Contropelo

Insurrezione e bispensiero

III
 
«Uno dei tratti comuni della LQR, l’idioma dei pubblicitari e la lingua del III Reich
— parallelo che non implica ovviamente alcuna assimilazione fra neoliberalismo e nazismo —
è la ricerca dell’efficacia anche a scapito della verosimiglianza […] 
Della lingua nazista, Jean-Pierre Faye scrive: “La cosa più sorprendente è che le sue stesse 
inconseguenze le sono funzionali: poiché giocano anche nel campo che le ha prodotte, 
si direbbe che tendano a ricaricarlo”. Nemmeno la LQR teme l’inconseguenza»
Eric Hazan, LQR. La propagande du quotidien
 
 
Tanto meno la teme il linguaggio del Comitato Invisibile. L’aspetto che più salta agli occhi davanti ai suoi scritti è proprio la mancanza di una logica consequenziale sottostante alle sue affermazioni. Pare sia una caratteristica di tutto questo ambiente, se già nel 2003 gli ultimi redattori di Tiqqun annunciavano nel loro (bando di arruolamento chiamato quindi) Appel: «Non prenderemo la pena di dimostrare, di argomentare, di convincere. Andremo all’evidenza. L’evidenza non è innanzitutto affare di logica, di ragionamento. Essa è dalla parte del sensibile, dalla parte dei mondi». Viene già da sorridere per il curioso ed interessato accostamento di termini. In generale, il sensibile è quanto di più lontano ci sia da una evidenza. Il sensibile è soggettivo, singolare, oscuro come un enigma che va interpretato da ognuno singolarmente. Invece l’evidenza è oggettiva, comune, chiara come una certezza esplicita per tutti collettivamente. Il sensibile è controverso, l’evidenza no, è accertata. Se entrambi non sono «affare di logica», è per motivi diametralmente opposti. La ragione non ha la capacità di fare affari con ciò che si trova al di là della sua portata (come l’inafferrabile sensibile), mentre non ha bisogno di farne con ciò che ne è al di qua (come la già scontata evidenza). Ma ciò che interessa agli autori dell’Appel, ciò che li fa sbavare davanti all’evocazione del sensibile come dell’evidenza, è che entrambi sono riconosciuti, comunque accettati e, soprattutto, non si discutono. Ognuno ha la propria sensibilità inaccessibile, tutti si arrendono davanti all’evidenza innegabile.
Si tratta della stessa preoccupazione che affligge il C. I.: non essere messo in discussione. Quindi, per non correre il rischio che le sue parole siano vagliate, ponderate, magari confutate, per far sì che vengano anch’esse immediatamente riconosciute ed accettate quali che siano, ostenta una superiore indifferenza per la sostanza dei contenuti — una noiosa perdita di tempo — preferendo far fremere i lettori con sensazioni a fior di pelle, come la seta: intensità, consistenza, finezza. Nel suo esordio del 2007 si affrettava a presentarsi sotto le vesti non di autore responsabile, bensì di «scriba» che non porta pena, il quale si limita a registrare i «luoghi comuni», le «verità» e le «constatazioni» dell’epoca. In questa maniera L’insurrezione che viene diventava non un libro su cui riflettere e dibattere, bensì di cui prendere atto. Un testo sacro, insomma.
Sulla stessa scia, Ai nostri amici si presenta come un commentario di alcuni slogan tracciati sui muri durante le rivolte scoppiate in giro per il mondo. Ogni capitolo prende infatti il titolo da un graffito, la cui immagine viene riportata nella pagina di apertura. Attraverso questo patetico espediente i clienti vengono indirizzati a constatare l’ennesima evidenza indotta — Non è il C. I. a parlare, è l’insurrezione mondiale; però, avete visto?, l’insurrezione mondiale dice proprio quello che dice il C. I.! Ma certo che sì, d’altronde i muri di questo pianeta danno ragione a chiunque, dai democratici ai fascisti, dai fanatici religiosi ai tifosi sportivi, passando per i maniaci del sesso. Basta scegliere la fotografia giusta.
