Fuoriporta

«Io non voglio andare là. Quel campo è una galera. Un modo sottile di imprigionarci»

 
La giungla non c'è più. Hanno raso al suolo quella umana di Calais, così come stanno abbattendo quella in Amazzonia. I luoghi selvaggi sono un abominio intollerabile per un mondo asettico e sterilizzato dove il solo rischio ammesso è quello di timbrare con qualche minuto di ritardo il cartellino della sopravvivenza quotidiana. Tutto deve stare in ordine, tutto deve essere sotto controllo. Che i dannati della terra si suicidino se vogliono sbarazzarsi della loro disperazione, ma che non vengano ad insozzare il tappeto davanti alla porta o quello davanti allo schermo, che non protestino, che non si ribellino. Così nelle strade rimarranno solo cittadini, più o meno soddisfatti ma pur sempre in fila.
È proprio vero: «Le foreste precedono gli uomini, i deserti li seguono». Quello che pubblichiamo è un articolo apparso in Francia poche settimane prima della devastazione della «giungla» di Calais — che rende chiaro sia cosa c'era in gioco sia come mettere i piedi sul tavolo — e pubblicato sul n. 5 di Paris sous tension nel gennaio di quest'anno.
 
 
A Calais, il 2016 comincia come è terminato il 2015: col rafforzamento delle misure repressive contro gli indesiderabili (clandestini, senza documenti, fuorilegge, ribelli,…), con dichiarazioni di guerra in atto da parte del governo e della sua polizia contro di loro. Il tutto con l’appoggio esplicito di una parte della popolazione, la più esecrabile, quella che ha scelto la xenofobia come palliativo alla sua esistenza miserabile, e che giubila nel vedere il governo — che non fa mai abbastanza, a suo parere — sciogliere le briglie e decidersi ad utilizzare grandi mezzi. E l’adesione passiva di coloro che di fronte alla gravità della situazione si schiereranno comunque dalla parte dello Stato, pretendendo che esso ristabilisca l’ordine, con la sola preoccupazione di mantenere le loro piccole comodità, il loro piccolo commercio, la loro piccola auto integra, il loro piccolo tran tran, la loro piccola tranquillità mentale, per consentire loro di vivere la propria vita senza prestare attenzione al mondo che li circonda.
Come in tanti altri angoli del mondo, a Calais oramai da anni sempre più persone affluiscono per passare in Inghilterra, per passare una frontiera che è loro preclusa poiché non dispongono dei documenti idonei, non corrispondenti alle esigenze dei decreti, non avendo diplomi o curricula vitae da esibire per vendersi sul mercato del lavoro, o magari perché mantenere nella paura del domani questa manodopera a buon mercato è un buon mezzo per addomesticarla e per disporne a piacimento. Da anni si stanno perciò organizzando tra di loro per sopravvivere, nell’attesa di poter tentare la propria fortuna e varcare illegalmente la frontiera, riuscendo a superare i numerosi ostacoli che separano un punto del territorio da un altro per chi è indesiderabile per lo Stato e per il mercato. E siccome in una situazione ostile molto spesso l’unione fa la forza, sono arrivati in migliaia (tra i 4500 e i 6000) ad abitare, in un accampamento di fortuna, una zona ormai conosciuta col nome di «Giungla». Gli sbirri, che erano soliti distruggere tende e capanne all’epoca in cui queste erano isolate le une dalle altre, non osano entrare nella «giungla» per far sloggiare gli abitanti. E quegli abitanti, non facendosi più cacciare un giorno sì e un giorno no, si stanno organizzando in piccoli gruppi e insieme per intrufolarsi nei tir di merci, e accedere al tunnel della Manica o al porto.
