Autopsia

Decrescita o amministrazione della catastrofe?

Jaime Semprun e René Riesel
 
Se ci si attenesse alla formula di Paul Nougé «l’intelligenza deve avere un mordente. Essa attacca un problema», si sarebbe tentati di non accordare che una intelligenza assai mediocre a Serge Latouche, principale pensatore della «decrescita», quell’ideologia che si spaccia per critica radicale dello sviluppo economico e dei suoi sottoprodotti «durevoli». Egli fa mostra di un talento invero professionale, che confina in qualche caso col genio, nell’offuscare tutto ciò che tocca e trasformare qualsivoglia verità critica, una volta tradotta in neolingua decrescente, in banalità insipida e benpensante. Non è il caso tuttavia di attribuirgli tutto il merito di una insulsaggine sdolcinatamente edificante che è soprattutto il risultato di una sorta di politica: quella con cui la sinistra della perizia cerca di mobilitare truppe radunando tutti coloro che vogliono credere nella possibilità di «uscire dallo sviluppo» (vale a dire dal capitalismo) permanendo al suo interno. Ecco perché non valuteremo gli scritti di Latouche in quanto opera personale (a questo proposito, il genio del linguaggio è più crudele di qualsiasi giudizio: la sua prosa gli rende giustizia). Che una tale acqua tiepida, su cui galleggiano tutte le frasi fatte del cittadinismo ecocompatibile, possa passare per portatrice di una qualsivoglia sovversione — foss’anche «cognitiva» — dà solo la misura del diffuso conformismo. In compenso, per quel che qui ci interessa, Latouche è perfetto: sa adulare magistralmente la buona coscienza e alimentare le illusioni del piccolo personale indaffarato a «tessere legame sociale» e che si sente a un passo dall’essere inserito nell’amministrazione del disastro. È ciò che proprio lui definisce, all’inizio del suo Breve trattato sulla decrescita serena, fornire «uno strumento di lavoro per qualsiasi responsabile del mondo associativo o politico impegnato in particolare al livello locale o regionale».
Il programma della decrescita, così come Latouche lo propone sia al cittadinismo decomposto sia all’ecologismo in cerca di ricomposizione, non manca di evocare quello tracciato nel 1995 dall’americano Rifkin nel suo libro La fine del lavoro. Si trattava già allora di «annunciare la transizione verso una società post-mercantile e post-salariale» attraverso lo sviluppo di quello che Rifkin chiama il «terzo settore» (e che altrove si definisce «movimento associativo» o «economia sociale»), e a tale scopo lanciare un «movimento sociale di massa», «suscettibile di esercitare una forte pressione al tempo stesso sul settore privato e sui poteri pubblici», «per ottenere il trasferimento di una parte degli enormi benefici della nuova economia dell’informazione nella creazione di capitale sociale e nella ricostruzione della società civile». Ma presso i decrescenti si conta piuttosto sulle dure necessità della crisi ecologica ed energetica, di cui ci si propone di fare altrettanta virtù, per esercitare «una forte pressione» sugli industriali e sugli Stati. Nell’attesa, i militanti della decrescita devono predicare con l’esempio, mostrarsi pedagogicamente economi, all’avanguardia del razionamento battezzato «semplicità volontaria».
Proprio perché i decrescenti si presentano come portatori della volontà più determinata di «uscire dallo sviluppo», è presso di loro che meglio si misurano sia la profondità del rimpianto di doverlo fare (rovesciato in autoflagellazione e in comandamenti virtuosi) sia la reclusione durevole nelle categorie dell’argomentazione «scientifica». Per fortuna il fatum termodinamico allevia la scelta del percorso da prendere: è la «legge dell’entropia» che impone come sola «alternativa» la via della decrescita. Con questo uovo di Colombo, ponderato dal loro «grande economista» Georgecu-Roegen, i decrescenti sono certi di possedere l’argomento impareggiabile che non può che convincere industriali e governanti in buona fede. Altrimenti le conseguenze, prevedibili e calcolabili, sapranno costringerli a fare le scelte che si impongono (come dice Cochet, di cui Latouche ama citare il libro Pétrole apocalypse: «A cento dollari il barile di petrolio, si cambia civiltà»).
