Brecce

13 minuti

 
 
Il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler sale al potere in Germania. Non lo fa con un brutale colpo di Stato, inviando le sue squadre armate a fare piazza pulita del cosiddetto Stato di diritto: viene nominato cancelliere direttamente dal presidente Hindenburg. Solo tre mesi prima il leader del nazionalsocialismo veniva dato per spacciato, dopo che alle elezioni del 6 novembre il suo partito aveva perso due milioni di voti mentre quello comunista ne aveva guadagnati settecentomila. 
All’indomani del risultato elettorale un’euforica Rote Fahne annunciava: «dappertutto ci sono membri delle sezioni d’assalto che disertano i ranghi dell’hitlerismo e si mettono sotto la bandiera comunista»; quella bandiera che ancora sventolava gagliarda il 25 gennaio 1933, nella grande manifestazione antifascista tenutasi a Berlino, dove stavano sfilando 125.000 operai — «una giovinezza magnifica», «una partecipazione, un entusiasmo, una decisione che non avevamo mai visto», «cerchiamo di valutare il numero dei combattenti utili nella colonna. Il novantacinque per cento, per la loro età, per il loro atteggiamento ci impressionano come dei militanti adatti alla lotta armata» dirà un testimone che soltanto cinque giorni dopo vedrà sciogliersi «come un pezzo di zucchero nell’acqua il formidabile Partito comunista tedesco, il primo partito di Berlino, la più potente sezione dell’Internazionale comunista».
Hitler era al potere e il rossore della bandiera dei lavoratori assunse la tinta della vergogna, dell’onta, dell’umiliazione. Non ci furono proteste di massa, non ci furono scioperi generali, non ci furono scontri di piazza. Non ci fu guerra civile, non ci fu rivoluzione. Non accadde nulla di rilevante, se non uno stillicidio di sovversivi caduti sotto i colpi della peste bruna. Sconforto, disperazione, delusione, impotenza, resa, sconfitta, disfatta, ecco cosa travolse nel febbraio del 1933 un movimento rivoluzionario dominato dalla più stolta obbedienza e dalla cieca fiducia nel Partito. Dov’erano le migliaia e migliaia di «compagni» che facevano parte delle varie milizie di autodifesa che all’epoca tutti i partiti, perfino quello socialdemocratico, avevano? Dov’era quel novantacinque per cento di militanti adatti alla lotta armata? Spariti, dissolti in una fredda sera di fine gennaio. In quei giorni terribili non il programma comunista, non l’ideale anarchico, non la verità metafisica, ma sentimenti umani come dignità ed orgoglio vennero difesi solo da un consiliarista olandese di 23 anni, mezzo cieco e solo contro tutti, Marinus Van der Lubbe, il quale nella notte tra il 27 ed il 28 febbraio si introdusse all’interno del Reichstag e lo incendiò nell’ultimo estremo tentativo di richiamare il proletariato tedesco alla riscossa. Tentativo generoso quanto inutile, non solo punito con la tortura e la decapitazione dai suoi feroci nemici, ma ripagato con l’incomprensione, la calunnia e l’oblio dai suoi stessi... amici. 
No, nel paese della rivoluzione spartakista del 1919, nel paese culla del movimento operaio, dinanzi all’orrore nazista, le masse proletarie protestano e aspettano, votano e aspettano, marciano e aspettano, bestemmiano e aspettano, sopportano e aspettano, aspettano, aspettano... aspettano di ascoltare il parere dei loro leader, quei funzionari imbottiti di scienza dialettica che la sera del 30 gennaio — con l’imbianchino austriaco fresco di nomina — si dicevano convinti che Hitler si sarebbe consumato presto, che Hitler con la guerra avrebbe aperto la strada alla rivoluzione, che Hitler non avrebbe mai osato metterli fuorilegge, che Hitler non sarebbe mai stato tollerato dai governi internazionali, che Hitler era una brutta esperienza nera attraverso cui le masse dovevano passare per poter poi arrivare all’agognato governo rosso.