Non è difficile capire che per i comuni mortali intenzionati a farsi passare per Padre, Figlio e Spirito Santo esiste un solo metodo sicuro per rendere le proprie parole infallibili. Dire tutto e il suo contrario. Sfogliate le pagine del C. I. e state pur certi che ogni sua affermazione, perentoria come si conviene ad una evidenza, conoscerà poche pagine dopo un’altrettanto perentoria smentita. In questa maniera ciò che sostiene sarà sempre vero e chi lo critica sosterrà per forza di cose il falso. È davvero curiosa la sua intenzione di dipanare la «più grande confusione», di «sbrogliare la matassa del presente, e regolare qui e là i conti con delle falsità millenarie» attraverso un uragano di contraddizioni, sofismi e controsensi, ma temiamo che tale confusione e tali falsità potranno solo aumentare alla lettura dei suoi libri in cui ogni minima logica e consequenzialità vengono letteralmente sbriciolate.
Gli esempi che si possono fare in proposito rischiano di essere sterminati. Si è già visto come il C. I. sfoggi la propria modestia per soddisfare la propria vanità. Non manca in nessuna occasione di insultare la sinistra, da cui però si fa pubblicare e di cui teorizza la frequentazione. Denuncia il recupero e l’impotenza delle idee radicali se messe al servizio del commercio editoriale, per cui non esita a praticarlo. Tuona di voler disertare questo mondo, ma non sopporta coloro che lo abbandonano (a differenza di questi ultimi, per fare secessione dal mondo lo agguanta per prendervi posizione!). Si lagna dell’essere umano alienato dalle chincaglierie tecnologiche, poi esorta ad usarle dopo aver svelato la natura etica della tecnica. A proposito di etica, la considera adorabile ma solo se al servizio della politica. Ammette che l’insurrezione dipende da criteri qualitativi, sottoponendo ogni atto a criteri quantitativi. Cita i fuorilegge che negano l’esistenza di un altro mondo, poi annuncia di creare mondi. Vede la guerra dappertutto e la vuole fare in maniera così dirompente da non designare il nemico, anzi, facendoselo amico. S’interessa a qualsiasi lotta rivendicativa, nata con qualsiasi pretesto, ma poi biasima chi solleva la questione dell’austerità. Critica più volte il mito dell’assemblearismo e l’ansia di legittimità presenti in molte lotte, per cui esalta il grande merito di quelle che più ne sono infestate. Ai realisti sbatte in faccia le capacità auto-organizzative messe in atto dalle persone quando si trovano improvvisamente prive dei servizi dello Stato, poi diventa realista a sua volta e prescrive corsi preventivi di auto-organizzazione per tutti. Invita gli smemorati a rammentare l’antica origine insurrezionale del termine “popolare” (populor = devastare) ma omette volutamente di spiegare che la devastazione era quella compiuta dai soldati in guerra (populus = esercito). Vuole che la vita metta radici nella terra, ma non sopporta che l’idea metta radici nella vita. Mentre espone la sua critica agli ambienti di movimento accusa di autofagia quei sovversivi che criticano gli ambienti di movimento. Rimprovera ai rivoluzionari di non aver compreso che il potere si trova nelle infrastrutture, che è là che bisogna colpire, poi però mette in guardia dal passare all’azione. Dato che organizzarsi è un’attenzione e organizzare è una gestione, invita ad organizzare i divenire-rivoluzionari. Proclama la fine della civiltà, ammonendo che la sua complessità tecnica la rende immortale. Irride alle divisioni che indeboliscono il movimento, ma ammette che la frammentazione può rendere indomabili. Va in visibilio per lo slancio dello spontaneismo, ma se non è del tutto spontaneista è meglio. Assieme al «compagno Deleuze» sostiene che bisogna essere più centralisti dei centralisti, ma poi assieme a un compagno egiziano sostiene di non volere leader, quindi la centralità per non essere troppo oppressiva deve essere trasversale... Sono solo alcuni esempi per spiegare la nausea che ci assale dopo un po’ di su e giù sulle montagne russe teoriche costruite da chi nel 2007 annunciava L’insurrezione che viene e nel 2014 rivela che lo scopo di ogni profezia è di «imporre qui ed ora l’attesa, la passività, la sottomissione».
