Brecce

1953: sommossa a Berlino Est

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Le giornate di Berlino Est raccontate da alcuni anarchici che vi presero parte

 

Per comprendere gli avvenimenti di giugno, bisogna conoscere la vita normale nella zona russa. La penuria è una costante. Mentre a Berlino Ovest si vive senza carte e i negozi rigurgitano di provviste, Berlino Est — sebbene sia collegata alla parte più agricola della Germania — ha sempre carte speciali per bambini, disoccupati, lavoratori  leggeri, lavoratori di forza, intellettuali n. 1, intellettuali n. 2, ecc. Per i militanti dei quadri del Partito, ci sono assegnazioni speciali; per l’uomo comune, non solo le razioni sono scarse, ma il più delle volte non si può usufruirne dato che non c’è più nulla da comprare. Dove vanno a finire allora i viveri? Una buona parte se ne va in Russia; un’altra è riservata ai privilegiati del regime. Infine, a fianco dei negozi (privati o cooperativi) che vendono a prezzo di calmiere, il governo ha creato dei negozi appositi che fanno mercato nero ufficiale con grande profitto; sono le Handel Organizationen (organizzazioni di commercio) o H.O.; ma le teste male le hanno soprannominati “organizzazioni di fame”, o “affamatori dell’Est” (Hungernder Osten).

Data la disposizione geografica delle diverse zone della città ed il sistema di trasporti che la serve, è indispensabile che le persone possano passare attraverso il settore russo così come attraverso quelli occupati da francesi, inglesi o americani. Ma, mentre non vi è differenza fra i settori occidentali, nella parte sovietica si nota subito la miseria e la rovina generale, così come la scarsità di viveri, di vestiti e di altri articoli di prima necessità. Le sole cose che si trovano in abbondanza sono la propaganda e la disciplina. Dappertutto, nelle strade, gigantografie di Lenin, Stalin, Pieck (capo comunista tedesco) e consorti; ovunque, nei luoghi di lavoro, regolamenti draconiani, norme rigide, bassi salari e informatori. In breve, questa era la situazione a metà giugno, quando il vicepresidente del Consiglio Rau annunciò una nuova riduzione dei salari reali e un aumento delle norme: da quel momento in poi, gli operai avrebbero dovuto mangiare ancor meno, essere ancora più malvestiti, e faticare ancor di più al fine di «costruire il socialismo».

Questa dichiarazione del ministro Rau, il mattino del 16 giugno, fu il tema di un’animata discussione in diversi cantieri edili nella Frankfürterallee (diventata Stalinallee); i capisquadra ed i capicantiere non riuscivano a far riprendere il lavoro. Gli operai si riscaldavano, s’imprecava, si bestemmiava, si discuteva per la strada. In un cantiere si decise all’inizio di inviare al Ministero una delegazione di due membri, ma era probabile che questi sarebbero stati semplicemente arrestati. Allora per scortarli si costituì un gruppo determinato di sessanta/ottanta persone. La notizia si sparse nei cantieri vicini e alla fine i lavoratori dell’edilizia partirono in blocco per andare a presentare le loro rivendicazioni. Un migliaio di uomini erano in marcia, senza capi, senza ordine militare, senza ritratti né cartelli. All’inizio i passanti si fermavano stupefatti davanti a questa singolare manifestazione. Quando le grida di protesta contro l’aumento delle norme crebbero, l’interesse divenne entusiasmo: si fece corteo al corteo. La colonna raggiunse l’Alexanderplatz (quartiere popolare al cui centro si trova la Prefettura di Polizia) ingrossandosi a vista d’occhio, allorché si verificò un primo incidente. Due compagni di cantiere sono stati bloccati dai vopos e trascinati alla «Presidenza della Polizia popolare». Ma la folla, ammassandosi sotto le finestre, minacciò di dare l’assalto; le pietre volarono attraverso i vetri e la temperatura era talmente alta che i vopos giudicarono più prudente rilasciare i prigionieri.

A un dato momento un grido si leva: «Andiamo al governo!» e la colonna operaia si rimette in marcia. Arriva verso mezzogiorno sotto i famosi tigli berlinesi, Unter den Linden; cammin facendo, si è ingrossata e conta ormai decine di migliaia di persone. Più si ingrossa, e più le rivendicazioni si estendono. Non si protesta più solo contro le norme eccessive, ma contro le barriere che separano i settori e le zone, ed infine contro il governo ed il regime. Gli studenti dell’Università Humboldt si mescolano alla folla, che conta ormai centomila persone e si sente padrona della strada. Davanti all’ambasciata russa scandisce: «Ivan, hau ab» (Ivan, vai a casa!) e «Wir wollen keine Slaven sein» (Non vogliamo essere schiavi), poi ancora e sempre «Wir fordern freie Wahlen» (Vogliamo libere elezioni). La bandiera sovietica sulla Porta di Brandeburgo — scalata da giovani audaci — viene tolta, strappata, bruciata. Le gigantografie dei capi e le loro parole d’ordine monumentali eccitano la collera popolare che si accanisce a farle a pezzi. Infine, eccoci nella Leipzigerstrasse, di fonte alla sede del governo (il vecchio ministero dell’Aria sotto Goering). Fino ad ora non abbiamo quasi incontrato resistenza, sono le due di pomeriggio. Benché il governo sia in seduta, nessuno dei nostri grandi capi è disposto a regalarci un discorso; i bonzi del Partito si nascondono nei loro buchi, in preda all’indecisione e alla paura; un tavolo all’aperto attende invano gli oratori. Si grida di nuovo «Dimissioni! Abbasso il governo!», poi si canta all'indirizzo di Ulbricht e Pieck: «Der Spitzbart und der mit der Brille – Sind nicht da durch unser Wille» (La barbetta e l’uomo con gli occhialini – non eravamo noi a volerli). Alla fine si mostra Rau, vicepresidente del consiglio. Sale sul tavolo e vuole arringare la folla. Ma gli si urla di scendere e gli si fa perdere l’equilibrio sollevando la tribuna improvvisata su cui gesticola. Gli succede il ministro Selbmann, che salta sul tavolo. Non gli riesce del tutto. Un muratore salta a sua volta e lo butta a terra, mentre stava promettendo leggi meno severe. E la gioia non ha più limiti quando il muratore urla: «Vogliamo essere liberi e non siamo solo contro l’aumento delle leggi. Non veniamo qui solo per la Stalinallee, ma per tutta Berlino!».