Le masse aspettano e sperano, i capi-partito discettano e tradiscono. L’individuo no. Non ha nulla da attendere o in cui sperare, ha solo una coscienza a cui rispondere ed una volontà da attuare. E talvolta ciò basta a fare la storia. O a mancarla per soli 13 minuti, per soli 780 secondi.
 
 
L’artigiano
 
Si chiamava Georg Elser ed era nato il 4 gennaio 1903 a Hermaringen, piccolo borgo della Germania sud-occidentale, ma la sua famiglia si era subito trasferita a Königsbronn. Primo di quattro figli, fin dall’infanzia aveva dovuto darsi da fare nella fattoria dei genitori. A sedici anni era entrato in un laboratorio come apprendista falegname, lavoro che amava e di cui divenne un vero maestro. Lì aveva capito a fondo la differenza qualitativa fra il lavoro dell’operaio, meccanico e ripetitivo, che si consumava alla catena di montaggio, ed il mestiere dell’artigiano che crea oggetti con le proprie mani. Non lavorava solo per denaro, ma anche per dare forma ad autentiche opere d’arte. Negli anni successivi, pieni di miseria e disoccupazione, Elser fu costretto a vagabondare per il paese, cambiando spesso lavoro. La crisi economica non risparmiava nessuno, nemmeno i mobilifici, ed egli si ritrovò sempre più in difficoltà. Lavorò anche in qualche fabbrica di orologi, appassionandosi ai loro meccanismi. Tornò a casa, dietro sollecitazione della famiglia, che stava per perdere la fattoria.
Quando Hitler aveva preso il potere, in quell’inizio del 1933, Elser si trovava proprio a Königsbronn dove proseguiva la sua vita fra mille difficoltà. Il lavoro diventava sempre più automatizzato, la bravura umana non contava più nulla, i salari crollavano. Nel corso degli anni Elser si era avvicinato ai gruppi di sinistra, in cui però non risulta abbia mai militato. Non era un attivista, non toccava i libri, leggeva pochissimo i giornali, non s’interessava di politica. Semplicemente gli piaceva stare in mezzo a persone come lui, proletari. Aveva sì la tessera del Partito Comunista, e per un breve periodo si era persino unito alla Lega dei Combattenti del Fronte Rosso, ma solo perché ciò gli dava la possibilità di suonare nella fanfara di quell’organizzazione. Amante della musica, sapeva suonare molti strumenti fra cui lo zither.
Georg Elser era abilissimo con le mani, ma possedeva una scarsa cultura e preparazione «politica». Fu una vera fortuna perché in questo modo la sua testa venne risparmiata dalle tiritere marxiste sul materialismo storico e la dialettica. Non occorre essere laureati in scienze sociali per accorgersi di quanto stavano facendo i nazisti, dello stupro quotidiano di ogni libertà, del terrore imposto con la messa al bando di partiti e sindacati, del deperimento delle condizioni di vita e — a partire dal 1938 — dello spettro della guerra che si faceva sempre più concreto. Non occorre avere occhi fini per vedere i privilegi in cui sguazzavano i funzionari nazisti. E trarne le conseguenze.
I suoi amici ricorderanno come Elser non ascoltasse mai i discorsi di Hitler alla radio, si rifiutasse di fare il saluto nazista ed in occasione di una manifestazione filo-hitleriana si fosse voltato, dando le spalle e mettendosi a fischiare. Ma Georg Elser non era come i suoi amici, non era come milioni di tedeschi che si limitavano a brontolare contro il regime nazista. Uomo semplice e pratico, all’inizio del 1938 aveva preso la sua decisione. Come ebbe a dichiarare in seguito, «ho considerato che la situazione in Germania avrebbe potuto cambiare solo con l’eliminazione della attuale dirigenza». L’individuo, desiderio e volontà, aveva preso la sua decisione: Hitler doveva morire. Il grande dittatore e tutta la sua cricca erano stati così condannati a morte, non da un Tribunale di Stato, non dal Giudizio della Storia e tanto meno da quello divino, ma da un minuscolo artigiano della campagna sveva. E tanti cari saluti alle masse e alle loro organizzazioni.
