Contropelo

Il valore della vita

 

Adonide
 
Il celebre pittore spagnolo Salvador Dalì aveva scritto che nulla lo eccitava quanto lo spettacolo di un vagone di terza classe pieno di operai morti, maciullati in un incidente. La sua non era affatto indifferenza nei confronti della morte, tant’è che quando a perire in un incidente fu un suo amico, il principe Mdinavi, egli ne rimase profondamente sconvolto. Semplicemente, per Dalì l’unica morte di cui rammaricarsi era quella di un principe. Niente a che vedere con un carico di cadaveri di operai.
Questa non deve apparire la bizzarria di un personaggio noto per la sua eccentricità. In effetti la morte di un essere umano non costituisce un avvenimento che per gli altri esseri umani. Le circostanze della sua dipartita e l’interesse che essa suscita sono valutati solo da coloro che gli sopravvivono. L’importanza accordata a questo avvenimento — di per sé assolutamente comune — non dipende quindi dall’avvenimento in sé, ma dall’idea che della morte ha chi lo commenta e dal parere che si ha di chi muore.
Ora, noi tutti siamo abituati ad operare una distinzione fra morte detta naturale e morte detta violenta. Senza dilungarci sugli aspetti comici di questi due appellativi, esaminiamo solo quel che stanno a significare: esiste una morte considerata in qualche modo legittima, quella “naturale”; ed una considerata artificiale, quella “violenta”. La morte “naturale” sarebbe opera del caso, del destino. Quando si muore, si muore. Che poi si abbandoni questa terra al termine massimo della nostra corsa, per vecchiaia, o che questo momento venga anticipato da una incurabile malattia, non sembra fare molta differenza. Tutto ciò viene fatto rientrare nel normale andamento delle cose. La morte “violenta” si suddivide a sua volta in due: quella che avviene per incidente e quella generata dalla decisione di una coscienza, che sia quella del morituro (suicidio) o quella di un’altra persona (omicidio). Ed è proprio quest’ultima forma di morte, consapevole, a provocare maggiore costernazione e a turbare l’animo umano.
Esprimendo in sostanza una sorta di gerarchia dei differenti modi di morire dettata dalla morale, le frontiere fra queste differenti qualificazioni della morte fluttuano a seconda delle circostanze. Ad esempio, se le morti che avvengono per incidente — quelle “violente” — a volte stupiscono per la loro elevata quantità, difficilmente generano un dibattito o destano un orrore particolare. Lo stesso concetto di “omicidi bianchi”, diffuso in passato per indicare i quotidiani incidenti sul lavoro che provocano un continuo stillicidio di morti, oggi non trova più molto spazio in un mondo sempre più persuaso che la propria organizzazione sociale sia un fatto del tutto naturale. Se il capitalismo non è una delle tante forme che la struttura sociale può assumere, venendo spacciata per la sola ed unica possibilità a nostra disposizione, è evidente che tutte le morti che causa appaiono inevitabili, frutto di un destino forse perfido ma comunque ineludibile. Quindi l’operaio che perde la vita sotto una pressa, o cadendo da una impalcatura, muore sì di morte “violenta”, ma la sua morte viene comunque considerata “naturale”, non un omicidio. Allo stesso modo, chi muore di cancro viene generalmente considerato vittima di un destino inevitabile. Non si sa mai chi colpirà la sfortuna. Ma che dire se a causare questo cancro è stata una industria particolarmente inquinante? I numerosi processi che regolarmente si svolgono contro le multinazionali per i danni causati dalle loro attività industriali, non dimostrano forse la responsabilità dei loro amministratori nel tragico avvenimento? Queste morti, possono essere annoverate fra quelle “violente” o no?
