Brulotti

Solo parole?

Avete visto la rabbia di molti indignati, lo scorso 15 ottobre a Roma, nei confronti di chi mandava in frantumi vetrate di banche od oggetti sacri? Li hanno insultati, strattonati, smascherati per la gioia dei poliziotti. Non riuscivano a capacitarsi della loro presenza in quel corteo. Gente che protesta contro il massacro sociale imposto dal mercato ha trovato intollerabile che qualcuno danneggiasse una banca. Gente scesa in strada perchè stanca di una vita di obbedienza si è infuriata davanti all'atto iconoclasta compiuto da chi non intende inginocchiarsi. Perché questa biliosa stizza davanti ad azioni che la ragione in fondo dovrebbe rendere, se non condivisibili, quanto meno comprensibili? Com'è possibile che la delazione, da abiezione da nascondere, pure fuori dalle questure, sia diventata una virtù da alimentare?

 

Da quasi un secolo ci chiediamo se la mediocrità del nostro universo non dipenda essenzialmente dal nostro potere di enunciazione. Se le catene della riproduzione sociale non siano forgiate direttamente dentro la nostra testa. Quando parliamo, quando scriviamo, esprimiamo le nostre idee e i nostri progetti. Comunichiamo le nostre tensioni, ciò che ci muove e ciò che vorremmo realizzare. Ma le parole non le abbiamo inventate noi e, così come ci sono state consegnate, avvolte nella loro livrea domestica, rispondono per lo più ai richiami all'ordine. La fantasia non trova spazio nel blocco monolitico dell'ideologia dominante, finisce per essere risucchiata nei suoi anfratti. Il detto e il ridetto ci inchiodano a questo universo comune, in cui tutto lavora, produce, consuma, sciopera perfino; tra un salario da guadagnare e un conto da pagare, non c'è tempo, non ci sono occasioni per l'avventura. Attingiamo pensieri e concetti da un immaginario che percepiamo nostro solo perché ci siamo cresciuti assieme, ma che non abbiamo ideato noi. Non è affatto una nostra creatura, unica ed originale, strappata alle banalità dei luoghi comuni attraverso una dura ricerca e una selezione. Ci è stato instillato giorno dopo giorno, già fabbricato e preconfezionato. Noi lo abbiamo solo adattato alla nostra misura. Da qui abbiamo assorbito il rispetto per l'autorità, il sentimento di "appartenenza", la paura o l'orrore per l'ignoto. Da qui abbiamo ricavato anche quella critica spuntata, incapace di andare oltre i confini del già dato (quella che davanti alle devastazioni del capitalismo è in grado di rivendicare al massimo merci senza logo, quella per cui il conflitto non può che essere istituzionale e normativo). Non potendo battersi per un'esistenza che sia tutt'altro, ci si limita a pretendere una diversa configurazione del medesimo
Questa riduzione dell'orizzonte umano ad una realtà sordida quanto definitiva non è una scelta consapevole, non viene teorizzata e giustificata, avviene da sé, s'impone con la forza dell'abitudine. Chi nel passato ha avuto la sfortuna di essere testimone dell'avvento del totalitarismo ha osservato come esso non si sia insinuato nella carne e nel sangue delle persone attraverso i comizi, l'ideologia, le manifestazioni o le parate. No, sono state le singole espressioni, le frasi fatte, le locuzioni apparentemente innocue ripetute innumerevoli volte, mandate in memoria, accettate meccanicamente, a preparare l'orrore. 
Il linguaggio – come è più volte stato osservato – non si limita a creare e a pensare per noi, dirige anche il nostro sentire, indirizza il nostro essere. La lingua dello Stato, quella che ci è stata insegnata fin dalla nascita, quella capace solo di coniugare Diritti e Doveri, non è uno strumento neutro di comunicazione. È una macchina da guerra contro il possibile, una camicia di forza del desiderio: «Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l'effetto tossico. Se per un tempo sufficientemente lungo al posto di eroico e virtuoso si dice "fanatico", alla fine si crederà veramente che un fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci un eroe senza fanatismo».
L'inversione di senso, la mutazione delle parole, sono fenomeni che all'alba del Partito Unico, dell'irreggimentazione di massa, lasciarono sbalorditi i filologi più attenti per l'insidioso assalto ad un linguaggio da essi ritenuto consolidato. Nella moderna società tecnologica, dove tutto procede ad alta velocità in una frenesia che ha abolito ogni certezza rendendo precaria ogni cosa, i dizionari andrebbero rivisti quotidianamente. Col tempo, di fronte alla vanità di opporsi all'erosione del significato, è andato diffondendosi un relativo disinteresse al riguardo. O, per meglio dire, una noncuranza nei confronti della logica interna, della coerenza del discorso. Ci si è applicati a rendere mirabolante la forma che è sotto gli occhi di tutti, mutevole e disponibile come una merce, a scapito di un contenuto che ormai non appassiona più nessuno. Come se, in mezzo al marasma contemporaneo, non occorra prestare più alcuna attenzione al senso delle parole. Tanto, fare altrimenti equivarrebbe ad incaponirsi in una battaglia persa in partenza. Evitiamoci l'umiliazione della sconfitta. Appurato che il linguaggio è reversibile, appurato che la parola può sempre esprimere tutto e il suo contrario, non vale la pena perdere tempo a rincorrere un'inesistente e ormai poco interessante rigorosa precisione. Tanto vale usare il vocabolario che già si possiede, quello in dotazione a tutti, e giostrarvi all'interno. Questa realistica constatazione esenta dallo sforzo di inventare un linguaggio della libertà, facendo ricadere dritti nella grammatica dell'ordine.
Perché è questo il punto: non si parla senza conseguenze la lingua dello Stato. Si finisce per assimilarla, per introiettarla, per vivere all'ombra del suo modello e del suo significato. S'incomincia usandola per esprimere ciò che si pensa – così, per approssimazione, in mancanza d'altro, «tanto per intendersi» – e si finisce col pensare ciò che si afferma. Se per un tempo sufficientemente lungo invece di organizzazione sociale si dice «Stato», alla fine si crederà veramente che non possa esistere organizzazione sociale senza Stato. O attività senza lavoro. O azione trasformatrice senza politica. Se per contrastare l'annientamento della vita umana provocato dal dominio si è capaci solo di invocare i «diritti negati» o la «democrazia tradita», prima si farà campagna elettorale per il proprio politico di fiducia e poi si finirà come in Grecia a presidiare il Parlamento per difenderlo dai manifestanti arrabbiati. 
Ma torniamo ai fatti di Roma. Perché sta dilagando la delazione anche all'interno del "movimento"? Perchè il trionfo della destra più becera e reazionaria sembra aver insegnato il segreto del successo: essere beceri e reazionari. E se la sinistra si è subito distinta nell'imitare le peggiori politiche della destra, il movimento ha ripreso i peggiori tratti della sinistra. Dopo aver rivalutato la Costituzione in chiave antifascista, la legalità in chiave antiberlusconiana, il tricolore in chiave antileghista, la religione in chiave antirazzista, cosa ci è rimasto di sovversivo? Nulla. Come in carcere e in caserma, in tutti gli spazi chiusi di coabitazione forzata dove aleggia il tanfo della coercizione, si è ottenuta una comunanza che con una mano di vernice ha nascosto le individualità precedenti creando nuove abitudini linguistiche. In questa maniera, dopo averle a lungo masticate, all'inizio a denti stretti e poi con maggior fervore, si sono inghiottite parole nocive che ora stanno sprigionando il loro effetto letale. Dopo aver intonato il mantra delle lotte sociali in cui ogni iniziativa deve senza meno essere condivisa («condivisione o Stato»), dopo aver preteso l'adeguamento del singolo all'azione collettiva («si parte assieme e si torna assieme»), dopo aver prescritto regole di comportamento ai manifestanti pena la loro esclusione dal movimento («a mani nude, a volto scoperto»), dopo aver ripetuto per la milionesima volta che l'operato delle istituzioni è «abusivo» e che la protesta è quindi «legittima», come ci si può meravigliare davanti alla furibonda reazione degli indignati a Roma? I nerovestiti – che arrivano mascherati, attrezzati, decisi a fare quello che hanno in mente senza chiedere permesso a nessuno – diventano per forza di cose loschi e sospetti (se non addirittura fascisti e infiltrati, emanazione di oscuri apparati di potere).
 