Solitario, celibe, secondo gli storici Elser non confidò a nessuno quali fossero i suoi progetti e non andò in cerca di aiuto. Ma sembra che nella sua impresa sia stato aiutato da qualcuno, dall’anarchico ed ex-spartakista anglo-tedesco John Olday e dalla socialista rivoluzionaria di origine ebraica Hilda Monte, legati entrambi al gruppo Schwarzrotgruppe (Gruppo Rosso e Nero). In cosa sia consistito questo aiuto, però, non è dato sapere. Ad ogni modo Georg Elser aveva un problema pratico da risolvere. Doveva riuscire ad avvicinare il Führer abbastanza per ucciderlo. Altri avevano già accarezzato quell’idea, ma si erano tutti scontrati con la medesima difficoltà. Conscio di essere temuto, assai più che amato, Hitler era ossessionato dal timore degli attentati ed era solito variare all’improvviso i suoi programmi. Quando annunciava la sua presenza in qualche incontro, nemmeno i suoi più stretti collaboratori sapevano se avrebbe mantenuto l’impegno preso. In questo modo, persino una eventuale fuga di notizie non avrebbe potuto favorire i suoi nemici, i quali non potevano sapere mai in anticipo dove raggiungerlo.
Questa incrollabile precauzione aveva però una crepa. C’era infatti un solo ed unico appuntamento pubblico annuale a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo, a cui non si sarebbe mai sottratto. Una ricorrenza speciale, un anniversario da ricordare, un discorso emozionante da tenere, la celebrazione del suo primo tentativo fallito di conquista del potere — il suo Putsch di Monaco dell’8 novembre 1923. Quel giorno il trentaquattrenne Hitler, alla testa dei suoi camerati d’armi, aveva fatto un clamoroso ingresso nella birreria Bürgerbräukeller dove si stava svolgendo un incontro a cui partecipavano le autorità bavaresi, sparando un colpo di pistola in aria. Quindi aveva annunciato che era in corso un colpo di Stato, invitando i presenti ad unirsi ai nazisti. Il tentativo, del tutto improvvisato, era finito il giorno seguente con uno scontro a fuoco fra manifestanti diretti al Ministero della Guerra e forze dell’ordine, al termine del quale rimasero a terra 14 nazisti. 
Ebbene, a partire dal 1933 ogni 8 novembre Adolf Hitler si recava a Monaco con tutta la sua corte per partecipare alla commemorazione del Bürgerbräu-Putsch. Attorniato da migliaia di vecchi combattenti nazisti con cui scambiare battute e aneddoti, il Führer avrebbe tenuto il solito discorso torrenziale per riscaldare il furore bellico dei suoi fedeli. Nel novembre del 1938 — 10 mesi prima che le truppe tedesche invadessero la Polonia — Elser prese il treno per Monaco e si unì con discrezione ai festeggiamenti nazisti. Quando Hitler salì sul palco quella sera, non poteva sapere che fuori della birreria c’era anche un suo nemico mortale, arrivato fin lì per un sopralluogo. La birreria, che aveva cambiato insegna da Bürgerbräukeller in Löwenbräu, era una enorme sala sotterranea capace di contenere più di 3.000 persone. Elser si mescolò alla folla a cui fu permesso di entrare in tarda serata, dopo la fine del discorso e la partenza di Hitler, prese nota della conformazione della sala ed osservò le misure di sicurezza prese per l’occasione. Ne constatò l’incredibile carenza. Il loro responsabile era Christian Weber, un ex-buttafuori di locali notturni, al quale da fervente nazista non era venuto in mente che qualcuno avrebbe potuto odiare Hitler a morte. L’attenzione di Elser si concentrò soprattutto sull’unico punto in cui Hitler sarebbe rimasto di sicuro a lungo: il palco. Notò una colonna di pietra appena dietro, che reggeva una grande balconata lungo un muro. Non era difficile capire che una potente bomba piazzata all’interno della colonna avrebbe fatto crollare l’intera balconata, seppellendo sia il Führer che molti dei suoi sostenitori. Impresa impossibile per molti, ma non per un abile artigiano.