Come si vede, non appena si comincia ad approfondire il problema, tutte le distinzioni sui vari modi di morire cominciano a vacillare. E crollano completamente se ci si azzarda a considerare al di fuori dei luoghi comuni di una morale dettata dalla Ragione di Stato la morte apertamente consapevole, se si affronta cioè il quesito se sia lecito o meno dare la morte volontariamente a un altro essere umano. Va da sé che, posto in termini del tutto astratti, questo interrogativo non è in grado di risvegliare nessun interesse, tutt’al più dell’indignazione, e la risposta non può essere che un secco no. In fin dei conti, chi mai può giustificare l’omicidio? E invece lo fa ciascuno di noi, nel corso della propria esistenza. Alcuni recenti fatti di cronaca aiuteranno meglio a comprendere il significato di questa affermazione.
 
Quando ad uccidere è lo Stato
Negli Stati Uniti la macchina della morte statale continua a lavorare senza intoppi. All’inizio di agosto nel Texas sono state eseguite due condanne capitali nel giro di mezz’ora, una piccola catena di montaggio. Uno dei condannati era stato definito minorato mentale all’epoca dei fatti che lo avevano visto protagonista, ma ciò non gli ha risparmiato la vita. Come d’abitudine, queste esecuzioni sono state precedute e seguite da numerose polemiche.
La questione della pena di morte si risolve in poche parole: decidere se lo Stato abbia il diritto di uccidere. Si sa già, tramite l’eccezione costituita dalla “legittima difesa”, che lo Stato accorda questo diritto al singolo individuo che viene aggredito. Ed è invocando la stessa eccezione che lo Stato giustifica le guerre che intraprende, condotte all’occorrenza da regimi d’emergenza. Paradossalmente il ragionamento che autorizza simili imprese, in realtà annulla l’eccezione nel momento stesso in cui pretende di confermarla: l’arte militare insegna infatti che l’attacco è la migliore difesa. Perché la guerra dichiarata non appaia come un inqualificabile sopruso, lo Stato deve mostrare che difende qualcuno o qualcosa; quando l’esercito americano bombarda l’Irak o la Serbia, lo fa per difendere un principio. Questo esempio dimostra come ogni offensiva possa essere definita di difesa, dato che un’offensiva difende sempre un interesse “superiore” o un principio. Ma la necessità di giustificare la difesa in atto, di provare che è l’altro l’aggressore, il truffatore, non è che oggetto di casistica, non è che la necessità di accordare gli atti con le regole del gioco che, nella società demoliberale, è in mano all’Informazione. 
Si potrebbe fare lo stesso discorso per i detenuti che finiscono sulla sedia elettrica. In quanto cittadini, appartengono allo Stato. In quanto condannati, sono venuti meno ai loro obblighi nei confronti dello Stato. Lo Stato, che già disponeva della loro vita, può quindi disporre anche della loro morte. Il verdetto di colpevolezza rappresenta solo un tributo alle regole del gioco: responsabili o estranei ai fatti, che differenza fa?
Per parte mia, non ho scelto di concedere la responsabilità della mia vita all’organizzazione della comunità chiamata Stato, ma questa responsabilità mi è stata confiscata, senza che qualcuno mi abbia chiesto nulla, nemmeno — o forse, soprattutto — se per caso avessi una idea migliore in merito. Lo Stato è quindi confisca, anzitutto della mia vita, poi di quella degli altri — è la somma di queste confische. Questo insieme di confische fabbrica delle regole del gioco che sono chiamate leggi, alle quali vengo sottomesso e alle quali per quanto mi è possibile mi sottraggo. E mi sottraggo non a questa o a quell’altra legge quando ne ho l’occasione, o perché sono in disaccordo su un loro dettaglio, ma al loro insieme e per principio. Nessuna legge dello Stato mi è conveniente, perché tutte sono basate sulla usurpazione della mia complicità.
Se entro nel dibattito sulla pena di morte è per sottolineare l’ipocrisia moralista di entrambe le parti. I partigiani della pena di morte condividono il Contratto sociale di Rousseau: se la pena di morte impedisce ad un essere umano di ucciderne altri, si ha un beneficio aritmetico in “vite umane”. Del resto, gli oppositori alla pena di morte avrebbero sottoscritto volentieri, secondo il medesimo calcolo, l’assassinio di Hitler (non era anche lui un essere umano?). Altri sostenitori della pena capitale la considerano dissuasiva, ma si tratta ancora dello stesso calcolo matematico, solo che non è verificabile. 