Ma ecco che, da diversi mesi, imprese come Eurotunnel e SNCF Réseau Ferré hanno ristretto l’accesso al Tunnel e rinforzato drasticamente il suo controllo, la prima assumendo un centinaio di cani da guardia, la seconda erigendo lungo i binari delle barriere alte alcuni metri e sormontate da filo spinato. Dal canto loro, gli sbirri, più numerosi e ormai equipaggiati con droni, beneficiano di un decreto (un jolly concesso loro con l’instaurazione dello stato d’emergenza) che consente di arrestare qualunque pedone sulla strada che conduce al porto, e di rifilarlo ai loro compari giudici che potranno condannarlo a 6 mesi di carcere. O gaudio, manifestano in coro il presidente della regione (che reclama l’intervento dell’esercito per man-te-ne-re-l’or-di-ne!), il sindaco di Calais e il prefetto, chiedendo la prigione o la deportazione per ogni immigrato colpevole di intrusione nelle zone portuali o nel sito dell’Eurotunnel (passaggi obbligati, in assenza di un portale spazio-temporale, per passare la frontiera), di scontri con la polizia (diventati necessari per tentare di introdursi nei siti in questione, oltre ai sempiterni benefici), di degrado e di «infrazioni di diritto comune» (sane reazioni frutto di frustrazione, delusione, collera, disperazione, rabbia…). Si tratta di oliare il tritacarne giudiziario, di far gravare la mannaia del carcere o dell’espulsione (il che significa nel meno peggiore dei casi ricominciare daccapo) sulla testa dei migranti che non si comportano come i burocrati, i funzionari, i giudici, i politici, si aspettano da loro: da vittime.
I sogni d’ordine e di pacificazione dei governanti di ogni pelo non saranno soddisfatti nei tempi a venire. A riprova di ciò, il 17 dicembre quasi un migliaio di persone si sono spostate lungo l’autostrada in direzione del tunnel. Col Natale che si avvicina si formano lunghe code nei pressi del centro commerciale, e pensano che avranno più possibilità di introdursi in un tir. E, dato che la polizia non è dello stesso parere, si succedono ore di scontri. Il 25 dicembre si ricomincia, in 2500 attraversano il centro di Calais dirigendosi al tunnel della Manica, ma la polizia li respinge. Sulla via del ritorno, a fare le spese della frustrazione e della rabbia sono le automobili: specchietti retrovisori e parabrezza infranti, tergicristalli piegati. Alcuni sbirri in divisa vengono feriti. In questi giorni oscuri in cui l’odio più cieco raggiunge l’egoismo più meschino, in cui la sottomissione più codarda prospera sull’assenza generale di speranza in una vita radicalmente altra, non si dovrà attendere a lungo prima di udire gli strilli per metà indignati per metà interessati della pacifica e laboriosa popolazione che si è allineata a fianco dell’ordine.
I genitori si lamentano… i bambini di una vicina scuola materna hanno fortemente avvertito gli effluvi dei gas lacrimogeni usati in dose massiccia dalle forze dell’ordine: i migranti sono pericolosi, gli occhi dei nostri bambini bruciano ancora.
I commercianti si lamentano… una cosa simile all’approssimarsi del Natale è una catastrofe; le persone non osano più fare le loro compere nel settore, e i loro percorsi in auto durano 8 volte più a lungo; i migranti non rispettano le nostre tradizioni, le compere di Natale sono sacre!
I rivieraschi si lamentano… alcuni immigrati hanno sfondato i cancelli dei giardini per passare, i bambini sono terrorizzati: i migranti sono minacciosi, non è che un giorno queste persone si introdurranno in casa per divorare i nostri figli?
I portuali si lamentano… che disastro non allontanare il centro di accoglienza attorno al quale si è sviluppata la «giungla» (dove ormai sopravvivono 4500 esseri umani). Da settembre, sono 7500 in meno i passaggi di tir: i migranti costano, fanno crollare il nostro giro d'affari.
Gli automobilisti si lamentano… «è la prima volta che viene rotto il mio specchietto retrovisore, proprio il giorno di Natale, che colpo!», «Il mio tettuccio è malconcio, quegli energumeni lo hanno preso a bastonate, che violenza, ma in che mondo viviamo!».
I «calaisiani in collera» (gruppo dai connotati ambigui, composto in maggioranza da agenti di sicurezza, che tutte le notti fra le 20.30 e le 5 pattuglia i dintorni della «giungla», sorveglia i dintorni della strada per prevenire il passaggio di migranti in direzione del tunnel) si lamentano… la popolazione di Calais non si è ancora unita a loro per combattere gli immigrati.
I trasportatori si lamentano… 36 milioni di euro di perdita a causa degli imbottigliamenti o dei controlli anti-immigrazione, dichiara un dirigente d'azienda per cui «il discorso politico si occupa sempre del problema di Calais da un’angolazione umanitaria, senza tenere conto degli aspetti economici»: i 20 migranti morti nella regione da giugno nel tentativo di raggiungere l'Inghilterra non si sono lamentati, loro, per il crollo del loro giro d'affari, quelli che sono sopravvissuti nemmeno.