Qualificare la società come termoindustriale permette anche di trascurare tutto ciò che vi si produce in termini di coercizioni e reclutamento, senza contribuire, o quasi, all’esaurimento delle risorse energetiche. Attribuire tutti i nostri mali al carattere «termo-industriale» di questa società è quindi confortante, e nel contempo abbastanza semplice da soddisfare gli appetiti critici degli ingenui e dei cretini arrivisti, ultimi residui dell’ecologismo e del «movimento associativo», che costituiscono la base della decrescita. È la preoccupazione di non urtare questa base con verità troppo aspre, di farle balenare piano piano una transizione verso «la gioiosa ebbrezza dell’austerità condivisa» e il «paradiso della decrescita conviviale», che porta Latouche, il quale non è uno stupido, a simili povertà volontarie, roba da tornata elettorale o da enciclica pontificia: «È sempre più probabile che al di là di una certa soglia, la crescita del PNL si traduca con una diminuzione del benessere»; o ancora, dopo essersi avventurato fino ad imputare al «sistema mercantile» la desolazione del mondo: «Tutto ciò conferma i dubbi formulati in precedenza sull’ecocompatibilità del capitalismo con una società della decrescita» (La scommessa della decrescita).
In quanto, anche se la maggior parte dei decrescenti hanno ritenuto che fosse prematuro o maldestro creare formalmente un «Partito della decrescita», e preferibile «avere un peso nel dibattito», esiste comunque una specie di partito che non si definisce, con la sua gerarchia informale, i suoi militanti di base, i suoi intellettuali ed esperti, i suoi dirigenti e i suoi scopi politici. Tutto ciò sguazza nelle virtuose convenzioni di un cittadinismo che ci si guarda bene dal turbare con qualche eccesso critico: bisogna soprattutto non irritare nessuno al Monde diplomatique, gestire la sinistra, il parlamentarismo («Il rifiuto radicale della “democrazia” rappresentativa è eccessivo», ibid.) e più in generale il progressismo, facendo attenzione a non sembrare passatisti, tecnofobi, reazionari. La «transizione» verso «l’uscita dallo sviluppo» deve restare sufficientemente vaga da non proibire i maneggi e gli aggiustamenti di quanto solitamente si indica col nome di «politica politicante»: «I compromessi possibili sugli strumenti della transizione non devono far perdere di vista gli obiettivi sui quali non si può transigere» (Breve trattato della decrescita serena). Tali obiettivi sono salmodiati da Latouche con uno stile degno di una scuola-quadri di partito: «Si può sintetizzare l’insieme di questi cambiamenti in un circolo virtuoso di otto “R”: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi otto obiettivi interdipendenti possono innescare un processo di decrescita serena, conviviale e sostenibile» (Ibid.). Quanto a riutilizzare e riciclare, Latouche dà subito l’esempio ripetendo e rimasticando da un libro all’altro gli stessi pii desideri, le statistiche, gli indici, i riferimenti, gli esempi e le citazioni. Girando in tondo nel suo «circolo virtuoso», e in cerca di innovamento, ha quindi arricchito il suo catalogo con due «R» (riconcettualizzare e rilocalizzare), dall’epoca in cui il fiero progetto di «disfare lo sviluppo, rifare il mondo» veniva elaborato sotto l’egida dell’Unesco (cfr. Survivre au développement, 2004). Non si comprende perciò l’assenza di un nuovo comandamento — riappropriar(si) — ormai ripulito da ogni zaffata rivoluzionaria (l’antico «espropriamo gli espropriatori!»); così decontaminato, calza a pennello come un guanto fatto a mano alla rapida impresa di recupero alla quale si dedicano i decrescenti per sistemare alla bell’e meglio e in fretta una galleria di antenati presentabili (dove ora figurano «la tradizione anarchica all’interno del marxismo, attualizzata dalla Scuola di Francoforte, il consiliarismo e il situazionismo», Breve trattato...).
