Brulotti

Calcio

G. M.

 

A prima vista, sembra semplice: un gran prato rettangolare, ventidue giovanotti in uniforme sommariamente araldica, una palla di cuoio, due reti alle estremità del rettangolo; la contesa riguarda chi e quante volte riesce a mandare quella palla nell’una o nell’altra rete, superando, con l’astuzia o la mera brutalità, la resistenza della banda avversa. È domenica, dappertutto c’è gente che non sa cosa fare; pigramente, qualcuno «va alla partita»; paga il biglietto, si diverte, ammira, deplora, commenta, torna a casa. Oh no, non è così semplice. Forse le cose stanno a quel modo nell’empireo, dove è sempre domenica, e si è sempre pigri, felici e virtuosi. Ma si veda, ad esempio, la partita da un punto di vista sociologico: sul prato ventidue ragazzetti incolti e milionari si contendono una palla, mentre sulle tribune migliaia di salariati e stipendiati urlano e ondeggiano. Parrebbe una immagine rudemente didattica della lotta di classe. Una volta tanto i gladiatori sono facoltosi; alla fine dell’incontro, come usa, gli sconfitti verranno sveltamente sterminati. A questo modo, non senza divertimento, si elimina una classe sociale, dopo averla pubblicamente degradata a oggetto di ilare ludibrio.
Ma nemmeno questa descrizione pare esauriente. Il pubblico, infatti, è diviso in settori favorevoli alla soppressione fisica dell’uno o dell’altro gruppo di giocatori; di rado, come sarebbe ragionevole, di entrambi. Dunque, al furore mercenario che contrappone le due schiere, un altro corrisponde sulle tribune, del tutto gratuito, e pertanto non privo di caratteri nitidamente demenziali.
[…]
La visione del mondo calcistico, muovendo dalla psicopatologia e passando per il livello della malavita, punta verso il patriottismo e la guerra.

[1972]