Considerate le grosse difficoltà di mantenere l'ordine a Calais davanti ad individui che non rinunciano a proseguire il loro cammino — sulla strada di un esilio che in gran parte sono stati costretti ad affrontare, spinti dalle proprie condizioni di vita — verso la direzione che hanno scelto, l'Inghilterra, negli ultimi mesi lo Stato si è limitato a gestire il disordine. In due mesi, 1800 persone arrestate a Calais sono state spedite (attraverso l'aeroporto del Marck) nei centri di detenzione, carceri per stranieri, in tutta la Francia (Nîmes, Vincennes, Marsiglia, Tolosa, Rouen...) allo scopo di isolarli e scoraggiarli a ritornare.
Ormai lo Stato si dà nuovi mezzi per perseguire un obiettivo, quello che è condizione della sua esistenza e che gli conferisce legittimità: imporre l'ordine a Calais — ovviamente con la forza. Dare la caccia ai «migranti», quindi. Come testimoniano le ripetute richieste di intervento dell'esercito da parte del presidente della regione, l'arrivo di un veicolo blindato cingolato della gendarmeria utilizzato in casi estremi per domare assembramenti ostili di notevole dimensione (come accadde nel novembre 2005 quando una parte del territorio si infiammò per diverse settimane), o ancora il getto di grandi quantità di lacrimogeni dentro il campo stesso colpendo l'insieme dei suoi abitanti senza alcuna discriminazione.
In quest'ottica, l'apertura di un campo al centro della «giungla» è la spina dorsale del progetto governativo, progetto terrificante per ogni persona non ancora sorda alle sofferenze umane, non ancora insensibile di fronte alla fredda negazione dell'esistenza dell'individuo nel nome di interessi superiori, e profondamente convinta dell'impossibilità per ognuno di vivere liberi in un mondo fondato sull'autorità. È da lunedì 11 gennaio che questo campo è già in funzione. Con 125 container prefabbricati di 12 metri di lunghezza. L’uno sull'altro. Ogni container ha 6 letti sovrapposti. Ogni persona dispone di 2,33 metri quadri. Né doccia né cucina. In tutto 1500 posti. Il campo è recintato. Dotato di telecamere di sorveglianza. Controllo biometrico all'entrata.  Dopo due mesi di propaganda nella «giungla», solo 114 cosiddetti «volontari» (è evidente che non è la volontà a spingere a tale scelta, ma la necessità di sopravvivere e i suoi calcoli) hanno accettato di recarvisi una volta terminati i lavori. Ecco quindi cosa annunciano i tempi a venire: internamento nel campo dietro ricatto per una parte dei migranti della giungla con identificazione e registrazione obbligatorie, e trasferimento forzato per gli altri (gli impiegati della associazione La Vie Active che gestisce il campo aiutati dal Soccorso Cattolico, Salam, l'ostello dei migranti e Act'Aid hanno già cominciato a convincere ad andarsene i 500 abitanti della «giungla»), invio in centri di detenzione e/o espulsione per parte di loro. Poiché l'obiettivo dello Stato è di assumere il controllo totale della zona, di afferrare il più possibile nelle sue reti ognuno dei suoi abitanti (reti di cui la polizia, le amministrazioni come l'OFPRA [Ufficio Francese di Protezione dei Rifugiati e Apatridi], e le associazioni umanitarie costituiscono di volta in volta le differenti maglie) e di chiudere totalmente la frontiera con l'Inghilterra, ciò passa attraverso la distruzione della «giungla», uno spazio dove arrangiarsi per sopravvivere e organizzarsi insieme in maniera autonoma è ancora possibile.
Una buona notizia ci arriva proprio mentre stiamo scrivendo queste righe. Una buona notizia per ogni persona che desidera la distruzione delle frontiere, e che ci ricorda che è sempre possibile agire. La notte fra il 15 e il 16 gennaio due mezzi di cantiere sono stati incendiati nelle vicinanze del campo. Mezzi che appartenevano alla società Sogéa, che ha effettuato l'installazione dei container. Una buona notizia che dice anche: chi vuole lottare può darsi i mezzi. A Calais come altrove.
 