Non sono dispute sulle parole, non è vana pedanteria. Se non ci decidiamo a seppellire per sempre la lingua dello Stato finiremo col rimanere vittime del suo arsenico. Noi non vogliamo spostare i limiti del sedicente reale, vogliamo annullarli. Quello che per altri è allucinazione, per noi è evocazione. Il guaio del realismo è di sottomettere ai suoi dogmi non rivedibili ogni possibilità, impedendone così la messa in gioco. Offre una presa salda sugli avvenimenti, è vero, ma impedisce e reprime ogni via di fuga, riporta ogni prospettiva all'interno delle curve di crescita economica. I suoi ispettori penosi, che non ci lasciano all'uscita della scuola o del lavoro, continuano ad aggirarsi nelle nostre vite. Non si fidano, vogliono assicurarsi che un gatto lo chiamiamo gatto. Ma per attentare alla fragile esistenza delle cose, occorre anche scompigliare l'ordine del discorso, sottrarre il linguaggio alla sua servitù. Farla finita con le descrizioni del fatto, con gli studi di costume, con le apologie del pragmatico. Per andare dove nessuno è mai passato, se non si sceglie di fare silenzio («ma questo è autismo!»), bisogna dire ciò che nessuno osa proferire («ma non verremmo capiti!»). Il feticismo politico, quello che ha bisogno di contare i partecipanti ad una manifestazione, di far andare almeno in pareggio il bilancio della propria piccola impresa militante, non ha orecchio per questo genere di poesia. La può accettare solo come occasionale innovazione alla propria ammuffita propaganda. La politica, in qualsiasi modo venga declinata, ha l'assoluta necessità di credere solo a ciò che è successo, ovvero a ciò che è Stato.
Noi non saremo i cantori di questo mondo di realtà quantificate, di questo disastro che si impone a scapito di tutti i possibili, di questa sopravvivenza in cui ogni essere abolisce la propria singolarità nel valore d'uso. Non è qui che si possono scambiare altre voci, altri oggetti del desiderio. Contro un universo che produce, su ordinazione, sempre maggiore realtà, ovvero sempre più spettacoli, più sostituti virtuali, più fantasmi oggettivizzati, solo l'emancipazione dell'immaginario è in grado di consentire l'emergere di nuove esperienze di vita. Ecco perché vogliamo bonificare la nostra lingua dalle parole e dai concetti che non smettono di (farci) lavorare e militare. Perché siamo stanchi di essere trascinati in questi luoghi comuni, senz'altro affollati, pieni di brusio e di agitazione, ma dove si incontrano solo persone comuni con i loro pensieri comuni. 
 
«L'idea di un letto di pietra o di piume mi è ugualmente insopportabile:
che volete, non posso dormire che su di un letto di midollo di sambuco.
Provate anche voi. Che comodità, vero?»
 
[3/11/11]