Contropelo

Radiografia di un avvenimento

Alfredo M. Bonanno
 
Nella società post-industriale un avvenimento non si presenta mai come un oggetto esterno e chiuso in se stesso, di cui si sappia qualcosa e quindi di cui si possa dire qualcosa.
In sostanza l’elaborazione di un linguaggio sufficientemente critico in grado di parlare di un determinato avvenimento, nelle condizioni attuali, non è possibile. Qui sto provando a farlo, possiedo un linguaggio affinato in un ventennio di esercitazioni politiche e sociali, ma non posso dirmi effettivamente certo di possedere uno strumento adeguato a parlare di un avvenimento come quello che per comodità d’intendere posso anch’io chiamare “mani pulite”. In effetti l’uso di un linguaggio diverso dovrebbe consentirmi di accedere a conclusioni diverse, ed è proprio quello che voglio fare, ma le mie parole rinviano ad una ridondanza complessiva che è quella dell’ascolto quotidiano, per cui esse attraversano una infinità di altre scritture, e quindi di altre letture, dove si ripercuotono fino ad estinguersi nel proprio significato originario.
Dovrei potermi mettere sulle tracce del motivo generatore, del tratto fondamentale dell’avvenimento, insomma pervenire alle sue radici. Ma come fare?
Come superare l’enorme barriera continuamente crescente delle parole?
E quando fossi in grado di individuare l’etimo nascosto dell’avvenimento, come garantirmi che quell’intuizione non mi sfugga di mano diventando incomprensibile a causa del movimento stesso delle chiacchiere che continuano a prodursi?
Posseggo un metodo in grado indicarmi la strada verso la scoperta dei punti di forza dell’avvenimento senza alcun rispetto per le capacità espressive della fonte che lo trasmette e la sua potenza di coinvolgimento a livello di massa? Oppure sono costretto a vedere scomparire davanti ai miei occhi il significato umano di tutto quello che accade?
Parlando di qualcosa che è essenzialmente parola, perché qualunque avvenimento di cui abbiamo la pretesa di discutere finisce per essere costituito da parole e non da fatti concreti, o almeno da parole che hanno finito per prevalere sui fatti, si contribuisce a questo spossessamento. Un furto ai danni della collettività, continuato nel tempo, colossale, spettacolare, a volte indegnamente perpetrato, l’azione di una banda di politici corrotti e corruttori e di uomini d’affari corruttori e corrotti, tutto ciò, una volta detto, scade d’importanza, si affievolisce fino a venire messo in forse, mentre, per un altro senso, la parola monta e dilaga, attraversa la realtà, la plasma, la condiziona, la produce. Pochi casi come questo dei politici italiani corrotti e corruttori esemplificano con grande evidenza la nuova condizione della realtà post-industriale.
All’interno dei facitori di discorsi, anche anarchici se per per questo, circola un’illusione che tarda a morire, si pensa possibile un discorso oggettivo su di un avvenimento, ipotizzando il taglio netto di un segmento della realtà, un fatto in quanto tale su cui riflettere, da interpretare e in merito al quale subito dopo consigliare i lettori riguardo un da farsi successivo, un ulteriore segmento ipotizzato distaccabile dal primo, ad esso quasi sempre contrapposto, come due pugili che si guardano in cagnesco e aspettano il suono del gong per partire all’attacco.
Che qualcosa di simile sia possibile, nel chiuso delle chiacchiere che ci palleggiamo reciprocamente, è certo. Ma il problema si pone quando ci chiediamo se, oltre ad essere possibile, un discorso del genere sia anche significativo, contenga cioè informazioni adeguate allo scopo cui è indirizzato dal suo autore. L’illusione di significatività ha prodotto, in passato, e minaccia di continuare a produrre, simulacri di discorso, assemblaggio di pezzi legati insieme in una macchina infelice, incapace di funzionare. E questa macchina descrivendo la realtà s’inceppa nel suo essere estranea a se stessa, abbassandosi fino a diventare ancella di una schiacciante razionalità del reale che ha bisogno solo di una ulteriore critica per diventare perfetta in sé, completa e giustificata. Quindi, o lontananza o collaborazione, anche critica, che tanto nulla sembra disturbare il complesso produttivo dell’avvenimento.
Nell’insieme di movimenti produttivi dell’avvenimento, il discorso diverso cerca di sottolineare la corrente più congeniale alla tesi da dimostrare. Ciò non è fatto per carità di patria, né per riconfermare ipotesi teoriche da per se stesse reggerebbero anche al di fuori del fondamento fornito da un avvenimento concreto, ma è fatto per sottolineare quel processo logico interno alla realtà che si presuppone non sia visibile.
