Brulotti

Monello

Una mail con solo un link ad un quotidiano parmense dei primi giorni di ottobre. Un clic e davanti ai nostri occhi è comparsa la notizia della scomparsa di «un nome noto in città», «un ex partigiano», «un anarchico». Si chiamava Giovanni Boni, ma tutti lo conoscevano come Monello. Abbiamo letto quelle righe con tristezza, ma senza troppa commozione. Sapevamo bene che quanto sostenuto nell'articolo era falso. La morte, avvenuta un mese fa, di un vecchio di 88 anni è un lutto che non ha colpito nemmeno i suoi familiari, i quali non vedevano l'ora di liberarsi di quella ingombrante presenza. Ma il Monello, lui, era da parecchio tempo che se n'era andato.
Alcuni anni fa siamo andati a cercarlo. Era da qualche anno che non lo vedevamo, pensavamo di invitarlo a rievocare pubblicamente la sua lotta partigiana, e poi era appena stata pubblicata all'estero la traduzione dell'autobiografia di un altro noto partigiano anarchico, accompagnata da un suo testo. Con noi, quel giorno, c'era anche il curatore di quella edizione. Quando arrivammo davanti alla sua casa, ci sembrò di intravederlo sulla porta. Scendemmo dall'auto e gli andammo incontro felici di riabbracciarlo. Non ci riconobbe neppure. Ci fermammo pochi minuti, giusto il tempo di capire cosa fosse successo. I suoi occhi – quegli occhietti incredibilmente vispi, mai fermi un attimo – erano come annegati. Dovevano essere le lacrime rimaste per la morte di Paola, la sua compagna, avvenuta qualche tempo prima. Il Monello non aveva retto a quel dolore.
Ce ne andammo con la morte nel cuore, trattenendo a fatica le lacrime. Il Monello se n'era andato, per sempre, e noi non avevamo avuto il tempo di salutarlo. Chi lo ha conosciuto non lo potrà mai dimenticare, se non altro per la sua capacità di raccontare gli episodi più drammatici del suo passato trasformandoli quasi in epopee comiche grazie a quella sua spiazzante abitudine di mescolare fantasia e realtà. Con il Monello si rideva, si rideva a crepapelle. Anche quando parlava delle torture subite dai nazisti, dei campi di concentramento, o degli anni passati in galera o in manicomio criminale. Per non parlare degli omicidi commessi, dal numero incalcolabile.
C'è chi da ragazzo si applica nello studio, chi corre dietro alle ragazze, chi pratica dello sport, chi ascolta musica. C'è chi è attivo sui cosiddetti social network e chi nella militanza. Il Monello trascorse la sua gioventù ammazzando gerarchi fascisti e ufficiali nazisti, «sparandoci in testa, in pancia o nel culo» come usava dire. Finita la guerra, non depose le armi ma continuò. «Non si perdonano quelle cose lì, non si dimenticano». Gliela fecero pagare, ovviamente. Saldato il conto assai salato, riprese il suo posto in mezzo ai compagni – non esattamente da pensionato o da reduce.
Scomparso da tempo il partigiano anarchico Monello – l'ultimo sopravvissuto della vecchia, vecchissima guardia, quando gli anarchici giravano armati ed abbattevano i loro nemici – un mese fa si sono celebrati i funerali anche del cittadino parmense Giovanni Boni. Su Facebook non se n'è accorto nessuno. Forse nemmeno nelle piazze reali, laddove la lotta pratica e non ideologica funziona meglio se fatta assieme alla canea politicante e desistente. Triste e magra consolazione sapere che il Monello è scomparso prima di vedere la dissoluzione del movimento anarchico in una pozza di merda. Se non è l'oblio ad incombere sulla sua memoria, è il rischio di venire ricordato solo per i numerosi singoli aneddoti.
Ma il Monello, il partigiano Monello, l'anarchico Monello, è stato molto di più.
 
[4/11/15]