Secondo Latouche, la «scommessa della decrescita» consiste nel «mettersi nell’ottica dell’utopia conviviale che, coniugata all’impatto dei vincoli necessari al cambiamento, può favorire una “decolonizzazione dell’immaginario” e suscitare un numero sufficiente di comportamenti virtuosi in favore di una soluzione ragionevole: la democrazia ecologica». Se in materia di «costrizioni alla trasformazione» si vede bene a cosa possano servire i decrescenti — a dare il cambio, con i loro appelli all’autodisciplina, alla propaganda per il razionamento, affinché, per esempio, l’agricoltura industriale non manchi d’acqua per l’irrigazione —, per contro si comprende poco quale attrattiva potrebbe esercitare una «utopia» il cui «programma quasi elettorale» fa posto alla felicità e al piacere proponendo di «stimolare la “produzione” di beni relazionali». C’è da diffidare di slanci troppo lirici sui domani che decrescono. Non ci si compromette poi molto quando questi bisognosi, col loro berretto da notte, espongono con un brio da animatori socioculturali le loro promesse di «gioia di vivere» e di serenità conviviale. La felicità appare un’idea così nuova a costoro — e l’idea che ne hanno sembra talmente conforme alle gioie promesse da un festino macrobiotico — che possiamo immaginare come loro stessi muoiano di noia.
L’ideologia della decrescita è nata nell’ambiente degli esperti, fra coloro che, nel nome del realismo, volevano includere in una compatibilità «bioeconomica» quei «costi reali per la società» causati dalla distruzione della natura. Essa conserva il segno indelebile di questa origine: nonostante le solite chiacchiere sul «reincanto del mondo», resta l’ambizione — alla maniera di un qualsiasi tecnocrate alla Lester Brown — di «internizzare i costi per giungere ad una migliore gestione della biosfera». Il razionamento volontario viene esortato alla base, come esempio, ma al vertice si fanno appelli a misure statali: riorganizzazione della fiscalità («tasse ambientali»), sovvenzioni, norme. Se talvolta si rischia di fare professione di anticapitalismo — nella più perfetta incoerenza con proposte come quella di un «reddito minimo garantito», per esempio — non ci si avventura mai a dichiarasi antistatalisti. La sfumata tinta libertaria serve solo a gestire una parte del pubblico, a dare un tocco di sinistra molto consensuale e «anti-totalitario». Così l’alternativa irreale fra «ecofascismo» ed «ecodemocrazia» serve soprattutto a dire nulla sulla riorganizzazione burocratica in corso, alla quale si partecipa serenamente militando già per il reclutamento volontario, la sovrasocializzazione, la normalizzazione, la pacificazione dei conflitti. Perché la paura che esprime questo sogno puerile di una «transizione» senza lotta è, assai più di quella della catastrofe di cui viene agitato lo spettro per spingere i governanti a ravvedersi, quella dei disordini dove la libertà potrebbe prendere corpo, cessando d’essere una questione accademica. Ed è quindi del tutto logico che questa decrescita della coscienza finisca col trovare la sua felicità nel mondo virtuale, dove si può senza sentirsi colpevoli viaggiare «con un impatto molto limitato sull’ambiente» (dalla rivista francese Entropia, autunno 2007); a condizione tuttavia di dimenticare che nello stesso 2007, secondo uno studio successivo, «il settore delle tecnologie dell’informazione, a livello mondiale, ha contribuito al cambiamento climatico quanto il trasporto aereo» (Le Monde).