Ora, quando ci si imbatte in qualcuno che si lascia abitualmente andare ad affermazioni fra loro contrastanti, sorge spontaneo ed immediato un dubbio: ma costui si rende conto delle assurdità che sostiene? Se non se ne accorge, forse la sua intelligenza è alquanto limitata. Se viceversa ne è consapevole, perché lo fa? Ci sarà dietro una qualche motivazione poco chiara, che ci sfugge. Insomma, la conclusione a cui si perviene in questi casi si riduce ad una alternativa secca. O si è davanti ad una persona consapevole, ed allora è un opportunista. Oppure, in caso contrario, si tratta di un imbecille. Ma il Comitato Invisibile, facile avvedersene, imbecille non lo è di certo. Resta l’altra ipotesi, assai più attendibile. Ciò spiega il motivo del profondo disgusto che ci pervade alla lettura dei suoi testi (lo stesso che abbiamo provato davanti a quell’Appel che, in certo qual modo e chiunque ne fosse l’autore, li aveva preceduti all’interno del movimento). Sarà che siamo vittime di quel romanticismo rivoluzionario che ama vedere in ogni nemico dell’ordine costituito un Cavaliere dell’Idea; sarà che, come Winston Smith, anche noi non riusciamo bene a staccarci dalle convenzioni dell’archelingua: ma come non provare ribrezzo davanti a chi vorrebbe fare la rivoluzione attraverso i contorsionismi del bispensiero? Tutto ciò sarà pure commercialmente e politicamente conveniente — come insegna il successo editoriale del Comitato Invisibile e quello elettorale del suo primo Fan Club — ma rimane eticamente agghiacciante.
 
 
IV
 
«Io, nelle scosse delle sommosse,
tenni, per àncora di ogni burrasca,
da dieci a dodici coccarde in tasca»
Giuseppe Giusti, Brindisi a Girella
 
 
In latino pare trovi origine in una frecciata al maestro della retorica Cicerone, che soleva «duabus sellis sedere» (sedere su due scranni). In francese oggi si dice «jouer sur les deux tableaux» (giocare sui due tavoli). In inglese si traduce con «to run with the hare and hunt with the hounds» (correre con la lepre e cacciare con i segugi). In tedesco diventa «zwischen Baum und Borke leben» (stare fra l’albero e la corteccia). In spagnolo suona come «nadar entre dos aguas» (nuotare fra due acque). Mentre in italiano è «tenere i piedi in più scarpe».
Ogni lingua ha una sua colorita espressione per indicare l’atteggiamento di chi non esita a mutare parere e comportamento a seconda del momento e della situazione, per descrivere le oscillazioni dei voltagabbana, dei camaleonti, dei doppiogiochisti. L’opportunismo è una vecchia tara che affligge la politica, riformista o rivoluzionaria che sia. Come gli Appelli, esso diventa manifesto soprattutto nei periodi di manifesta crisi. Quando gli avvenimenti si susseguono ad un ritmo più o meno regolare, è facile tenere assieme teoria e pratica, mezzi e fini. Ma quando quel ritmo viene sconvolto, quando l’urgenza prende alla testa, è allora che ci si trasforma in acrobati della Tattica. Dalla ricerca di ciò che si considera giusto (questione etica) si passa alla ricerca di ciò che si considera funzionale e conveniente (questione tecnico-politica), chiudendo gli occhi di fronte alle possibili incongruenze. Ne sanno qualcosa quegli anarchici spagnoli che nel 1936 diventarono ministri, come quel Garcia Oliver che — passato nel giro di pochi mesi dallo svaligiare banche al redigere decreti legge — cominciò a pretendere di «usare gli stessi metodi del nemico, e specialmente disciplina e unità».
La caratteristica del Comitato Invisibile non è di mettere in atto una pratica in contraddizione con una propria teoria, giacché sostiene fin da subito teorie contrapposte, spalancando la porta a qualsivoglia pratica. È talmente pieno di contraddizioni da non risultare più nemmeno contraddittorio. Anzi. Infatti se si può dire tutto e il suo contrario, allora si può anche fare tutto e il suo contrario. È il segreto del suo successo: dare una sembianza di coerenza all’incoerenza. È ciò che ha commosso il suo editore Hazan, critico teorico della pubblicità di cui è utilizzatore pratico, nonché rivoluzionario sia editore di giudici e sbirri che sostenitore di candidati presidenziali. E questo pare proprio eccitare anche i suoi ammiratori di Tarnac, i quali dopo aver appreso ieri che «la visibilità va evitata» e che bisogna «organizzarsi coerentemente», e prima di ripetere oggi che «Il disgusto, la pura negatività, il rifiuto assoluto sono attualmente le sole forze politiche discernibili», hanno pensato bene di salire sulla ribalta politica e mediatica. Ma non crediate che editore e Fan club non concordino con la constatazione che «le elezioni costituiscono da almeno due secoli lo strumento più consueto, dopo l’esercito, per far tacere le insurrezioni», semplicemente avevano imparato già nel 2007 che «chi va ancora a votare sembra voler far saltare le urne a forza di voti di protesta. È lecito sospettare che in realtà si continui a votare contro il voto stesso». Uno sforzo vano giacché è notorio, tranne che a Tarnac, che il capitale da quando «i rivoluzionari degli anni Sessanta e Settanta gli hanno sbattuto in faccia che non ne potevano più di lui… seleziona i suoi eletti… territorio per territorio». Tutto chiaro, vero?
