Contropelo

Fuorirotta

Raccolta di testi sulla rivolta di Genova e su chi cercò di governarla
 
 
Luglio 2021
La vita è lotta e, spesso, la lotta costa la vita. Per questo la lotta non può ridursi a un mero fatto politico...
Sono passati quasi vent’anni da quel luglio 2001 a Genova... tanti, quei giorni, scesero in strada. Tra questi ci fu chi portava avanti un tentativo di creare rappresentanza politica, pronto a individuare e distinguere i buoni dai cattivi. Ma qualcosa andò storto: diverse individualità, provenienti da tutto il mondo, decisero di non delegare a nessun leader l’espressione della propria rabbia, di non farsi schiacciare dalla collettività di un Movimento ma di esprimere semplicemente sé stessi e le loro cattive passioni.
Il ventennale del G8 è alle porte: già ci aspettiamo di dover assistere ai beceri teatrini militanti di gente della stessa pasta di coloro che allora si dissociarono dando la caccia al black bloc e deplorarono la rabbia randagia che invase le strade di Genova.
Perché parlare oggi di quelle giornate? Perché esistono ancora individui pronti a mettere in gioco sé stessi per un desiderio.
Perché, come vent’anni fa, vediamo anche oggi proseguire indisturbati i tentativi da parte dei leader di movimento di egemonizzare le lotte. Perché dimenticare il passato e le responsabilità è solo un buon modo per far sì che molti abbiano ancora vita facile. Per non dimenticarci di chi, da fuori e dentro le carceri, sta pagando con la propria vita la repressione da parte dello Stato: chi si è suicidato all’interno della propria cella perché la vita in una gabbia è insopportabile, chi è stato ammazzato di botte dai secondini per sedare le rivolte carcerarie del marzo 2020, chi è incarcerato o sottoposto a misure di sorveglianza per aver provato a dare spazio a un modo di vivere altro rispetto alla miseria quotidiana che tanto provano a farci passivamente accettare.
Ripercorrendo ciò che è successo a Genova, ci chiediamo quindi: è possibile la memoria senza che essa divenga simbolo e la lotta liturgia? E la solidarietà, come decidiamo di esprimerla? Quali sono le molteplici forme possibili per contribuire ad una lotta e per sabotarne le dinamiche interne di potere, recupero e autorità?
Dalle commemorazioni per il ventennale dell’uccisione di Carlo Giuliani, magari organizzate dagli stessi che sputarono sul suo cadavere ancora caldo, alle presentazioni militanti dei libri di Wu Ming in Val Susa dimentichi del loro infame passato, che prospettive possono offrire queste miserie a quegli individui che non vogliono mettersi a capo di nulla, non hanno bandiere da difendere e non hanno fretta di insabbiare il passato?
La critica del recupero, della ricerca populista del consenso e della visibilità a tutti i costi, sono concetti che esistono solo nei libri anarchici o sono idee che possono essere utilizzate nella realtà e che possono essere di ispirazione per le nostre scelte esistenziali ed organizzative, senza paura di restare soli o fuori dal gregge?
Queste domande ci hanno spinto verso questo tentativo di riscoperta del passato: riscoperta che non vuol essere lavoro da storici ma affondo nelle pieghe del presente.

 