Poi ci sono quelli, ancora più rari, che approvano la pena di morte per le stesse ragioni che spingevano Lacenaire, celebre fuorilegge dell’Ottocento, ad invocarla per sé: trovano la morte preferibile alla prigione a vita. Di fronte alla certezza dell’ergastolo — fine pena mai — posso essere d’accordo. Ma chi sollecita l’esecuzione altrui dovrebbe quanto meno avere il buon gusto di non blaterare di «sacro valore della vita».
Quanto agli avversatori della pena di morte, non hanno argomenti concreti. Non hanno che il precetto morale intriso di sacralità di ciò che essi chiamano vita, e mescolano a questo comandamento religioso l’ipocrisia di una mansuetudine laica. Sono contro la pena di morte finché qualcuno non stupra la loro figlia, non sevizia il loro cane, non ruba il loro portafoglio. Sono contro la pena di morte, ma poi acclamano l’esercito e le forze dell’ordine. Sono contro la pena di morte, ma poi lavorano per qualche industria bellica. Sono contro la pena di morte, ma non muovono un dito in favore di chi, privo di tutto, corre il rischio di morire di fame.
In guerra, in ogni guerra (quindi anche in quella chiamata vita quotidiana), uccidere ed essere uccisi sono evenienze del tutto logiche. Che lo Stato possa uccidere per inavvertenza, per eccesso o per propria Ragione è considerato giusto, non solo secondo le regole che esso proclama, ma secondo la guerra sociale che è in corso. Appare chiaro che il dilagare del concetto di “rispetto della vita” serve ad applicare una misura preventiva da parte dello Stato per limitare il numero di perdite subite in questa guerra. Esso mira a sostituire la prigione alla morte (quando un criminale rischia la morte, rischia la vita, quando rischia la prigione, rischia di essere condannato alla sopravvivenza) e arriva a negare ai soli individui la possibilità morale di uccidere, a meno che non si tratta di proteggerLo dall’offensiva dei suoi nemici. Non che lo Stato sia contrario all’omicidio — a porre termine a una vita umana —: semplicemente ne vuole il monopolio, legale e morale. Il consenso allo Stato è anche consenso al monopolio che detiene dell’omicidio. 
 
Uccidere o conservare?
La scorsa estate in Toscana un ragazzo colpito da un male incurabile è morto grazie all’aiuto di un amico a cui si era rivolto. Non se la sentiva di farla finita da solo. I genitori del ragazzo morto, al corrente della disperazione che lo tormentava, hanno immediatamente fatto sapere di non provare alcun rancore nei confronti dell’amico che aveva ucciso loro figlio. Questa vicenda dimostra che i rapporti autentici fra gli individui non potranno mai venir rinchiusi in nessuna norma sociale, e che ogni codice regolativo garantisce e protegge soltanto la libertà... dello Stato.
Il divieto dell’eutanasia è la più flagrante testimonianza della sacralizzazione della vita attraverso la sua mera conservazione biologica. Tra il dolore e la morte, arbitrariamente, viene deciso a priori che è preferibile il dolore. Quando qualcuno si trova davanti al dilemma se essere handicappato, al punto da non poter più raggiungere gli obiettivi che si era dato, o se farla finita col suo inutile tormento, viene sollecitato da tutte le parti a ricordare l’interdizione della morte: dalla legge, dalla superstizione, dalla protervia di un corpo medico onnipotente. Esistono individui che si trovano in coma irreversibile da anni, mantenuti in questa condizione larvale nel nome della preminenza religiosa della sopravvivenza, benché siano definitivamente diventati incapaci di avere una vita. 
