo la effettiva e potenziale distruzione del nemico, ma anche della nazione al suo interno. Poiché la stessa esistenza di uno Stato in un sistema di Stati significa che la nazione soggiace sempre al rischio di guerra e di invasione, e la mobilitazione dell’energia in imprese militari significa una rovina dei processi produttivi e positivi della vita nazionale.
Creare le condizioni per la guerra. Tutta questa organizzazione di energia e tecnica mortifere non è naturale, ma è un processo molto sofisticato. Particolarmente nelle nazioni moderne, ma anche attraverso tutto il corso della moderna storia europea, non può mai esistere senza lo Stato. Poiché non risponde alle richieste di alcun’altra istituzione, non segue i desideri di alcun gruppo religioso, industriale, politico. Se la richiesta dell’organizzazione militare e di un apparato militare sembra provenire non dai funzionari dello Stato ma dal pubblico, è solo perché proviene da quella parte del pubblico che è ossessionata dallo Stato, da quei gruppi che sentono più entusiasticamente l’ideale dello Stato. E in questo paese abbiamo avuto prova fin troppo indubitabile di quanto possano essere privi di potere i funzionari dello Stato orientati alla pace di fronte all’ossessione dello Stato delle classi importanti. Se un settore potente delle classi importanti sente più intensamente gli atteggiamenti dello Stato, plasmerà più infallibilmente il Governo in accordo con i suoi desideri, lo ricondurrà ad agire come la personificazione dello Stato che esso pretende di essere. In ogni paese abbiamo visto gruppi che erano più realisti del re — più patriottici del Governo — come i sostenitori dell’Ulster in Gran Bretagna, gli Junker in Prussia, L’Action Française in Francia, i nostri patriottardi in America. Questi gruppi esistono per tener dritta la barra del timone dello Stato e impediscono alla nazione ogni scartamento significativo dall’ideale dello Stato. 
Il militarismo esprime i desideri e soddisfa l’impulso più importante solo di questa classe. Le altre classi, lasciate a se stesse, hanno troppe necessità, interessi e ambizioni per occuparsi di un gioco così costoso e distruttivo. Ma il gruppo ossessionato dallo Stato è in grado di ottenere il controllo della macchina dello Stato oppure di intimidire coloro che ne hanno il controllo; e così, con l’uso della forza collettiva, è in grado di irreggimentare le altre classi, riottose e riluttanti, in un programma militare.
L’idealismo di Stato filtra attraverso gli strati della società, cattura gruppi e individui esattamente in proporzione al prestigio di questa classe dominante. Di modo che abbiamo l’orda realmente appesa tra due estremi, i patrioti militaristi a un capo, che sono difficilmente distinguibili in atteggiamenti e animo dai più reazionari Borboni di un Impero, e i gruppi del mondo del lavoro non qualificato, che mancano interamente del senso dello Stato. Ma lo Stato agisce come un insieme e la classe che controlla la macchina del Governo può spostare l’azione effettiva dell’orda come un insieme.
L’orda non è un insieme, da un punto di vista emozionale. Ma, con un’ingegnosa miscela di inganno, agitazione, intimidazione, viene plasmata in una effettiva unità meccanica se non in un insieme spirituale. Agli uomini viene detto simultaneamente che entreranno a far parte dell’apparato militare di propria volontà come loro sublime sacrificio per il benessere del loro paese, e che se non lo faranno saranno braccati e puniti con le pene più orribili; e sotto la più indescrivibile confusione di orgoglio democratico e timore personale si sottomettono alla distruzione del loro tenore di vita se non delle loro vite in un modo che sarebbe sembrato loro in precedenza così offensivo da essere incredibile. 
In questa grande macchina dell’orda, il dissenso è come sabbia negli ingranaggi. L’ideale dello Stato è in primo luogo una specie di cieca pulsione animale verso l’unità militare. Qualunque difformità da quell’unità viene schiacciata con l’immenso impulso, rivolto per intero a questo scopo. Il dissenso è rapidamente messo fuorilegge e il Governo, sostenuto dalle classi importanti e da coloro che in ogni località, per quanto piccola, si identificano con esse, procede contro i fuorilegge, senza riguardo al loro valore per le altre istituzioni della nazione o all’effetto che la loro persecuzione possa avere sull’opinione pubblica. L’orda si divide in cacciatori e prede, e l’impresa della guerra diventa non solo un gioco tecnico, ma anche uno sport. 
Non si deve mai dimenticare che le nazioni non si dichiarano guerra l’una con l’altra, né in senso stretto sono le nazioni che si combattono reciprocamente. Molto è stato detto sul fatto che le guerre moderne sono guerre di popoli interi e non di dinastie. Perché l’intera nazione è irreggimentata e tutte le risorse del paese sono mobilitate per la guerra, questo non significa che sia il paese in quanto paese a combattere. È il paese organizzato in quanto Stato che combatte, e solo in quanto Stato può combattere. Così sono gli Stati letteralmente che si fanno la guerra l’un l’altro e non i popoli.
I governi sono gli agenti degli Stati, e sono i governi che si dichiarano guerra l’un l’altro, agendo nel modo più autentico per conformarsi agli interessi del grande ideale dello Stato che essi rappresentano. Non c’è caso conosciuto in tempi moderni del popolo consultato all’inizio di una guerra. L’attuale richiesta di un «controllo democratico» della politica estera indica quanto completamente, anche nelle più democratiche delle nazioni moderne, la politica estera sia stata il possesso segreto e privato del ramo esecutivo del Governo. 
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L’ultima roccaforte del potere dello Stato è la politica estera. È in politica estera che lo Stato agisce nel modo più rigoroso come orda organizzata, che agisce nel senso più pieno del suo potere aggressivo, che agisce con la più libera arbitrarietà. 
In politica estera lo Stato è veramente se stesso. Si può dire che gli Stati, in riferimento l’uno all’altro, siano in un continuo stato di guerra latente. La «tregua armata», una frase così familiare prima del 1914, era una descrizione accurata della normale relazione tra gli Stati quando non sono in guerra. Invero, non è esagerato dire che la normale relazione tra gli Stati sia la guerra. La diplomazia è una guerra mascherata in cui gli Stati cercano di guadagnare con il baratto e l’intrigo, con l’astuzia degli ingegni, gli obiettivi che dovrebbero conquistare più rudemente per mezzo della guerra. La diplomazia è impiegata mentre gli Stati stanno riprendendosi dai conflitti che li hanno resi esausti. È la blandizie e il mercanteggiamento dei prepotenti di strada, sfiniti, che si rialzano da terra e lentamente recuperano le forze per cominciare a combattere di nuovo.
Se la diplomazia fosse stata un equivalente morale della guerra, un livello più elevato nel progresso umano, un mezzo inestimabile per fare prevalere le parole sulle armi, il militarismo sarebbe andato in frantumi e avrebbe lasciato spazio ad essa. Ma poiché è un semplice sostituto temporaneo, una semplice parvenza dell’energia della guerra sotto un’altra forma, un effetto surrogato è quasi esattamente proporzionato alla forza armata che vi sta dietro. Quando fallisce, è immediato il ricorso alla tecnica militare di cui è stata il braccio appena velato. Una diplomazia che fosse l’agente delle forze democratiche popolari nelle loro manifestazioni non statuali non sarebbe affatto una diplomazia. Non sarebbe nulla di meglio delle commissioni Ferroviarie o Scolastiche che sono inviate da un paese all’altro con propositi razionali e costruttivi. Lo Stato, agendo come un ideale diplomatico-militare, è eternamente in guerra.
 
 
[1918]