Brulotti

Quando il sangue s'infuria e ribolle

 

Secondo una certa intellighenzia radicale, l'esplosione sociale avvenuta dieci anni fa in Francia non fu affatto scatenata dalla morte di due ragazzi inseguiti dalla polizia, bensì dalla copertura mediatica di questo fatto in sé quasi banale. Il clamore suscitato all'epoca dai giornalisti non fu casuale, seguì le direttive dell'allora ministro degli interni Sarkozy, il quale puntava alle imminenti elezioni presidenziali. A sostegno di tale tesi alcuni ricordano come oltralpe, in occasione dell'ultimo giorno dell'anno, un elevato numero di automobili venga puntualmente dato alle fiamme dalle varie bande presenti nelle banlieu, le quali si sfidano a vicenda per vedere chi ne brucerà di più. Le autorità sanno perciò bene che le immagini televisive relative ad incendi scoppiati nei quartieri costituiscono una sfida irresistibile per molti giovani che vivono altrove, una sollecitazione a fare altrettanto e di più.
Se per settimane i media hanno dato risalto a quella violenza fino a farla gonfiare a dismisura, se le autorità non hanno taciuto o vietato la diffusione di simili notizie, evidentemente è perché si voleva quella violenza. Ciò ha infatti permesso al ministro Sarkozy, attraverso la repressione della «racaille» scorrazzante per le strade, di diventare difensore e baluardo della Francia civile, premessa per farsi nominare suo presidente: operazione di pura propaganda elettorale. Da qui le solite sagge lamentele sulla cieca rabbia dei giovani di periferia, sulla loro mancanza di senso storico che li porta ad essere mero riflesso del «nichilismo del sistema dominante» e giammai sua radicale messa in discussione. L'assenza di chiare rivendicazioni sarà anche una garanzia contro i vari politicanti recuperatori, ci viene detto, ma bisogna ammettere che con il solo furore non si fa molta strada. Con la loro rabbia rancorosa contro un mondo che li esclude dal consumo delle merci, i giovani delle periferie si ritroverebbero quindi ad essere inconsapevole manovalanza in mano a loschi interessi, utili idioti al servizio di poteri statali o contro-poteri mafiosi.
Ora, al di là delle somiglianze di tali critiche con quelle che vedono dietro ogni azione diretta singolare la lunga mano dei servizi segreti, questo genere di considerazioni ci fanno venire in mente quella che per alcuni storici fu la prima «jacquerie» avvenuta in Europa nel 500. Nel Medio Evo con questo termine si intendeva una rivolta priva di ogni rivendicazione, una esplosione di rabbia e violenza brutale da parte degli sfruttati, per lo più contadini, diretta contro il loro nemico più immediato — ricchi e nobili. Ebbene la prima rivolta di questo genere avvenuta nel 500 non si verificò in Francia, come si potrebbe pensare, bensì in Friuli. Si tratta della «crudel zobia grassa» esplosa il 27 febbraio 1511, allorquando «alcune migliaia di contadini e popolani, presenti a Udine nell'ultimo giovedì di Carnevale, assaltarono in massa i palazzi della nobiltà feudataria e cittadina, mettendoli a ferro e a fuoco, mentre il luogotenente veneziano, fallita l'ennesima mediazione, era costretto ad abdicare, assistendo quasi inerte al dilagare delle violenze. In una scenografia spettrale e sinistra, tra i bagliori degli incendi, i lamenti delle vittime e gli schiamazzi beceri e blasfemi della folla, iniziarono i massacri e una lunga sequela di episodi feroci e raccapriccianti. A distanza di pochi giorni, in un'atmosfera lugubre e spettrale, le mascherate, le parate e i momenti di follia ludica del Carnevale sembrarono l'epilogo rituale e simbolico delle violenze e dei linciaggi, quasi che per davvero “'l fusse reversato il mondo". Dalla città la rivolta si propagò nelle campagne, investendo tutti i comprensori della provincia. La massa dei rivoltosi, ingrossata di volta in volta da contadini provenienti da villaggi e giurisdizioni feudali, assalì e distrusse decine di castelli e palazzi signorili, soprattutto in quei distretti dove in precedenza le proteste avevano acquistato un'impronta feudale, con accentuati elementi di rivendicazione sociale».