Comunque, nonostante l’ideologia umanitaria che l’ostacola, se l’eutanasia conta i suoi nemici può anche contare i suoi amici, che stanno diventando sempre più numerosi. Il mio pensiero è che l’eutanasia dovrebbe essere eseguita non solo su richiesta esplicita del diretto interessato, ma — nel caso questi non ne possa essere consapevole — anche su decisione di coloro che gli erano più vicini, congiunti o amici (a volte più che i familiari, fintantoché questi hanno diritti e interessi legali che rafforzano la loro tirannia sui parenti malati). Gli eventuali errori ed eccessi che potrebbero verificarsi non sarebbero di certo più tragici né più numerosi dell’accanimento terapeutico, che confonde vita e sopravvivenza a profitto esclusivo di quest’ultima, e che viene oggi applicato con tutta la violenza da un esecutivo medico che fonda i suoi poteri su un sapere sommario.
L’eutanasia, atto di dare la morte, si trova al confine fra l’omicidio e il suicidio perché l’oggetto dell’eutanasia può ben essere qualcun altro. Di recente, il suicidio è stato messo in atto da un inglese dopo che un giornale ne aveva pubblicato la foto, con tanto di nome e indirizzo, in una lista di presunti molestatori di bambini. Di fronte allo scandalo e alle possibili sgradevoli conseguenze di una simile pubblicità, l’uomo ha preferito togliere definitivamente il disturbo. Dubito che i seguaci della religione umanitaria si siano commossi davanti alla perdita di questa vita umana, il cui valore, evidentemente, era scaduto coi suoi gusti sessuali.
Anche contro il suicidio, l’idea soggiacente è la conservazione della vita degradata a sopravvivenza. Le differenti forme di suicidio, dall’impiccagione all’utilizzo di farmaci, passando per le numerose forme di nichilismo a buon mercato, contengono tutte le impossibilità riconosciute della vita, laddove sono pochi gli affamati che si suicidano per impossibilità di sopravvivenza: anzi questa è la ragione principale del tabù del suicidio. Poiché l’incapacità di realizzare la propria vita, se fosse discussa prioritariamente sulla pubblica piazza, minaccerebbe di rovesciare coloro che gestiscono quella degli altri evitando di sondare eventuali rimedi. Come diceva un suicida del secolo scorso: «E voi, preti paffuti, rosei, accademici, gesuiti di ogni pelo, di ogni veleno e di ogni tipo, mi ricordereste con tanta sollecitudine questa missione se non la sfruttaste senza pudori? Se non aveste tanto interesse sulla mia vita, che v’importerebbe della mia morte?».
Se si considera che oggi nessuna esistenza raggiunge il termine delle proprie possibilità, il suicidio dovrebbe essere il gesto che onora la chiarezza della coscienza di questa rassegnazione. Se il suicidio segna innanzitutto una assenza — quella del possesso della vita — segna anche una presenza — quella della consapevolezza di preferire la fine della vita al suo divenire altro da sé, alla sua alienazione, alla sua continuazione senza possesso alcuno. Il suicidio continuerà a fare strage di uomini fin quando questi non avranno trovato la via che conduce alla felicità.
E bisogna supporre che se una simile inversione di prospettiva — come minimo una rivoluzione — ridesse alla sopravvivenza il più acconcio ruolo di appendice della vita, ciò trasformerebbe il dono della morte ad altri e a se stessi in atti di pari importanza, poiché un nuovo concetto di “rispetto della vita” implicherebbe una responsabilità di ciascuno radicalmente diversa. Ma che si tratti di una pietosa speranza o di una esigenza minima, questa concezione porta al di là della confusa contrizione nella quale oggi è imballato il suicidio.