Naturalmente questa assoluta assenza di coerenza è anche e soprattutto ciò che attrae i clienti del Comitato, ciò per cui gli sono doppiamente grati. Innanzitutto per produrre merci che permettono ad un prezzo in fondo abbordabile di entrare nella realtà virtuale dell’insurrezione, di vivere «come se fossero vere» mille avventure senza correre il rischio di farsi un graffio. Ai lettori basta sfogliare il suo libro per vedersi seduti al tavolo del Comitato Strategico dell’Insurrezione Mondiale, nelle orecchie le parole degli insorti di piazza Tharir, negli occhi le strade di Exarcheia, Edward Snowden in fuga dalla CIA seduto a destra e il subcomandante Marcos sulla sinistra. Perché in fondo, a detta dello stesso C. I., tutto si riduce ad essere una mera questione di percezione e sensibilità. Una botta di adrenalina che si protrae anche dopo la lettura del libro, ché a quel punto i lettori si sentono sollevati e gratificati e liberi di fare qualsiasi cosa, foss’anche il tecnico nucleare al servizio dell’esercito. Esclusi i poliziotti ed i fascisti (in attesa del plotone di esecuzione, o di qualche futuro utilizzo tattico?), tutti gli altri ora sanno di poter un giorno unirsi ai rivoluzionari, ai veri rivoluzionari, a coloro che non guardano né alle intenzioni né alle responsabilità individuali, ma solo alle competenze tecniche.
Un simile eclettismo pratico non è solo l’implicita conseguenza della formulazione contemporanea di più pensieri contrapposti, ovvero dell’assenza di una teoria coerente e conseguente, essendo esplicitamente teorizzato dallo stesso Comitato. Dopo e come Tiqqun, esso ripete come un mantra la necessità di una azione basata su di una morale della situazione. Ovvero sulla disinvolta disponibilità, capacità, abilità di adeguarsi alle circostanze, di mimetizzarsi nell’ambiente, di essere — per dirla alla sua maniera — «all’altezza della situazione». Qui si potrebbe forse richiamare l’antico relativismo sofista di Gorgia, ma è meglio rimanere alla volgare archelingua del fine che giustifica i mezzi. Se già sull’Appel si poteva leggere che «Organizzarsi vuol dire: partire dalla situazione, e non respingerla. Prendere partito al suo interno. Tesservi le solidarietà necessarie, materiali, affettive, politiche… La posizione presa all’interno di una situazione determina il bisogno di allearsi e perciò di stabilire certe linee di comunicazione, di circolazione più larghe. A loro volta, questi nuovi legami riconfigurano la situazione», su Ai nostri amici si sostiene che «Il conflitto è la stoffa stessa di ciò che esiste. Resta da acquisire la maniera di condurlo, la quale è un’arte di vivere le situazioni che presuppone finezza e mobilità esistenziale piuttosto che volontà di schiacciare chiunque sia altro da noi» riuscendo così a «discernere, nella complessità dei movimenti, le comuni amiche, le alleanze possibili, i conflitti necessari. Secondo una logica della strategia e non della dialettica». 
Benché talora invocato strumentalmente dal C. I., il rifiuto del mondo — ciò che spinge alla diserzione, alla secessione — non viene affatto considerato una premessa di sedizione, bensì di rinuncia. Disertare questo mondo, starne al di fuori, viene visto come il primo passo verso l’impotenza rancorosa dell’eremo. Ecco perché il C. I. non esorta affatto a rompere le righe, ma a prendervi partito all’interno, ovvero a riconfigurarle. Infatti la vera crisi viene definita «quella della presenza» e per uscirne bisogna accogliere il monito di un membro di Telecomix: «Quel che è certo è che il territorio in cui vivete è difeso da persone che fareste bene a incontrare. Perché loro cambiano il mondo e non vi stanno ad aspettare». Se è lo Stato a difendere il territorio, se è lo Stato a cambiare il mondo, se è lo Stato a non aspettare i sovversivi... beh, che questi ultimi si sbrighino a raggiungere lo Stato, ad andargli incontro. Potrebbero dargli buoni consigli.