Rotte tracciate?
Ogni tentativo riflesso di opporsi a questo mondo viene travolto dall’incapacità di cogliere il circostante. La fantasia e l’avventura sono ormai concetti che appartengono al passato? Se una volta veniva detto che «ogni lotta collettiva, o è l'incontro appassionato di individui autonomi, o è il terreno per tutte le manipolazioni» oggi sembra quasi che non esista più linguaggio comune con chi sostiene che la congiura degli Io necessiti che ogni individuo cerchi di dotarsi di una propria progettualità rivoluzionaria per dare realtà alla propria autonomia di scelta, azione e relazione. A guardarsi intorno, invece, sembra che la prospettiva sull’agire debba emergere collettivamente oppure non possa essere. E come si può allora appassionatamente incontrarsi da individui autonomi se non si prova ad immaginare come alimentare quelle passioni?
Abbiamo talmente timore di apparire incomprensibili alle orecchie degli altri che a furia di atrofizzare il nostro pensiero atrofizziamo anche il nostro sentire ed il nostro desiderare. A furia di ritenerci immuni dall’idiozia ci ritroviamo inermi di fronte alle scelte profonde e radicali, e non riusciamo più a renderci conto nemmeno della nostra incapacità nel metterci in gioco. Seguiamo la corrente, cercando di raggiungere chi un fantomatico soggetto sociale e chi di non ritrovarsi in uno stagno per paura di ritrovarsi senza acqua per poter nuotare. Peccato che l’argine al nostro moto esiste ugualmente. Pur di rimanere immersi nel mare, infatti, non esitiamo a porre limiti al nostro pensiero ed alla nostra azione.
Parliamo di fatti, per dare sostanza a questo discorso. Prendiamo la chiarezza delle parole di Juan riguardo a un libro scritto da Wu Ming 1 nel 2018: «Mi è capitato nel mio «viaggio» di imbattermi in questo... come nominarlo... pseudo-romanzaccio-documento della lotta NO TAV di Wu Ming 1 Un viaggio che non promettiamo breve! che coincidenza! anche il mio "viaggio" non è breve!, ma non è un romanzo, è vita e lotta! [...] Se scrivo è perché non voglio che questo "romanzo" passi senza essere attaccato, e invito calorosamente quei compagni che si trovano indicati nel libro, rispetto alla lotta NO TAV, cosi ben revisionata e manipolata, ad esprimersi e ad attaccarlo per quello che è, e cioè una merda!!. [...] Personalmente nemmeno lo vorrei, ma chiedo di pubblicizzare il più possibile questo mio scritto causa la mia situazione "logistica"». Un compagno, da nessun dove, scrive parole chiare su ciò che sentirebbe come forma di solidarietà. Negli anni, purtroppo, questo compagno viene preso ed arrestato. Come fare in modo che il concetto di solidarietà non diventi un simulacro? Come fare in modo che le parole di Juan non vengano seppellite sotto chili e chili di carta da opuscoli impilata, ma siano rese vive e pulsanti, fatte circolare? Tra chi ha espresso ed esprime solidarietà e vicinanza a questo compagno ci sarà qualcuno che è andato in Val Susa per lo sgombero del presidio di San Didero nell’aprile del 2021 senza fare una piega sul fatto che proprio in quel luogo pochi giorni dopo Wu Ming 1 avrebbe dovuto presentare il suo ultimo libro La Q di Qomplotto? E, di fatto, poi lo ha presentato; e quanti hanno magari anche ascoltato – o perfino sono coloro che hanno invitato – Roberto Bui? Come se non bastasse, quando nel 2020 ci furono gli arresti dell’Operazione Ritrovo ed il corteo