 
Siamo tutti assassini
La morte è da sempre un tabù. I tabù sono quei divieti destinati a mantenere l’integrità del mondo organizzato e contemporaneamente la buona salute fisica e morale di chi li osserva: chi infrange un tabù mette in discussione l’ordine del mondo, ed è appunto per questo che va punito. Ma i tabù rappresentano dei divieti solo all’interno della comunità che li adotta, avendo validità solo nei confronti dei suoi appartenenti. In molte società umane del passato era proibito uccidere un membro della propria comunità, mentre era consentito uccidere un estraneo. Solo uccidere un proprio simile era considerato riprovevole. Lo era a tal punto che molte società umane non punivano nemmeno il trasgressore, che a volte non veniva neppure disturbato (in molte tribù eschimesi, ogni omicidio era considerato accidentale). Nel caso si fosse deciso di punirlo, lo si sarebbe allontanato senza mezzi di sopravvivenza, ma senza ucciderlo. Si capisce così il significato dato da alcuni studiosi alla definizione araba di clan: «gruppo dove non avviene vendetta di sangue». La vendetta era, assieme al matrimonio, uno strumento con cui si manifestavano rapporti fra gruppi sociali differenti: la vendetta corrispondeva allo stato di guerra, il matrimonio allo stato di pace. Tra appartenenti allo stesso gruppo, allo stesso clan, alla stessa famiglia, non era consentita né la vendetta né il matrimonio (da cui il tabù dell’omicidio e quello sessuale). Vendetta e matrimonio dovevano unire e allontanare soltanto chi non era già unito dall’identità di nome e di natura. 
Ma ormai esiste una sola comunità, che fornisce a tutti un nome e un’identità: la comunità del Capitale. Prima di essere uomini o donne, occidentali o orientali, ricchi o poveri, siamo consumatori. Se ci è consentito di avere rapporti sessuali, anche qui coi limiti del caso, non possiamo però sterminarci a vicenda. Nel nome della pace di ciò che ci accomuna — la pace dei mercati — si è fatta la guerra a ciò che ci divide — la guerra all’Individuo. Si capisce meglio il motivo per cui la morale dominante abbia fatto del “rispetto della vita” uno dei suoi ritornelli preferiti: «rispettate la vita, consideratela sacra, non ricorrete mai alla violenza». 
Oggi la tolleranza, nella quotidiana forma martellante propinataci dall’Informazione, è diventata una costrizione obbligatoria e restrittiva al diretto servizio dello Stato. Se la tolleranza all’epoca dell’Inquisizione era un appello a tollerare i roghi e ad essere intolleranti nei confronti delle eresie, allo stesso modo la tolleranza del moderno umanitarismo democratico consiste in un invito a tollerare l’esistente e ad essere intolleranti verso chi vi si oppone. E già, perché sotto il cemento dei supermercati pulsa mai sopita la singolarità dei nostri desideri, dei nostri interessi, delle nostre attitudini, dei nostri sogni, che ci dividono gli uni dagli altri. Se i ricchi devono tollerare i poveri e i poveri devono tollerare i ricchi, tutta questa tolleranza mi sembra che sia ad esclusivo beneficio dei primi. A ben pensarci, chi parla di tolleranza ha in bocca un cadavere putrefatto. Il segreto che non si ha il coraggio di svelare è presto detto: nessuno tollera tutto, così come nessuno tollera niente. Ciascuno di noi tollera alcune cose, persone e idee, e non ne tollera altre. Senza eccezioni. Motivo per cui l’ideologia umanitaria del “rispetto della vita” è solo una immonda ipocrisia. 
Sono ipocriti tutti coloro che parlano del sacro “valore della vita umana”. Lo è il politico democratico che, quando non è un difensore della pena di morte, vota per dare il via a “bombardamenti umanitari”. Lo sono i suoi elettori, che davanti alla televisione brindano alla notizia della morte di un mafioso. Lo sono i gendarmi, assassini legalizzati, e i loro amici. Lo sono tutti coloro che ammazzerebbero un tiranno, ma in nome di qualche nobile ideale. Lo sono gli individui suicidi, tutti coloro che praticano l’eutanasia, e tutti i loro amici. Lo sono le donne stuprate che ammazzerebbero il loro stupratore. Lo sono tutti i sostenitori della Resistenza. Chiunque è in grado di continuare l’elenco di questi esempi.