Riflettendo bene, dietro questa attuale intenzione, camuffata con i segni della brillantezza analitica, ci sta per intero la vecchia tesi controinformativa, che oggi non sembra fecondata da nessuno ma che continua a fare figli e non per partenogenesi. La chiarezza prima di tutto. Dateci la verità in pillole, per fare.
Voi che sapete leggere e scrivere dietro le righe, che dietro tutto trovate e svelate sempre qualcosa, svelateci la verità, perché indottrinandoci possiate metterci nelle condizioni di agire. A far definitivamente giustizia di tutto questo, come di tanti altri aspetti della realtà, ci ha pensato il capitale.
Il reticolo semantico dentro cui s’inchiavarda l’avvenimento, oggi non è più traducibile in chiarezze. Prima di tutto perché l’avvenimento stesso è trattato nei tanti quadratini di cui il reticolo si compone, con chiarezza e distinzione, come voleva a suo tempo Cartesio.
In questo modo il movente iniziale scompare, scomposto in una moltitudine di moventi, ognuno dei quali produttore di sviluppi suoi non sempre coordinati con quelli dell’altro movente subordinato. Questa sorta di polisemia produce un movimento distruttore di significato che annulla reciprocamente gli apporti di ogni movente all’interno dell’avvenimento nel suo insieme, fin quando l’avvenimento scompare e viene fuori un continuo rampollare di significati costantemente in grado di compensarsi e autoeliminarsi reciprocamente.
L’errore, in questo modo, lungi dall’essere un elemento estraneo alla composizione logica dell’evento, ne viene a far parte, anzi si sostituisce alla matrice originaria, quasi sempre scarsa e insignificante di per se stessa, e dilaga al suo posto. Così qualche volta l’avvenimento che circola, anzi la stessa griglia fondamentale su cui concrescono le successive correzioni, è costituito da uno o più errori dell’avvenimento archetipo, ma tali da risultare vere e proprie felici intuizioni, punti di svolta dell’avvenimento, non importa se voluti o involontari.
Non c’è pertanto legittimità logica nella pretesa di distinguere nettamente tra parola violentatrice, messaggio affidato alle grandi immagini che tutto appiattiscono nella gestione di massa, e parola interpretatrice, che aiuta all’azione essendosi sottratta all’abbraccio soffocante della prima. Tale distinzione, in fondo, non è mai veramente esistita, anche se la claustrale scelta militante può a volte averci fornita l’occasione per mettere in pace la nostra coscienza. L’incertezza derivava da una diversa gestione dell’avvenimento, adeguata ai tempi morti di un capitale non ancora padrone del tempo reale, non ancora in grado di costruire la realtà solo parlandone e obbligato ancora a produrla all’interno della rottura insanabile tra produzione dell’oggetto e suo rivestimento linguistico.
Procedere ad una collazione delle differenze, basata su di un numero altissimo di raffronti oggettivi, raffronti per altro tutti da individuare e difendere da possibili contestazioni in loco, sarebbe lavoro vano, essendo spesso ogni divaricazione dalla linea normale del presunto avvenimento originario, uno scostamento del tutto trascurabile, infinitesimale. A parte il fatto che questo metodo sarebbe in partenza annullato dalla presunzione oggettiva di riuscire a distinguere tra verità e falso.
A questo punto ci si può chiedere perché continuare, se quello che diciamo corre il rischio di risultare incomprensibile, e quindi, per ricevere legittimità significative, obbligato ad accettare le regole del gioco diventando funzionale all’avvenimento creato, elemento in fondo marginale di un gioco in cui non che essere giocati da una forza senza limiti superiori a noi. 
La domanda non sarebbe mal posta. Il rischio c’è ed è sotto gli occhi di tutti. Cosa potremmo dire dell’avvenimento “mani pulite”. Cavillare sul titolo giornalistico che non ci convince?
Discutere con poca o molta competenza del nuovo giustizialismo che si profila alle porte, sistema dottrinale e di potere che da sempre ha fornito supporti popolari e deliri di massa alle dittature di ogni tipo? Forse potremmo indicare i percorsi passati dell’avevamo detto? oppure dell’avevano detto? Povere Brigate Rosse, quanto ci paiono ingenue viste col senno del poi.
Forse l’appello alle emozioni, l’appello retorico allo sdegno per la virtù ferita e conculcata, potrebbe essere un modulo diverso? Oppure dato altri lo sviluppano fino in fondo il nostro vano insistere sembrerebbe un modesto obolo alla tesi della ricostruzione? Forse il discorso togato, quello della ristrutturazione della democrazia, l’analisi internazionale che si cala nella dimensione italiana, il venir meno delle necessità atlantiche e quindi il cedimento della vecchia classe politica corrotta e corruttrice? Ma tutto ciò ci passa sotto gli occhi. Quali i destinatari dei nostri discorsi? Quale la novità di essi? Quale la loro funzione? Dovremmo diventare i facitori di una nuova “Selezione” per lettori anarchici?