 
Per quanto lontano da ogni eccesso sappia mostrarsi Latouche nel compiere il suo «dovere d’iconoclastia», la decrescita ha nondimeno i suoi revisionisti, che la invitano ad osare apparire ciò che è e ad accantonare una volta per tutte lo stravagante abbigliamento sovversivo che non le dona affatto: «Una prima proposizione per consolidare l’idea di una decrescita pacifica sarebbe una rinuncia chiara e senza equivoci all’obiettivo rivoluzionario. Rompere, distruggere o rovesciare il mondo industriale mi sembra non solo un pericoloso capriccio, ma un appello nascosto alla violenza, proprio come lo era la volontà di sopprimere le classi sociali nella teoria marxista» (Alexandre Genko, La décroissance, une utopie sans danger?). Perfino un Jean-Paul Besset, portavoce di Hulot e difensore di una «Grenelle dell’ambiente» come «primo passo in un cammino di transizione verso la mutazione ecologica, sociale e culturale della società», si trova in difficoltà nel rilanciare in moderazione: «Dinanzi all’ampiezza e alla complessità del compito, non sono di certo le proiezioni verbose o i catechismi rivoluzionari che si riveleranno di grande aiuto. (...) Si ha un bell’abbigliare la decrescita con simpatici aggettivi — conviviale, equa, felice — la questione non si presenta con il sorriso (...) le transizioni saranno temibili, gli sradicamenti dolorosi» (ibid). Queste verdi rimostranze indicano a modo loro abbastanza bene come le raccomandazioni decrescenti non costituiscano affatto un programma di cui occorra discutere il contenuto, e quale sia lo spartito imposto su cui cercano di suonare la loro aria (decrescendo cantabile), a mo’ di accompagnamento di fine vita per un’epoca della società industriale: una «nuova arte del consumo» sulle rovine dell’abbondanza mercantile.
L’immagine abituale di quello che veniva definito «mondo libero», di fatto non era cambiata dai tempi di Yalta: quel conformismo democratico, bardato delle sue certezze, delle sue merci e delle sue tecnologie desiderabili, era stato certo brevemente scosso dai disordini rivoluzionari del ‘68, ma la «caduta del muro» sembrava assicurargli una specie di eternità (si è sbrigativamente parlato di «fine della storia»), e si riteneva di potersi felicitare del fatto che i suoi cugini poveri volessero accedere a loro volta e il più in fretta possibile ad analoghe delizie. In seguito ci si è dovuti cominciare a preoccupare del numero dei cugini, soprattutto dei più lontani, e a domandarsi se facessero proprio parte della famiglia, quando si sono messi ad aumentare sconsideratamente la loro «copia carbone». Quello che oramai allarma tutti non è più soltanto lo scenario classico della sovrappopolazione, dove a dispetto dei profitti di produttività le risorse alimentari si rivelerebbero insufficienti a provvedere ai bisogni delle persone in sovrannumero, ma è un’inedita configurazione in cui, a popolazione costante, la minaccia proviene da una sovrabbondanza di moderni che vivono in maniera moderna: «Se i cinesi o gli indiani dovessero vivere come noi...». Di fronte a questa «vera catastrofe», le panacee tecnologiche che si fanno ancora balenare (fusione nucleare, transgeni umani, colonizzazione degli oceani, esodo spaziale verso altri pianeti) non hanno affatto toni da utopie radiose, tranne che per qualche illuminato, ma piuttosto da palliativi che arriveranno comunque troppo tardi. Non resta quindi che predicare «dopo rinunce» e «sradicamenti dolorosi» a popolazioni che dovranno «scendere di diversi gradi nella scala dell’alimentazione, degli spostamenti, delle produzioni, dei modi di vita» (Besset); e, di fronte alle nuove potenze industriali, fare ritorno al protezionismo nel nome della lotta contro il «dumping ecologico», in attesa che anche qui emerga una constatazione più cosciente dei «costi ambientali» e delle misure da prendere.