In realtà, siamo tutti assassini o potenziali tali. Se le nostre mani non sono già sporche di sangue lo potrebbero diventare in qualsiasi momento, è solo una questione di circostanze. Da un lato proclamiamo che la vita è sacra, dall’altro pensiamo che non tutti però meritano di vivere. Ma allora, cos’è che dà valore a una vita umana? La vita “che va rispettata” si distingue da quella “che non merita rispetto” per l’esistenza nella prima di una prospettiva a noi comune. È solo questa prospettiva che determina ai nostri occhi il valore di un individuo, non l’astratta appartenenza al genere umano. Questa può assumere valore solo in assoluta mancanza di informazioni più precise. La vita di un perfetto sconosciuto ci può anche apparire inviolabile, ma non appena dovessimo scoprire che è un assassino di bambini la nostra mano vorrebbe una pistola. Sto ricorrendo a un facile esempio, in grado di riscuotere un’adesione pressoché unanime: assassino di bambini. Comunque ciascuno di noi ha in mente altre vite che vedrebbe volentieri spezzate, vite in cui non ci trova alcun valore da difendere.
Viceversa, una prospettiva di vita, quando è la nostra prospettiva, la mia, non è mai superflua. Ciò che penso, ciò che faccio, ciò che amo, ciò in cui credo, tutto ciò è il mio mondo. Se non lo possedessi la mia esistenza su questa terra mi parrebbe superflua. Per difendere, sviluppare, realizzare questo mio mondo sarei capace di tutto. Anche di uccidere. Perché no? La morte di chi mette in pericolo questo mio mondo mi è indifferente. Ciò non significa che io intenda uccidere tutti coloro che non sono come me, ma solo che la loro scomparsa non cambierebbe nulla nella mia vita immediata. In mezzo all’indifferenza che ho del massacro quotidiano, io piango solo quelli che si sono mostrati miei simili, quelli le cui azioni corrispondono anche solo in parte ai miei desideri. È solo la loro morte che mi colpisce, quella degli altri no. 
Se ritengo che per realizzare i miei desideri una parte dell’umanità debba essere soppressa, cosa faccio? Devo perseguire il mio scopo o cedere a un principio che viene ritenuto superiore, ma senza nessuna giustificazione di questa superiorità? Non pongo questo interrogativo perché intendo sopprimere una parte dell’umanità (sebbene l’insieme di persone che governano la nostra esistenza meriterebbe più di uno sforzo per raggiungere questo obiettivo) ma per profanare il tabù della morte, che è un ostacolo alla realizzazione di qualsiasi desiderio.
 
Parte della vita
La morte sconvolge. Ma ciò che turba il nostro animo non è il preteso istinto di conservazione, quanto l’insoddisfazione di non aver realizzato tutto ciò verso cui tende ciascuno di noi. Si muore sempre troppo presto. Questa totalità, impossibile da realizzare oggi, è del resto ciò che rende ogni morte insoddisfacente. Certo, l’approccio nei confronti della morte non è uguale dappertutto. In Somalia, dove si muore per fame come per armi, sarebbe impossibile far credere ai poveri, come avviene in Europa, che si possa morire soddisfatti dopo aver vissuto in modo tanto insoddisfacente; o che la morte è una calamità, indifferentemente da chi ne sia la vittima. 
L’abuso di divieti che la nostra società fa pesare sulla morte ha come conseguenza l’opinione comune che pretende che vita e morte siano opposti. Nulla è più nocivo alla vita del considerare la morte al di fuori di sé: la morte fa parte della vita in quanto suo termine, suo confine, sua frontiera. La morte è una fine, una fine troppo importante per una vita da essere lasciata al caso. Ma l’importanza del come si muore assume significato solo per chi ha a cuore l’importanza del come si vive.
 
«...saggiamente fuggendo gli elementi di morte, noi non miriamo che a conservare la vita, mentre entrando nel territorio che la saggezza ci suggerisce di sfuggire, noi la viviamo»
 
[Diavolo in corpo, n. 3, novembre 2000]