il 30 maggio, dalla stessa Bologna e a scanso di equivoci lo stesso giorno, i Wu Ming e BaLotta Continua organizzarono una bella camminata in collina: lontani dalla città, lontani da chi cerca di portare conflitto. Non che la loro presenza sarebbe stata, ci si augura, gradita al corteo, quanto ciò sta a rimarcare come ci voglia del pelo sullo stomaco a mescolarsi con certa gente. E quindi su che basi comuni poter pensare una riflessione sulla rivolta e sull’agire anarchico con chi invita, ascolta o accetta la presenza di certa gente e poi magari, tornato a casa, sostiene Juan e la sua lotta dalle carceri? Davvero la possibilità di stare in Val Susa, ovviamente senza esprimere il proprio disaccordo verso recuperatori e politicanti, vale tale abiura delle proprie idee?
E ancora: se c’è qualcuno che pensa o sostiene davvero che alcuni rivoltosi del G8, del 15 ottobre 2011 o del 1° maggio 2015 non fossero anche contro il riformismo e la socialdemocrazia travestita da movimento radicale, sta facendo operazione di disarmo di un certo anarchismo. L’anarchismo, almeno dal nostro punto di vista, dovrebbe porsi il problema della rivolta e dell’insurrezione: liberare spazio a questi concetti e attaccare chiunque voglia recuperarli per qualsiasi tornaconto politico. Che siano giornalisti immobiliaristi come Baricco e la sua insurrezione digitale, che passa sulle macerie dell’Asilo Occupato di Torino, o chi andrà a commemorare Carlo per il ventennale del G8 con il suo bagaglio di riformismo alla Agnoletto, o chi si pone come obiettivo di civilizzare e mediare la rivolta all’interno dei parlamentini radicali extra-parlamentari (chi si ricorda del Teatro Verdi di Milano?), poco cambia. Se una volta i giornalisti venivano nutriti di carogne, dal momento che sguazzavano nel nutrirsi dei corpi dei compagni morti, oggi sembra che nulla abbia conseguenze, che non vi siano responsabilità. Cosa giustifica ogni sorta di tatticismo e posizionamento? E se fossero queste «buone intenzioni» di allargamento e coinvolgimento a lastricare la strada della perdita di senso della propria azione? L’anarchismo ha sempre goduto della vita ai margini, ha sempre cercato di liberare gli individui dagli spettri che li atterrivano: dio, patria, morale, legge. Negli anni ha cercato di sviluppare forme organizzative che lasciassero possibilità agli individui di agire sulla base del loro senso etico e sulla base delle loro idee: gruppi di affinità, nuclei di base, informalità.
Eppure, lo spirito di branco, il piacere della comunità, l’annichilimento delle responsabilità individuali sulle proprie scelte etiche e di azione vengono ancora barattate per il piacere della convivialità tra compagni, che spesso porta alla disastrosa confusione tra affinità e amicizia. Come se in fondo all’arcobaleno ci fosse sempre una Tazza d’Oro in grado di giustificare la miseria di una vita passata ad aspettare che il sacrificio di sé si ripaghi con l’agognato trionfo della libertà anarchica. Che l’attesa nei ranghi venga ripagata dalla messianica venuta della grande festa collettiva.
Invece sono le pratiche di libertà, la sperimentazione dell’agire e dello scegliere le persone di cui circondarsi, che non posticipano ad un escatologico domani il senso del proprio esistere e lottare. Ecco ciò per cui vale la pena vivere: agognare la libertà senza freni e godere delle autentiche cattive passioni.