Solo il giorno seguente, fra il 9 e il 10 novembre, i nazisti si scatenarono in tutta la nazione, oltre che in Austria e in Cecoslovacchia, in quella che fu chiamata la Notte dei Cristalli, il pogrom antiebraico che rafforzò ulteriormente la decisione di Georg Elser. Aveva un anno di tempo per portare a termine il suo progetto. Vi si dedicò con tenacia e meticolosità. Doveva recuperare l’esplosivo, costruire un congegno a tempo, occultare la bomba all’interno di quella colonna. Cercò e trovò un lavoro temporaneo prima in una fabbrica di armi, poi in una miniera. Qui colse ogni occasione per trafugare esplosivo ad alto potenziale e dinamite, raccogliendo anche un centinaio di detonatori. La sera, chiuso nel suo appartamento, lavorava sui disegni per realizzare una sofisticata bomba ad orologeria.
In aprile fece ritorno a Monaco per un nuovo sopralluogo più particolareggiato, in circostanze più tranquille. Notò che al piano superiore della sala c’erano dei ripostigli dove si sarebbe potuto nascondere, e poté studiare da vicino la colonna in pietra. Aveva un rivestimento di legno! Perfetto. Visitò poi la frontiera con la Svizzera in cerca di una via di fuga, trovando una zona non pattugliata. Georg Elser voleva sì uccidere Hitler, ma era anche intenzionato a vivere e godere della libertà strappata. Nessuno spirito di sacrificio in lui.
Il 5 agosto 1939 Georg Elser prese il treno e si trasferì a Monaco per la parte finale del suo progetto, quella più difficile e rischiosa: scavare uno spazio abbastanza grande nella colonna che si trovava dietro il palco e nascondere all’interno un ordigno micidiale senza essere scoperto. Diventò un frequentatore abituale del Löwenbräu, la birreria di Monaco più amata dai nazisti. Vi si recava tutti i giorni, finché i camerieri non prestarono più attenzione a quel loro affezionato e tranquillo cliente. Tutte le sere Elser rimaneva fino all’orario di chiusura, poi scivolava al piano superiore e si nascondeva in un ripostiglio. Quando l’edificio era vuoto, usciva per andare a lavorare alla colonna. Alla luce di una torcia smontava con cura il pannello di legno del rivestimento, predisponendolo per essere facilmente risistemato e con pazienza iniziò ad intaccare la colonna. In mezzo al silenzio il rumore di uno scalpello che batte sulla pietra aveva un tale rimbombo nella cavernosa cantina da costringerlo a lavorare con lentezza estenuante. Singoli colpi, intervallati da alcuni minuti, che faceva coincidere con rumori esterni quali il passaggio di una automobile. Ogni traccia di polvere o di pietra doveva poi sparire, ed il pannello di legno doveva essere riposizionato alla perfezione prima del sorgere del mattino. 
Sera dopo sera, il falegname si dedicò al suo capolavoro. 
Avrebbe passato 35 notti in bianco, chino in quell’estenuante sforzo. Una mattina venne pure sorpreso da un cameriere giunto in anticipo sul lavoro, il quale chiamò di corsa il direttore della birreria. Elser, che se ne stava andando dopo aver già ripulito tutto, si scusò dicendo di essere un cliente abituale e di aver trovato il locale aperto. Ordinò un caffè, lo sorseggiò con calma e se ne andò. Non era stato scoperto.