Le «costrizioni del presente» che si compiace di ripetere il realismo degli esperti sono esclusivamente quelle imposte dal mantenimento e dalla generalizzazione planetaria di un modo di vita industriale condannato. Che si esercitino solo all’interno di un sistema di bisogni il cui smantellamento permetterebbe di trovare, sotto le complicazioni dementi della società amministrata e del suo apparato tecnologico, i problemi vitali che solo la libertà può porre e risolvere, e che questo incontro con costrizioni materiali affrontato senza intermediari possa costituire di per sé un’emancipazione, sono cose che nessuno ha l’ardire di difendere in modo netto e preciso, fra tutti quelli che ci intrattengono con gli immensi pericoli creati dal nostro ingresso nell’antropocene. Quando qualcuno si azzarda ad evocare timidamente qualcosa in tal senso, che forse non sarebbe una dolorosa rinuncia privarsi delle comodità della vita industriale, ma al contrario un immenso sollievo e una sensazione di rivivere, di solito si affretta a fare marcia indietro, consapevole di poter essere tacciato di terrorismo anti-democratico, o di totalitarismo o di ecofascismo, nel caso portasse fino in fondo i propri ragionamenti; da qui la profusione di opere in cui alcune osservazioni pertinenti vengono annegate in un oceano di considerazioni tranquillizzanti. Non c’è quasi più nessuno che concepisca la difesa delle proprie idee, non come una banale strategia per conquistare l’opinione sul modello di una lobby, bensì come un impegno in un conflitto storico dove ci si batte senza cercare altro appoggio di un «patto offensivo e difensivo con la verità», usando le parole di un intellettuale ungherese del 1956. Così, non si può che rimanere sconvolti dall’unificazione dei punti di vista, dall’assenza di ogni pensiero indipendente e di ogni voce realmente discordante. Se si considera la storia moderna, anche solo quella dell’ultimo secolo, si viene colti da vertigine nel constatare da una parte la varietà e l’audacia di tante posizioni, ipotesi e pareri contraddittori di vario genere, e dall’altra a cosa tutto ciò sia oggi ridotto. Al lavaggio del cervello a cui si sono abbandonati tanti protagonisti ancora viventi rispondono al massimo alcune opere storiche talvolta giudiziose, ma che sembrano piuttosto rientrare nel campo della paleontologia o delle scienze naturali, da tanto quelli che le realizzano sembrano lungi dall’immaginare che gli elementi che mettono in luce potrebbero avere oggi un qualche uso critico.
Il gusto per la conformità virtuosa, l’odio e il timor panico per la storia, se non come caricatura univoca e direzionale, hanno raggiunto un punto tale che a paragone di un odierno cittadinista — con le sue indignazioni calibrate e etichettate, la sua pretesca ipocrisia, la sua vigliaccheria davanti ad ogni conflitto diretto — un qualsiasi intellettuale di sinistra degli anni cinquanta o sessanta passerebbe quasi per un feroce libertario pieno di combattività, fantasia e umorismo. Osservando una simile normalizzazione delle menti, si perviene all’azione di una polizia del pensiero. Di fatto l’adesione al consenso è il prodotto spontaneo del sentimento di impotenza, dell’ansia che provoca, e del bisogno di ricercare la protezione della collettività organizzata con un sovrappiù di abbandono alla società totale. La messa in dubbio di una qualsiasi certezza democraticamente convalidata dall’assenso generale — i benefici della cultura via internet o quelli della medicina d’avanguardia — potrebbe lasciar supporre una deviazione rispetto alla linea dell’ortodossia ammessa, forse addirittura un pensiero indipendente, ovvero un giudizio portante sulla totalità della vita alienata. Chi può permetterselo? Tutto ciò ricorda abbastanza da vicino la massima della sottomissione militante, perinde ac cadaver, così come l’aveva formulata Trotski: «Il Partito ha sempre ragione». Ma mentre nelle società burocratiche totalitarie la costrizione era percepita come tale dalle masse, ed era un temibile privilegio dei militanti e degli apparatchiks dover credere alla finzione di una scelta possibile — pro o contro la patria socialista, la classe operaia, il Partito — cioè dover mettere costantemente alla prova una ortodossia mai sicura, questo privilegio è ora democratizzato, benché con minore intensità drammatica: non è questione di opporsi al bene della società, o a quanto essa dichiara necessario. È un dovere civico essere in buona salute, culturalmente aggiornato, connesso, ecc. Gli imperativi ecologici sono l’ultimo argomento senza replica. Chi mai potrebbe opporsi alla salvaguardia dell’organizzazione sociale che permetterà di salvare l’umanità, il pianeta e la biosfera? Una vera bazza per un carattere «cittadino» già consolidato e diffuso.
 
 
[Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable, 2008]