E le nostre idee, rivoluzionarie e libertarie, le idee della e dell’insurrezione, come si pongono di fronte all’avvenimento e al suo continuo fluire, al suo continuo farsi avvenimento, al suo rifiuto di restare fermo per un attimo per essere inquadrato per bene dalla nostra analisi?
Temo che si ricolleghino grazie ad una serie di considerazioni inevitabilmente destinate a suonare massimaliste e di maniera. Una serie di affermazioni scontate che implicitamente dimostrano, nella loro asettica rarefazione, come le nostre analisi, per essere altro, devono finire per tacere, per abbracciare il silenzio. Perché, cosa altro sarebbe se non silenzio, l’affermare una tesi rivoluzionaria di fronte all’avvenimento di cui parliamo?
Non sarebbe forse un morale, moralissimo grido di estraneità, un disperato e inutile tentativo di far sapere che noi siamo l’estremo lembo della purezza, l’incontaminata isola dove l’ideale continua a regnare incontrastato?
La lontananza tra le due parole non potrebbe essere maggiore. Diffidenza verso l’avvenimento, quindi.
E diffidenza verso noi stessi come parlatori dell’avvenimento, occasionali artefici d’una possibile collaborazione. Una estrema ed energica volontà di essere altri, anche a rischio di noi riuscire ad esprimere quello che vogliamo dire che, nelle intenzioni nostre, potrebbe essere tutt’altro che il silenzio. 
Come spezzare la produzione dell’avvenimento? E come, spezzandola, proporre una svolta significativa, una nostra svolta? E come evitare che questa svolta venga ripresa dall’avvenimento stesso e riciclata nel processo di significazione? Ecco le tre domande fondamentali che suggeriamo alla riflessione di tutti. Vediamo di dare qualche risposta, provvisoria beninteso?
Un avvenimento fruito nella sua totalità, un avvenimento complesso e competo, per come oggi ci viene costruito sotto gli occhi, è qualcosa in movimento, che possiamo possedere impegnandoci in mille modi, o lasciando che altri proponga noi stessi come oggetto passivo d’un impegno di ricezione. In pratica è quello che facciamo tutti i giorni, leggendo i giornali, più di uno, guardando i notiziari televisivi, più di uno.
Ma in questo modo l’avvenimento ha l’apparenza del movimento vitale, cioè di cosa che nasce sotto i nostri occhi. In effetti, esso muore sotto i nostri occhi, muore come fatto vivo e viene riprodotto continuamente come accadimento storicizzato, sia pure nella tempestività della cronaca, ma racchiuso ormai in una lontananza senza spazio e senza tempo, proprio perché questi sono stati aboliti dalla contestualità della trasmissione telematica. La potenza dell’avvenimento, come fatto che colpisce gli uomini, che ha un impatto con le coscienze, in primo luogo per quello che il fatto rappresenta, seppure esistita fin dal primo momento, con lo svolgersi della sua storicizzazione quotidiana, si affievolisce, l’ingiustizia si trasforma in battibecco. La continua riproduzione dell’avvenimento significa liquidazione di ciò che il fatto poteva significare, forse ha significato, sia pure per un attimo.
Il processo complessivo di gestione dell’avvenimento attraverso la parola non deve contenere nulla che non sia immediatamente dicibile, il fatto è sempre posteriore alla possibilità di trasformarlo in parole.
Può darsi anche che l’uomo non sia più capace di produrre fatti indicibili, quei grandi fatti di fronte ai quali il silenzio è la sola attestazione di significatività. Così, spesso, sempre più spesso, gli avvenimenti appaiono come depositi fossili della vitalità del dire. Quello che fluisce acquistando senso ai nostri occhi, e alle nostre orecchie, è la continua ripetizione della chiacchiera. Le parole si modulano sui fatti, ma non ci sono che pochissimi fatti capaci di rendere mute le parole.
Come spezzare questo processo?
Facendo rivivere l’avvenimento. Spezzando il circolo impotente della sua riproduzione automatica.
