Macchianera

Derive

Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie

Paola Staccioli

DeriveApprodi, Roma, 2015

 

Un titolo che incuriosisce, quello di questo libro che racconta la vita, ma soprattutto la morte, di alcune sovversive e rivoluzionarie. Tra esse vi è, unica anarchica, Soledad Rosas, condannata, come molti sanno, alla fine degli anni ’90 per sabotaggi contro l’alta velocità in Val Susa; le altre donne di cui tratta il libro sono brigatiste o combattenti nella lotta armata negli anni '70 e '80. Solo una – oltre Soledad – degli anni '90/2000. L’unica testimonianza di una donna ancora in vita è quella di Silvia Baraldini, che ha scontato alcuni decenni di detenzione negli Stati Uniti tra gli anni '70/80/90 sempre per motivi legati alla lotta politica radicale. Il filo che lega queste donne, oltre al loro genere, è quello di essere delle rivoluzionarie e di essere accomunate da una morte drammatica, in qualche caso avvenuta per suicidio.
Vi sono molti documenti e libri sugli anni '70, sulla lotta armata; tanti protagonisti di quell’epoca che in prima persona, il più delle volte, hanno descritto, raccontato quegli anni, la lotta armata, il carcere, la repressione, le torture. Interessanti a capire le tensioni dell’epoca, alcune vicende specifiche, il quadro storico-politico, il punto di vista di chi lottava. “Sebben che siamo donne” invece, a parte per la storia di Silvia Baraldini, che è raccontata in prima persona, è una raccolta romanzata delle storie di alcune comuniste e di una anarchica, delle loro scelte di vita, di dettagli inutili e fastidiosi, tra l’altro assolutamente ipotetici, delle dicerie della gente (sempre ipotetiche), di stereotipi legati alla differenza tra un uomo e una donna che scelgono la lotta armata o decidono di dedicare la propria vita alla politica, di luoghi comuni e falsi pensieri. A che pro? Queste donne non possono più ribattere ad un discorso, anzi, come usa dire ora, alla narrazione di questo libro.
Un racconto vale un altro e, in un’epoca in cui la narrazione appunto prevale sull’idea, tutto fa brodo al fine di riempire un libro. Si afferma, nel testo, che non vi è l’intento di rendere queste donne delle icone, eppure questo è il risultato che si produce: esse assurgono al ruolo di martiri, combattenti in una lotta contro lo Stato. I dettagli sulla vita quotidiana, gli amori, stralci molto intimi di lettere dal carcere, i pensieri scritti sul diario, fanno da contraltare ad una morte eccezionale. Una normalità rubata all’intimità che si contrappone ad una morte tragica ma che più che far riflettere, produce in chi legge una repulsione verso l’intromissione in ciò che era privato, personale, custodito.
Questo libro sulla donne e la lotta armata, che tira in mezzo anche gli anarchici –  non si capisce perché – con la storia di Soledad Rosas, risente di una impostazione in cui la rappresentazione prende il posto dell’esperienza e rimane un dubbio amaro: perché? Forse in questo modo la scelta di queste donne è più comprensibile e appare meno estrema, violenta, radicale? Forse farcire di dettagli personali distoglie dai motivi e dalle scelte che in fondo la stessa autrice dice di non condividere appieno? Inoltre risulta quanto meno poco chiaro accomunare percorsi di lotta tanto distanti tra loro, per la temporalità, le prospettive, i metodi, le idee, come quello di Sole e delle brigatiste, ad esempio, solo per una questione di genere. D’altro canto, la presentazione del libro tenuta dall’autrice, se possibile, risulta essere anche peggio del libro stesso, dal momento che questa impostazione romanzata viene ancor di più sottolineata. Ad accompagnare la presentazione vi è anche Silvia Baraldini, che ultimamente non si tira indietro a nessun tipo di incontro, neanche quello con le direttrici del carcere e che dispensa autografi e fotografie ai suoi lettori-ammiratori.
Del resto, la casa editrice che lo ha editato non poteva pubblicare un lavoro con un taglio diverso. Largamente impegnata, negli ultimi tempi, nel pubblicare testi che trattano la lotta armata, gli anni della contestazione, della violenza rivoluzionaria e dell'assalto al cielo, questi titoli sembrano raccontare un passato mitico e ormai irripetibile; sembrano narrare un'esperienza di sovversione vissuta in Italia – e non solo – ormai impossibile da realizzare. Un passato che è passato per sempre, insomma, da consegnare agli armadi ammuffiti della Storia. Non a caso, il guru politico, ideologico e culturale di cui Derive Approdi raccoglie l'eredità, già nel settembre del 1982 dava per passata e chiusa quell'esperienza di cui tanto si pubblica, firmando un documento di dissociazione chiamato “Manifesto dei 51”.
Solo un’ultima questione sorge in effetti. Ma gli anarchici, con tutto questo, che c’entrano?

[16/02/2016]