Ma questa non è affatto diserzione; i disertori sono quelli che non obbediscono più agli ordini, abbandonano gli spazi in cui sono ristretti, buttano alle ortiche le uniformi, e si danno alla macchia. Ciò che viene proposto su Ai nostri amici invece è una infiltrazione a partire dal basso. Tattica quasi impossibile da mettere in pratica (a parte nei film cari al Comitato come Fight Club), ma facilissima da teorizzare sulla carta (come ben sapevano i primi situazionisti). Tattica che richiede predisposizione alla menzogna, inclinazione all’ipocrisia, complicità nell’abiezione, tolleranza dell’infamia, e che ha sempre preparato ed accompagnato i peggiori tradimenti. Ma quando si tratta di stringere le solidarietà politiche necessarie, c’è chi non si perde in dubbi operativi o in scrupoli morali.
A questo proposito Ai nostri amici contiene passaggi inebrianti. Secondo il Comitato, le insurrezioni «non partono più da ideologie politiche, ma da verità etiche. Ecco due parole il cui accostamento suona come un ossimoro per ogni spirito moderno. Stabilire ciò che è vero non è forse il ruolo della scienza?, la quale non ha nulla a che fare con le nostre norme morali e altri valori contingenti». Quando deve accostare le parole verità ed etica, il Comitato si scusa con imbarazzo come se avesse ruttato in pubblico. Ad occhi così iper-moderni, un simile accostamento non può che apparire un ossimoro. In fondo è comprensibile. L’etica muore a contatto con la politica, la politica si indebolisce a contatto con l’etica. Ecco perché chi è ossessionato dalla ricerca di ciò che è conveniente non può fare a meno di ricordare come i propri valori siano «contingenti» (ovvero accidentali, casuali, accessori, eventuali). Per ogni spirito antiquato le verità etiche brandite dal C. I. fanno ridere a crepapelle per quanto sono ballerine, sinonimo di opinioni convenienti. Una verità etica afferra una vita intera, 24 ore su 24, non il tempo di una situazione al solo fine di stringere un’alleanza strategica. 
Ma, non appena ci si libera della zavorra etica, a suo dire va da sé che «abbiamo il campo assolutamente libero per ogni decisione e ogni attacco [così i traduttori italiani hanno scelto di rendere la parola francese menée, il cui significato è invece manovra, intrigo, macchinazione], per poco che rispondano ad una intelligenza fine della situazione... Il nostro margine di azione è infinito». Infinito, chiaro? Per poco che la situazione lo richieda, è possibile fare qualsiasi cosa. Lo pensava anche Nečaev in passato, o Bin Laden nel presente. Si capisce quindi il motivo per cui il C. I. si rammarica che «A partire dalla disfatta degli anni Settanta, la questione morale della radicalità si è insensibilmente sostituita alla questione strategica della rivoluzione». Per essere strategico, il rivoluzionario deve essere fine e mobile come un elastico, deve essere in grado di passare con disinvoltura dal passamontagna alla giacca e cravatta, dagli scontri con la polizia in piazza alle strette di mano ai colleghi di palazzo. Deve essere capace oggi di sputare addosso ai potenti e baciare i sovversivi, e domani di baciare i potenti e sputare addosso ai sovversivi. Per arrivare a questo risultato bisogna farla finita con quegli individui e con quei gruppi così stupidi e così presuntuosi da farsi frenare da valori ritenuti propri ed autonomi, che seguono come il cane segue il suo padrone. Bisogna fare largo piuttosto al «partito storico», fantasma investito da una missione superiore — guidare alla rivoluzione — in grado di giustificare ogni bassezza compiuta dai suoi militanti umani in carne ed ossa nel corso dei loro slalom intelligenti e modesti fra le sensibili banderuole delle situazioni. 
Ma dove vogliono arrivare tutte queste considerazioni? A Tarnac, ad esempio. Al C. I. non è proprio andato giù che nel 2008-2009 i suoi fan (o membri, secondo i punti di vista) più entusiasti siano stati derisi, sbeffeggiati, talvolta perfino allontanati da situazioni di movimento, dopo aver mostrato bene la stoffa del loro conflitto, allorquando a questi ammiratori del galeotto ultratrentennale Blanqui pare sia bastata qualche settimana di carcere per correre sotto le gonne della denigrata Sinistra in cerca di protezione. Per cui, dopo anni di soppesata meditazione, ecco qui l’apologia tattica di tale comportamento: «Quando la repressione ci colpisce, cominciamo a non prenderci più per noi stessi, dissolviamo il soggetto-terrorista fantasmatico». Non è innocentismo, no. Non è panico, no. Non è assenza della minima dignità, no. È mossa strategica vincente. In effetti, in questa vita di quotidiana repressione di desideri, ci sembra proprio che tutta la lezione del C. I. si riduca a questo: non prendersi più per se stessi.