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Fra le aziende che collaborano a tale progetto, spartendosi i 20 milioni di euro della torta (progettazione e funzionamento), citiamo:
 
Logistic Solution
fornitrice dei contenitori La PME Logistic Solution e già partner regolare dei militari e del ministero della Difesa, fornisce anche dei container nel cantiere di Mururoa in associazione con Sodexo Defense Services. È anche fornitrice dell’esercito egiziano.
ATMG
sorveglianza del sito durante i lavori, così come nei cantieri Eiffage, Bouygues, ecc.
Biro Sécurité
Dispositivo biometrico del campo e di sorveglianza del centro d’accoglienza Jules-Ferry e della zona «tampone» fin dal marzo 2015.
Association La Vie Active
Associazione di «utilità pubblica», gestisce, oltre al campo, più di 70 stabilimenti e siti, nel settore dell’infanzia, dell’adolescenza, del sociale, degli handicap, degli anziani.
 
Oltre agli alberghi Première Classe, Kyriad, Quality Hôtel e Campanile di Loon Plage e di Ambouts-Cappel, che affittano le loro stanze ai CRS (polizia antisommossa).
 

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Parigi sotto tensione

(giornale anarchico su Parigi e oltre)
 
Lasciarsi sfruttare, scegliere un padrone (o farselo imporre) e in generale comportarsi come tutti; è questa la libertà? No di certo. Superiamo questa amara constatazione che facciamo – troppo – regolarmente. Riflettiamo e discutiamo di tutto ciò che ci opprime, ci sfrutta e ci impedisce di emanciparci. Puntiamo il dito contro i responsabili, i collaborazionisti, i loro progetti e le loro strutture che contribuiscono alla perpetuazione e allo sviluppo del dominio e dello sfruttamento. Facciamo risuonare le diverse manifestazioni di insubordinazione e di attacco, le rivolte più o meno estese nello spazio e nel tempo. Perché il dominio e lo sfruttamento si incarnano in persone, in uffici, in strutture, in veicoli, ecc. ben reali e raggiungibili dall’immaginazione di ciascuno-a. Ecco la nostra convinzione: noi possiamo darci i mezzi per riprendere in mano la nostra vita, alzare la testa, agire e rispondere colpo su colpo al «migliore dei mondi» da noi stessi, in modo diretto e autonomo. Senza sottometterci, né comandare. E, al di là di ogni cinismo o rassegnazione, siamo capaci di sognare e di immaginare una vita e dei rapporti altri rispetto a quelli che ci vengono imposti. Questo giornale vuole quindi essere un miscuglio di ossigeno e di scintille, di idee e di sogni di libertà, di attacchi, di insubordinazione e di offensive disparate. Da individui di qui e di altrove che si mettono in gioco; con audacia, lucidità, speranza, disgusto, rabbia, gioia e fiducia in se stessi, nelle proprie idee e nei propri complici… Questo giornale desidera mostrare ed essere una convergenza di queste vite; vite come scommesse in tensione*…
 
*  gioco di parole con diversi significati: paris può significare Parigi, ma anche scommesse o sfide.