Questo non può avvenire con le parole, in quanto l’avvenimento è sempre fatto di parole. Deve quindi avvenire con l’azione. Ma esiste un’azione che non sia fatta anch’essa di parole? Certo che no. Ogni azione è anch’essa avvenimento, e come tale non sfugge alla regola della riproducibilità attraverso la parola. Quindi, l’avvenimento che spezza l’avvenimento precedente è anch’esso sottoposto alle medesime regole e viene prima o poi catturato, se un altro avvenimento non lo incalza sulla strada del precedente, fino a rendere più difficile il processo di recupero attraverso la parola. La creatività dell’azione che spezza l’avvenimento è quindi l’elemento che viene recuperato attraverso la parola, parlandone in ambiti via via sempre più ampi, fino alla macroscopica capacità dei grandi mezzi d’informazione. E non c’è modo di evitare questo recupero, però c’è anche da dire che più questa creatività è aliena dal far perno, fin dal suo porsi in atto, cioè in azione, sulle parole, più ha possibilità di spezzare l’avvenimento di fondo su cui essa s’innesta. Con buona pace dei vecchi comunicati cui l’archeologia rivoluzionaria affidava la spiegazione delle proprie azioni.
Nulla garantisce alla creatività uno statuto privilegiato nell’ambito della parola. Le regole sono sempre quelle dell’archivio, dove ogni cosa trova spiegazione e sistemazione. Ma la fruizione può avere momenti diversi, dove l’atteggiamento di supina ammirazione s’interrompe per far posto ad una sorta di lieta meneggevolezza dell’avvenimento, sempre comunque distante almeno fin quando non viene deciso di tagliare la sospensione dello spettatore. Ma, per mantenerci nell’ambito di questa distanza, che è la condizione reale più diffusa, la gioia creativa del fruire può anche significare rimaneggiamento e inserzione di nuovi elementi, questa volta voluti e coordinati, estranei per accurata scelta dell’avvenimento, non per naturale movimento interno all’accumulazione della parola.
Contrariamente a quanto si è creduto finora, abbacinati dalla chiara e distinta mania persecutoria degli analisti cartesiani, di cui siamo stati indegni eredi per tanti anni, non è affatto essenzializzando l’avvenimento che forniamo un servizio all’azione, e ciò perché ogni essenzializzazione, in quanto razionalizzazione è fatto della parola, quindi semplice aggiunzione mai di per sé chiarificatoria una volta per tutte. E, nell’ambito attuale del processo che stiamo esaminando, di crescita a dismisura dell’avvenimento, anche una semplice chiarificazione diventa elemento dell’alone deformante globale.
Potrebbe essere invece l’apporto creativo, e deliberatamente contrario ad ogni pretesa di chiarificazione, il passo diverso per andare, se non oltre, almeno in senso inverso a quello della dilagante normazione.
Così potremmo creare una selva quanto più ampia possibile di modificazioni e varianti dell’avvenimento, tutte create da noi, volute in maniera diversa, in grado di ingannare la ridondanza normativa dell’avvenimento. Se non altro mi sembra un’ipotesi da discutere. Ed è proprio questa selva di modificazioni e varianti che tengo presente quando parlo di azione o almeno di preparazione all’azione.
La svolta significativa all’avvenimento su cui si è innestata l’azione, è quindi data dall’azione stessa?
Fino ad un certo punto. Potrebbe non esserci un rapporto diretto, in termini di causa ed effetto. Il primo elemento che l’azione deve curare non è tanto lo sconvolgimento del processo riproduttivo, quanto l’inserimento ad altro titolo nel processo stesso, evitando il labirinto delle parole, il reticolo delle opportunità linguistiche o gestendoli diversamente. La svolta può determinarsi e può non determinarsi. Possono nascere altre azioni e anche queste avere una loro estraneità al meccanismo che gestisce l’avvenimento di fondo, quello su cui si sta operando, ed allora l’insieme di tutte queste azioni ha più probabilità di produrre svolte significative, costringendo il meccanismo di produzione a sforzi considerevoli per riprendere il controllo della situazione e la gestione dell’avvenimento e delle azioni che ormai, inaridendosi, sono anch’esse diventate contorno dell’avvenimento.
Si deve quindi concludere che non esiste un modo per evitare il recupero di questa svolta? In linea di massima il recupero è sempre possibile. Sarebbe illusorio prospettare scopi tanto complessi e a lunga scadenza ad un progetto rivoluzionario che deve fare i conti con meccanismi talmente potenti di recupero e di controllo. Comunque, trattandosi di effetti a largo raggio, e non può essere altrimenti se si vuole pensare alla presenza di una svolta vera e propria nell’avvenimento di fondo, possiamo anche ipotizzare la trasformazione radicale dell’avvenimento e quindi l’impossibilità del sistema di recupero e controllo, di arrivare alla gestione completa e soddisfacente dell’avvenimento stesso. Ma queste affermazioni restano tutte da verificare, caso per caso.
 
 
[Anarchismo n. 73, maggio 1994]