Allo stesso modo, è sempre in difesa dei suoi fan di Tarnac — dal marzo 2014 neo-consiglieri comunali, poi opinionisti mass-mediatici, e di recente perfino bacchettatori degli inquirenti a cui suggeriscono quali piste investigative seguire — che il Comitato sottolinea l’imperiosa necessità tattica di instaurare contatti con l’altra parte, con tutti coloro che un domani potrebbero tornare utili: «Dobbiamo cercare di incontrare in tutti i settori, su tutti i territori che abitiamo, coloro che dispongono dei saperi tecnici strategici... Questo processo di accumulazione del sapere, insieme alla creazione di complicità in tutti i campi, è la condizione per un ritorno serio e di massa della questione rivoluzionaria». Ecco perché di recente i droghieri più rivoluzionari di Francia sono andati a bussare alle porte di un paio di ambasciate a Londra per rendere omaggio ai due grandi perseguitati della Libera Informazione telematica. Uno è un hacker australiano che ha assistito la polizia del suo paese nella caccia ai «pedofili» (quei mostri che nel chiuso delle proprie abitazioni collezionano e guardano fotografie oscene di bambini e che, non essendo celebrità ottocentesche come Lewis Carroll o Pierre Louÿs, meritano solo la galera), l’altro è un tecnico informatico statunitense al servizio della CIA dal 2006, dopo che un incidente occorsogli durante l’addestramento ha infranto il suo sogno di andare a combattere in Iraq nei Corpi Speciali. Ecco qui due persone da conoscere assolutamente, perché difendono il territorio, cambiano il mondo e detengono il sapere necessario. Due preziosi alleati dei rivoluzionari, quindi, come oggettivamente dimostra la condizione di entrambi di ritrovarsi nel mirino del governo degli Stati Uniti. Dopo tutto, per dirla con il C. I., «Un gesto è rivoluzionario non per il suo contenuto ma per il concatenamento di effetti che genera. È la situazione che determina il senso di un atto e non l’intenzione degli autori». Il che significa che le intenzioni individuali non contano nulla, contano solo i risultati e spetta al futuro stabilire chi sia rivoluzionario e chi no. Un Marinus Van der Lubbe, tanto per fare un nome, lo si può anche dimenticare. Cosa ha fatto di rivoluzionario? Nulla, lo sfigato. A ben pensarci sì, adesso non ci sono più dubbi: anche per sbirri e fascisti c’è speranza. Una speranza di redenzione, di riparazione, di “tiqqun” insomma.
Nel caso in cui non fosse ancora sufficientemente chiaro, dopo il passaggio del Comitato Invisibile non resta in piedi altro che un’idea politica; e, per esempio, che si può essere al tempo stesso funzionari di Stato e rivoluzionari.
 
 
V
 
«Un sistema del terrore raggiunge il suo apice 
quando la vittima non è più consapevole 
del baratro che esiste tra sé e i suoi carnefici. 
Nell’atmosfera disumana del totalitarismo, 
e come conseguenza del crollo della personalità, 
il meccanismo arcaico dell’imitazione 
guadagna il proscenio senza inibizione alcuna... 
Per qualunque sistema di potere non esiste 
un successo più grande dell’accettazione, 
da parte delle sue vittime impotenti, dei valori 
e dei modi di comportamento da esso postulati»
Leo Löwenthal, Individuo e terrore
 
 
Chi ama atteggiarsi a spirito libero scevro da vincoli morali non teme di fare ricorso a continue contraddizioni, che considera solo una serie di facili soluzioni. Pur accantonando ogni preoccupazione etica, il problema pratico è che in questo modo non si fa altro che acconsentire e contribuire alla decomposizione della realtà in corso. La confusione non viene dipanata da alcuna chiarezza, è solo sostituita da una sorta di opacità — termine prediletto dal Comitato Invisibile — utile al dominio. Per capirlo basterebbe riflettere sull’abisso che divide gli effetti provocati dall’uso della contraddizione, da un lato nel linguaggio poetico che si abbandona alla sfrenatezza dell’immaginazione, dall’altro nel linguaggio discorsivo mirante a definire i contorni della realtà.