Se è vero che simili fatti furono fermentati da lunghi decenni segnati da «proteste popolari, sussulti di rivolta e una criminalità dilagante» che ebbero luogo in una regione «abitata da genti "feroci" e orgogliose» divise da «mortali inimicizie», se è vero che già all'epoca la rabbia contro i potenti si manifestava sotto forma di occupazioni di strade e piazze, assedi ai castelli, rifiuto di pagare tasse e affitti, piccole azioni di sabotaggio (come il taglio delle viti o l'abbattimento di nuove piantagioni), agguati e vendette, se è vero che i rivoltosi non avevano avuto bisogno di leggere i sacri testi rivoluzionari per ritrovarsi «organizzati in gruppi coordinati», è altresì vero che la rivolta del crudele giovedì grasso fu l'ennesimo atto della faida che contrapponeva da oltre un secolo i Zambarlani (seguaci della casata Savorgnan, la più potente del Friuli, nonché unica iscritta alla nobiltà veneziana) agli Strumieri (fedeli alla famiglia Della Torre ed alle altre casate cittadine, poco lieti del dominio della Serenissima sulle loro terre e solo per questo sostenitori dell'impero austriaco).
Quel 27 febbraio Antonio Savorgnan — abile nello strumentalizzare l'odio contadino verso i castellani — lanciò l'allarme per un imminente attacco imperiale contro la città di Udine, al fine di aizzare i molti popolani arrivati per i festeggiamenti di Carnevale contro i nobili suoi rivali. Eccitati dalle notizie che volevano truppe austriache alle porte della città, i contadini affiancarono i miliziani della famiglia filoveneziana in una vera e propria caccia al nobile. Molti dei principali rivali di Savorgnan (fra cui i Della Torre) vennero massacrati da una folla inferocita ed assetata di sangue, e i loro palazzi distrutti. Il piano del nobile friulano amico della Serenissima pareva quindi funzionare alla perfezione, se non fosse che...
Se non fosse che non tenne in considerazione ciò che anche gli ipercritici radicali delle sommosse odierne si ostinano ad ignorare: il sangue che s'infuria e ribolle. La rabbia contro i nobili dilagò in pochi giorni fra i contadini dell'intera regione, i quali «brandendo accette, andarono saccomando, rovinando e bruciando» castelli, rocche e palazzi patrizi. Senza guardare in faccia a nessuno. Oltre alle proprietà dei feudatari rivali infatti, anche i castelli dello stesso Savorgnan furono presi d'assalto. La situazione gli sfuggì di mano e ciò che doveva essere una rivolta pilotata, frutto di intrighi di potere, divenne «il più vasto movimento di insurrezione popolare e contadina nell'Italia rinascimentale», le cui fiamme dopo aver divampato in tutto il Friuli lambirono anche il Veneto, arrivando fino a Treviso. Solo il deciso intervento armato del preoccupato governo di Venezia, seguito e accompagnato da un violento terremoto che colpì Udine con effetti devastanti (carestie ed epidemie di peste) riuscirono ad avere la meglio sulle cattive intenzioni dei villani, determinati a «tagliar a pezzi prelati, zentilhomeni, castellani, et cittadini».
Certo, i contadini che quel giorno di Carnevale del 1511 si diedero alla «feroce follia» degli eccessi — fra travestimenti, banchetti, vendette, stupri e massacri — scannando con gioia i nobili friulani e dando i loro cadaveri in pasto a cani e maiali, non hanno molto in comune con i giovani delle periferie metropolitane. Ma chi può negare che la medioevale inversione di riti ancestrali, l'irruzione del negativo in una normale positività già programmata, costituisca ancor oggi una ipotesi a portata di tutte le collere?
Anziché gettare sospetti sui reali motivi che si celano dietro al verificarsi di una rivolta, sarebbe meglio tentare di capire come fare per realizzare quella che più ci sta a cuore fra tutte le aspirazioni che le stanno davanti. Per cogliere le possibilità del divenire, invece dell'interesse di ciò che è Stato.
 
 
[15/4/15]