 

Il G8 ed il suo contorno: il movimento dei movimenti e la polizia
Come si è arrivati a Genova?

Nel campo marxista abbiamo da un lato il leninismo ed i suoi sottoprodotti e dall’altro la socialdemocrazia con i suoi emuli impegnati a stare sempre un po' più a sinistra, ma non troppo per non perderne il contatto, del sinistro governante di turno (a volte perfino un triste ed insignificante assessore; l’importante è che abbia una parvenza di ruolo pubblico). A partire da questa ossatura, la realtà italiana nel corso degli anni ’90 si va lentamente a delineare. L’area della cosiddetta Autonomia Operaia si divide sulla base delle diverse prospettive: alcuni centri sociali puntano alla legalizzazione degli spazi, il dialogo con le istituzioni cittadine e a forme di imprenditoria dal basso (dirimente fu la questione dell’autoreddito e del convegno di Arezzo, dove personaggi come Farina del Leoncavallo o Primo Moroni presero posizione verso questa soluzione).
La Carta di Milano del 1998 sancisce la costituzione di quelle che saranno le Tute bianche e poi l’area disobbediente facente riferimento in seguito a Global-Project. Nella carta viene posto come obiettivo politico il reddito di cittadinanza, la legalizzazione dei posti occupati per mezzo delle trattative con le istituzioni e l’uscita dalla: «dinamica perdente "Conflitto Repressione Lotta alla repressione” [...]. Vogliamo costruire il vortice "Conflitto Progetti Allargamento della sfera dei diritti"».
Il 1998 portò con sé anche l’accendersi della lotta al TAV, le vicende torinesi legate alla morte di Sole e Baleno, il corteo che attaccò il palazzo di giustizia e l’inasprirsi dei contrasti già esistenti tra l’anarchismo (nelle sue sfaccettature non certo omogenee e dialoganti fra di loro) e l’area dell’autonomia contropotere (che farà poi riferimento al sito infoaut) e della futura disobbedienza. Nel 2000, nella manifestazione genovese contro la fiera delle biotecnologie, parti del corteo si scontravano sulla base di un volantino (Disobbedienza civile, istruzioni per l’uso) distribuito dalle Tute Bianche dove esse si arrogavano l’autorità di poter determinare cosa sarebbe dovuto avvenire nel corso della manifestazione.
Le giornate genovesi vengono così precedute dalla costruzione dei Social Forum in cui le Tute bianche cercano di costruire una convergenza con parte del sindacalismo di base, il cattolicesimo della Rete Lilliput, la richiesta di una giusta tassazione per mezzo della Tobin Tax da parte di Attac e così via. Gli avvenimenti messicani del Chiapas e dell’EZLN vengono utilizzati per costruire una rappresentazione del conflitto e della bellicosità. Alle dichiarazioni di guerra ai potenti della terra si alterna la concertazione con le forze dell’ordine per portare alla violazione spettacolarizzata della zona rossa.
La politica si infrange, tuttavia, sull’ingovernabilità della rivolta.
Tenendo bene a mente le due facce della repressione delle tensioni rivoluzionarie (quella recuperatrice e quella poliziesca), guardiamo al presente ed al contesto che ci circonda. Se la riflessione sulla repressione è ipertrofica, fragile è la riflessione su quanto si muove intorno a noi. Se negli anni passati testi analizzavano prospettive e scelte di gruppi ed aree politiche, oggi poco di questo traspare. Un po’ perché forse criticare chi poi potremmo arrivare a voler avere come referente assembleare non viene vista come una scelta di lungo respiro, dall’altro perché forse c’è un divario sempre più profondo tra un certo pensiero ed il mondo circostante. In parte per scelta politica, in parte per incapacità, manca un’idea di continuo conflitto con chi lavora al recupero delle lotte e delle possibilità. Se davvero sentiamo una diversità rispetto a chi porta avanti certe tematiche contigue a quelle di nostro interesse, perché non dare importanza a questa differenza? Se negli anni passati vi era un dibattito acceso intorno alle gesta disobbedienti o autonome, cosa avviene oggi? Esiste una riflessione critica intorno ai movimenti che chiedono il vaccino senza brevetto? Esiste una riflessione sulle forme organizzative che si stanno dando nuovi gruppi e nuove sigle che emergono negli anni? Esiste una prospettiva di riflessione sulle forme comunicative che stanno prendendo piede ed una conseguente riflessione riguardo al perché ed al percome adottarle o meno?
Anche oggi esiste un Movimento dei Movimenti, anzi, forse non è mai scomparso a dispetto dei suoi innumerevoli fallimenti nel cercare di porsi come soggetto mediatore del conflitto sociale. Il conflitto con le forze del recupero o con le forze che cercano di imporre l’egemonia è ancora vivo, ma lo stiamo combattendo o cerchiamo la sopravvivenza quieta nel nostro angolo di mondo?
Come possiamo pensare che l’anarchismo come modello organizzativo e relazionale possa solleticare le sensibilità riottose se non siamo in grado di comunicarlo, se non proviamo il desiderio di discuterne, se non cerchiamo di metterlo in pratica nella nostra vita? Sarà allora che il modello dominante della delega e della gerarchia, del conflitto simulato, della logica dell’a poco a poco avrà definitivamente vinto: quando le voci critiche, sazie del loro compiacersi nelle loro torri d’avorio, smetteranno di essere continuamente fuori tempo e fuori luogo ma nitidamente comprensibili e raggiungibili da chi volesse tendere l’orecchio.
 