Costituendosi proprio in quanto rifiuto del linguaggio funzionale della logica, la poesia vorrebbe essere un’espressione libera da intenzioni utilitarie e progettuali. Come sosteneva qualcuno, è una perversione delle parole in grado di distruggere le cose che nomina. L’invenzione di immagini sorprendenti attraverso l’accostamento di parole tra di loro inassimilabili implica l’immediata esclusione delle conoscenze e delle regole acquisite connesse alle parole. In questa maniera la poesia sovverte l’ordine del discorso e spalanca l’ingresso all’ignoto. Come scrisse un giornalista moscovita di fronte alla poesia d’avanguardia zaum di Kručenych, che nel 1912 annunciava quel Mondoallafine che si sarebbe visto per le strade russe pochi anni dopo, «chi attenta alla lingua attenta agli assetti sociali, che si fondano proprio sulla comunicazione linguistica». È per via di questa convinzione che in passato — prima che tutto venisse travolto dal fango indistinto del commercio — non sono mancati sovversivi persuasi che la poesia potesse minare anche materialmente l’ordine delle cose. Fra un Nicolas Boileau (protetto di Re Luigi XIV) che decretava «Non posso nominare niente se non con il suo nome. Io chiamo gatto un gatto» ed un Jean-Paul Sartre (illuminato da Stalin) che ripeteva «La funzione di uno scrittore è di chiamare gatto un gatto», irrompeva un Benjamin Péret furioso di rivolta a lanciare la sua sfida — «io chiamo tabacco ciò che è orecchio» — e ad impugnare le armi nella rivoluzione spagnola. 
Ma che succede se la contraddizione, abbandonato il linguaggio dell’ignoto, invade quello della realtà, ovvero lo stesso linguaggio discorsivo, filosofico, razionale? Che la percezione della realtà non è sovvertita o minacciata, ma viene neutralizzata diventando indifferenziata. In questa maniera la realtà stessa si ritrova al riparo dalla critica, da ogni messa in discussione, poiché vengono a mancare tutti i possibili punti di riferimento. È esattamente a questo fine che mira la diffusione di ossimori nel linguaggio comune, quotidiano. Quando Rimbaud evocava il «battello ebbro» era per invitare alla sregolatezza dei sensi, laddove l’«atomo pulito» caro agli scienziati giustifica il nucleare, la «guerra umanitaria» sulla bocca dei generali legittima il massacro, la «banca etica» istituita da imprenditori ripulisce la speculazione. Nel linguaggio discorsivo gli accostamenti di termini fra loro incompatibili non evocano l’ignoto — perpetuano il noto. A differenza di quanto avviene in poesia, non incitano al superamento dell’esistente, non aprono orizzonti straordinari, fanno l’esatto contrario. Mettono al sicuro ciò che già esiste, togliendo terreno al pensiero critico. Che anche i nemici di quest’ordine sociale si siano lanciati lungo questa china, chi raggiungendo gli appuntamenti di una massa critica e chi sottoscrivendo il patto associativo di una Federazione Informale, non desta meraviglia. È un’ennesima dimostrazione della diffusa incapacità di evitare la maledizione simmetrica criticata — ma così, mica sul serio! — su Ai nostri amici.
Mentre rimira l’Angelo della Storia in compagnia di Walter Benjamin, l’uomo che ha spinto la propria assenza dal mondo al punto da non essere nemmeno capace di prepararsi un caffè, è un peccato che il C. I. non abbia anche annotato che «la critica è una questione di giusta distanza», motivo per cui essa si trova «a suo agio in un mondo dove ciò che conta sono prospettive e visioni d’insieme». Una eccessiva vicinanza può far scorgere dettagli altrimenti impercettibili, spesso utili ed importanti, ma non consente allo sguardo di cogliere l’orizzonte, togliendogli al tempo stesso senso e movimento. Il particolare diventa significativo quando arricchisce e perfeziona il quadro d’insieme, quando permette di coglierne in profondità gli aspetti, altrimenti si riduce a puro vezzo. Allo stesso modo, l’eccessiva lontananza porta a scorgere un panorama troppo sfumato ed incomprensibile. Se perde la sua giusta distanza, impossibile da calcolare con precisione ma sufficientemente chiara da avvicinarvisi per esplorare, la critica diventa rimprovero civico o condanna ideologica. 