Per la sua bomba aveva preparato un timer modificando un orologio. Il timer poteva funzionare per 144 ore, prima di far scattare una levetta che avrebbe innescato l’ordigno. Per scrupolo, aveva aggiunto un secondo timer di sicurezza. La bomba era poi stata chiusa all’interno di una elegante scatola di legno, inserita con precisione nel foro praticato all’interno della colonna. Per non far udire il ticchettio dell’orologio la ricoprì di sughero, preparando anche un foglio di lamiera con cui rivestire il pannello di legno. Non voleva che qualche inserviente conficcasse per caso un chiodo dentro la sua opera d’arte.
L’anno precedente Elser aveva notato che il discorso di Hitler era iniziato attorno alle 20.30, cosa questa che gli era stato assicurato essere una abitudine. Il  Führer parlava per un’ora e mezza, poi rimaneva nel locale mescolandosi coi suoi vecchi camerati. Elser predispose il suo orologio affinché scattasse a metà circa del discorso, ovvero alle 21.20. Il primo tentativo di Elser di piazzare la bomba fallì, costringendolo a ridurre di poco le dimensioni della scatola. La sera del 5 novembre 1939 Georg Elser terminò il suo capolavoro. Inserì la scatola dentro la colonna, rimise il pannello di legno sigillandolo ed eliminò tutte le tracce. Poi se ne andò da Monaco, tornando due sere dopo. La vigilia dell’arrivo del grande dittatore, il piccolo individuo si avvicinò a quella colonna e, tremante, vi appoggiò sopra l’orecchio nella speranza di sentire qualcosa in lontananza. Si può solo immaginare il suo sorriso nell’udire ancora quel meraviglioso ticchettio.
 
 
8 Novembre 1939
 
Georg Elser non leggeva i giornali, men che meno in quei giorni febbrili. Altrimenti avrebbe saputo che Hitler aveva annullato il suo solito appuntamento annuale. Anzi no, aveva cambiato nuovamente idea. Ci sarebbe andato comunque, ma anticipando i tempi. La sua presenza a Berlino era inderogabile, per cui la sua puntata a Monaco sarebbe stata più rapida del solito. Il suo discorso sarebbe iniziato alle 20.00 e sarebbe durato un’oretta. Il maltempo gli aveva sconsigliato di viaggiare in aereo, facendogli preferire un più lento ma sicuro treno.
La sera dell’8 novembre 1939 Adolf Hitler smise di parlare alle 21.07. Cinque minuti dopo, declinando gli inviti a rimanere rivoltigli dai vecchi combattenti, uscì dalla sala assieme alla sua corte di alti gerarchi nazisti, fra cui spiccavano il capo della polizia Heinrich Himmler, il ministro della propaganda Joseph Goebbels ed il capo dei servizi segreti Reinhard Heydrich. Probabilmente stavano salendo sul treno quando avvenne l’esplosione e non la udirono nemmeno, apprendendo dell’accaduto solo quando il treno espresso per Berlino fece una breve sosta a Norimberga.
Alle 21.20, come previsto, l’orologio di Georg Elser smise di ticchettare. In un boato terribile la colonna dietro al palco si sbriciolò, facendo crollare tutta la balconata soprastante ed il soffitto, e devastando il locale. Una pioggia di detriti in legno, mattoni e acciaio, si abbatté sul palco polverizzandolo completamente. Ma quel palco era ormai vuoto e la sala quasi del tutto. Morirono otto persone ed altre 63 rimasero ferite, fra vecchi combattenti nazisti e addetti della birreria. «La fortuna del diavolo» che Hitler si vantava di possedere anche questa volta era stata dalla sua parte. Non lo fu invece per l’individuo che lo aveva sfidato.
La mattina di quell’8 novembre 1939 Georg Elser aveva preso il treno per Costanza, nei pressi del confine svizzero. Calata la notte, si era avviato a piedi verso la frontiera, in quella zona tranquilla che aveva scoperto nell’aprile precedente. Ma con l’avvio della guerra della Germania contro la Polonia, il 1 settembre, la situazione si era nel frattempo modificata. Venne notato e fermato da una pattuglia, che lo perquisì. Addosso aveva una tessera del Partito Comunista, i disegni di uno strano congegno simile a una bomba, un detonatore e la cartolina di una celebre birreria di Monaco, la Löwenbräu. 