La rivolta impensabile
La rivolta non è prevedibile. Certo, può essere fomentata, spinta, perfino talvolta «organizzata», ma la rivolta non può essere mai ridotta a questo. Atti di rivolta individuali e collettivi si susseguono nello spazio e nel tempo, fortunatamente anche inaspettati. E la trasformazione qualitativa in un’insurrezione che incida radicalmente il tempo e lo spazio del potere? Anch’essa può avvenire inaspettatamente.
Allora come rapportarsi con questi momenti? Sicuramente sapendo fare a meno delle ricette. Piuttosto con l’inventiva e la disponibilità d’animo a vedere in ciò che accade la possibilità di rilanciare e moltiplicare l’intervento nel mondo. E avendo ben chiaro chi sono gli amici e chi i nemici.
Subito dopo il G8, invece, ci fu un’alluvione di prese di distanze, distinguo, chiarificazioni, spostamenti di prospettiva o insinuazioni complottiste. Punti di bassezza a dir poco memorabili. Eppure, hanno ugualmente qualcosa di importante da insegnare: ricordano chi sono i nemici e come si comportano.
Invece c’è sempre chi cerca di creare sintesi o di riappacificare posizioni che non possono essere pacificate. L’ecumenismo del “Movimento” è una strada tanto impervia che sembra quasi essere quella giusta. Eppure, una certa teorizzazione anarchica ha proposto forme organizzative che ci liberassero da tale ingrato e gravoso compito, permettendoci di dare un taglio con ciò che appare sempre più simile alla politica perché distante dalla ricerca della qualità nei rapporti, nell’etica e nell’immaginare l’agire.

 

Da dove ripartire?
La memoria può quindi restare viva, senza diventare simbolo o liturgia, finché resta collegata con un desiderio vitale di conflittualità permanente, autogestione della lotta e attacco. Se l’agire diventa fare, semplice ripetizione di schemi slegati da un progetto più complesso, allora è meglio che lasciamo perdere. Già tanta parte della nostra vita perde di senso che aumentare il vuoto che ci circonda significa soltanto farsi del male da soli.
Lo stesso accade per quel che riguarda la solidarietà nei confronti di chi subisce la repressione. Quanto ci interroghiamo su cosa significa proseguire l’impegno e le lotte interrotte dal potere e quanto invece ci dedichiamo a scrivere e distribuire dei volantini standardizzati dove scriviamo banalmente sempre le solite cose in un triste ripetersi sempre uguale a sé stesso?
Similmente, quando ci confrontiamo con contesti eterogenei, quanta fantasia mettiamo nel far trasparire la progettualità anarchica del nostro agire o nel rendere evidente la nostra insofferenza alle gerarchie, formali quanto informali? L’ostilità per il recupero e per l’autorità si riflette nel modo in cui ci rapportiamo con le persone che stanno conducendo delle lotte altre o pensiamo davvero che stare in situazioni gestite e determinate da altri possa in qualche modo arricchirci?
Tutto questo è ciò di cui ci parla la rivolta avvenuta durante il G8, come anche molti dei tentativi passati di insubordinazione.
Tutto questo è ciò che potrebbe suggerirci nuove pratiche di libertà da sperimentare. Alcune di queste sperimentazioni di libertà avvengono ancora, come ci rammenta il recente attacco al Polo tecnologico degli Erzelli a Genova. Altre speriamo di continuare a scorgerle, con l'augurio che anche infami e recuperatori del ventennale genovese possano incontrare ostacoli sulla loro strada. A Genova come altrove.
La scelta sta ad ognuno di noi, per sé stessi e per la propria sensibilità. Il pensiero fa male, a volte, ma solo la nostra coscienza ci può giudicare. Nessun altro.
 
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