Lo stesso dicasi per l’odio. Questo sentimento di ostilità perentoria è reso possibile dalla distanza dal suo oggetto. Il nemico viene considerato altro da sé, premessa indispensabile per muovergli guerra. Se fosse considerato simile, se si respirasse la stessa aria, se si parlasse la stessa lingua, se si avessero i medesimi desideri, se con il nemico si condividesse la stessa esistenza (magari seduti allo stesso tavolo in una cena popolare o in uno studio televisivo o in un consiglio comunale a discutere dei medesimi problemi) esso cesserebbe di essere percepito come tale per diventare all’occorrenza interlocutore e possibile alleato. L’avversione nei suoi confronti, ammesso che sussista, assumerebbe i tratti del mero fastidio. Il modo migliore per cessare di odiare un nemico è cominciare a frequentarlo. Giorno dopo giorno, diventerebbe al massimo un conoscente da cui dissentire, o un rivale a cui fare concorrenza. La vicinanza bandirebbe l’odio, ma non la sofferenza, il malessere o l’angoscia di vivere. Ed allora la sola guerra che potrebbe esplodere, dopo aver covato a lungo in un sordo mugugno, è un’altra: la guerra civile, nel senso peggiore del termine, rancore cieco ed indifferenziato.
Ora, è questo forse l’aspetto peggiore della affabulazione del C. I.. Con la sua apologia della situazione come unico criterio di comportamento, liquida la prospettiva bruciando le distanze. Ma in questo modo annienta ogni ostilità. Immerso nel vortice del bispensiero, inchiodato ad un attimo senza passato e senza futuro, il C. I. non sa più contro chi bisogna combattere, se con l’Eurasia, l’Estasia o l’Oceania. Chi sono loro? Chi siamo noi? Loro, sono sempre loro? Noi, siamo sempre noi? Ma poi, bisogna proprio combattersi? Basti pensare a ciò che scrive quando si tratta di identificare il potere: non è più nello Stato, è nel governo; ma il governo non è più nel governo, è nelle infrastrutture; ma le infrastrutture non bisogna colpirle se prima non si costruisce una forza tecnica competente! Cosa rimane? Nulla, è come il gioco delle tre carte. Se non esiste più una totalità ma solo frammenti distinti e separati fra loro, che si intrecciano incessantemente in una spirale vorticosa, è chiaro che davanti a noi ci sono solo flash, situazioni, riconfigurazioni degli elementi presenti. Il nemico di ieri può tranquillamente diventare l’amico politico di oggi, e viceversa. E questa è una consapevolezza che porta a sviluppare una particolare «sensibilità», quella di evitare punti di rottura senza ritorno.
Insomma, tutti i ritornelli sulla «situazione», sulla «condivisione» o sulle «alleanze necessarie», mirano a diffondere l’esigenza di farla finita con le differenze assolute. Ma la fine delle differenze porta anche alla fine delle ostilità. È per questo motivo che oggi, all’interno dello stesso movimento rivoluzionario, non si riesce più a odiare nemmeno i delatori la cui presenza viene tollerata non solo sulle riviste (come accade negli Stati Uniti con il noto teorico dell’abolizione del lavoro), ma anche alla testa di movimenti di lotta (come accade in Italia con la lotta No Tav). Perché no, in fondo cosa hanno fatto di male? Se la situazione lo richiedeva, potevano fare qualsiasi cosa. E quel sovversivo che in Inghilterra insegnava alla polizia come controllare la folla durante le manifestazioni, o quell’altro che in Grecia è diventato un alto funzionario governativo? Perché no, sono andati incontro a chi difende il territorio. Non sorprende che la figura del recuperatore, di cui molti sovversivi reclamavano la testa fino a non molti anni fa, sia scomparsa da ogni critica rivoluzionaria; non perché manchino coloro che vorrebbero operare in qualità di mediatori fra Istituzioni e Movimento, che anzi aumentano a vista d’occhio, ma perché un simile ruolo è ormai riconosciuto e apprezzato da (quasi) tutti.
«La “rimozione dell’opposto” costitutiva della metafisica occidentale», scriveva Cesarano. Erede di Tiqqun, pubblicazione letteralmente infestata dalla metafisica, il Comitato Invisibile si fa paladino di un’unica idea: quella secondo cui la verità è il gioco di tante piccole verità conciliabili tra loro, idea che si fonda sull’annullamento della possibilità che esista uno scarto irriducibile. Fine dell’alterità, fine della critica, fine dell’odio. Si tratta di un’aspirazione che, oltre ad essere indicativa, non è una novità.
 
[Ai clienti, 2015]