È assai probabile che Elser avesse con sé quella roba decisamente sospetta al fine di persuadere le autorità elvetiche a concedergli asilo. Non aveva pensato che, se fosse caduto in mano al nemico, proprio quegli oggetti avrebbero decretato la sua fine.
 
 
Uno
 
Ricondotto a Monaco, Elser venne interrogato dagli uomini della Gestapo. Nonostante i pestaggi e le torture subite, non cambiò mai la sua versione dei fatti. Era lui, da solo, ad aver organizzato ed attuato l’attentato. Da Berlino Hitler si interessò di persona al caso, andando su tutte le furie quando gli vennero riferite le parole di Elser. «Chi è l’idiota che ha condotto l’indagine?», tuonò. Non era possibile che un misero individuo avesse sfidato il grande Reich; la complessità dell’azione dimostrava che dietro ci doveva essere un vasto complotto ordito da... i servizi segreti, ovvio, nello specifico quelli britannici. Per imporre questa sua conclusione, Hitler inviò a Monaco un uomo di sua fiducia con l’incarico di occuparsi degli interrogatori: Heinrich Himmler.
Ma nemmeno lui e tutte le torture che architettò riuscirono a dare soddisfazione al Führer. Elser ripeté fino alla fine di aver agito da solo, riproducendo addirittura una nuova versione della sua bomba per dimostrare ai suoi aguzzini che lui, da solo, aveva osato attaccare Hitler. Alla fine lo stesso Himmler dovette rinunciare e Georg Elser, anziché essere subito giustiziato, venne inviato al campo di concentramento di Sachsenhausen. Tenuto in isolamento, gli fu concesso perfino un banco da lavoro. Il motivo di questo trattamento apparentemente di favore è che Hitler contava di usare Elser in seguito, quando avrebbe istituito un processo per crimini di guerra contro l’Inghilterra. Il 9 aprile 1945, mentre le truppe americane, inglesi e russe si stavano avvicinando sempre più a Berlino, Himmler si ricordò dell’audace ma sfortunato falegname-orologiaio che nel frattempo era stato trasferito a Dachau. Diede ordine di prelevarlo dalla sua cella e di giustiziarlo. La notizia della sua morte venne data dalla stampa tedesca una settimana dopo, e fu attribuita ad un raid aereo alleato.
Nonostante la sedicente efficienza nazista sia stata sbandierata per mettere in dubbio la veridicità dell’iniziativa individuale di Elser, e nonostante le chiacchiere dei suoi compagni di sventura di Sachsenhausen secondo cui Elser avrebbe agito, come Van der Lubbe, su commissione degli stessi nazisti, oggi nessuno osa più negare la sincerità della sua impresa. La sua memoria, come quella dei numerosi autori dei falliti attentati ad Hitler, è stata a lungo cancellata dagli storici attenti solo alla ragione di Stato, nonché da certi rivoluzionari amanti delle azioni collettive e poco desiderosi di dare una «cattiva reputazione» al proprio movimento ideologico. 
Perché tutti loro, nessuno escluso, non possono tollerare la constatazione che la determinazione di un singolo individuo, diversa dalla lamentosa impotenza delle masse, avrebbe potuto cambiare la storia salvandola da quel che è stato definito Male Assoluto. Per soli sfortunati 13 minuti, la seconda guerra mondiale non venne scongiurata sul nascere, risparmiando milioni di vite umane e indicibili sofferenze. A sfiorare questa impresa non fu un governo illuminato, non fu una efficiente organizzazione. Fu un piccolo uomo, solo, o forse con qualche compagno. Ecco perché il nome di Georg Elser è stato rimosso per tanto tempo, ed ecco perché qui gli rendiamo omaggio. Nulla è impossibile per una volontà mossa dal desiderio. E, nonostante i rovesci dell’imprevisto, il ticchettio di quell’orologio lo si può udire ancora oggi.