Nel corso del pomeriggio la manifestazione aumenta ancora, dopo l’uscita dal lavoro. Due vetture munite di altoparlanti scortate da una macchina della polizia annunciano disperatamente: «Gli aumenti di norme ingiustificati verranno fatti rientrare». La volante viene fatta a pezzi, un'auto viene rovesciata, l’altra passa al servizio dei manifestanti. Alcuni dirigenti del S.E.D., inviati per perorare la causa della pacificazione, sono sbeffeggiati e percossi. Viene gridato a gran voce: «Sciopero generale!». La sera, gli uomini non stanno fermi un attimo. Un tentativo di contromanifestazione da parte della “Gioventù comunista” fallisce, sulla Friedrichstrasse; la città esulta. La polizia non ha mai contrattaccato.

Il mattino del 17 giugno l’atmosfera è tesa. Malgrado una pioggia incessante, si formano di nuovo colonne di manifestanti in diversi quartieri. La polizia sembra essersi ripresa; i posti di guardia sono raddoppiati davanti agli edifici governativi della Leipzigerstrasse. I russi pattugliano coi camion. I vopos con le uniformi russe restano ammassati in grossi battaglioni. Sulla Leipzigerstrasse i carri armati sovietici fanno la spola. Piove a dirotto. Decine di migliaia di persone invadono i marciapiedi. La questione è diventata: schiavitù o libertà. Vengono divelti i cartelli che delimitano il settore russo. Il popolo vuole cancellare ogni separazione fra Berlino Est e Ovest. Una marea umana affluisce e rifluisce attorno alla Presidenza della Polizia popolare, ma viene respinta da cariche molto dure. Sulla Potsdammerplatz, alcuni pali di demarcazione e del materiale propagandistico alimentano un falò, poi vengono incendiati i locali di un giornale e una sede della Handel-Organization. Più lontano, una caserma di polizia è in fiamme; i poliziotti hanno ripiegato nella Kolumbus-Haus e la bandiera bianca sventola dalle finestre. Una parte della Vopo si è rifugiata a Berlino Ovest. Ma la resistenza governativa va crescendo man mano che arrivano i carri armati e i blindati russi. In diversi quartieri la folla furiosa dà l’assalto agli uffici del S.E.D. (Partito socialista unificato a direzione comunista). Vengono bruciati i documenti e picchiati i funzionari rimasti sul posto. La Kolombus-Haus ed il café Vaterland sono in fiamme. Lo sciopero è totale nei trasporti e in tutte le imprese del settore russo. Rinforzi di decine di migliaiai di abitanti marciano coraggiosamente dalla periferia ovest verso il centro cittadino.

Da Heringsdorf sono partiti fin dal mattino dagli otto ai diecimila uomini e donne. Le porte chiuse delle fabbriche e le frontiere dei settori non hanno potuto bloccare la loro assenza dal lavoro e la loro marcia. Hanno attraversato Berlino Ovest dopo aver percorso a piedi più di venticinque chilometri. La polizia coi suoi manganelli non può più fronteggiare la tempesta umana. Sovrastata, apre il fuoco a più riprese. I carri armati russi si lanciano attraverso la folla costringendola a sbandare precipitosamente. Tuttavia con pietre, pezzi di ferraglia, travi di legno, un certo numero di carri armati viene bloccato. Al riparo degli altri, avanza adesso la polizia popolare, ben sapendo che i colossi d’acciaio la proteggeranno dai pugni nudi dei manifestanti. Sulla Potsdammerplatz vengono esplosi colpi d’arma da fuoco, seguiti da salve di mitragliatrici. Ben presto la piazza rimane vuota. All’inizio del pomeriggio numerosi feriti vengono trasportati dai loro compagni verso Berlino Ovest per metterli al sicuro negli ospedali. Vengono annunciati i primi morti, che sono portati via. Ora la polizia non ha più alcuna esitazione, si eccita a colpire i manifestanti, a sparare, a cercare la folla con l’appoggio dei carri armati russi. Ed è un miracolo che non ci siano altre vittime.

All’una viene proclamato lo stato d’assedio dal comando militare russo. Vengono proibiti gli assembramenti di più di tre persone. Ma le strade sono ancora piene di decine di migliaia di persone. I militanti del S.E.D. sparano dalle loro auto con le rivoltelle. Ormai in tutte le parti della città l’iniziativa è passata alle forze governative che prendono d’assalto e paralizzano i manifestanti, con l'intervento ulteriore di carri armati veloci e di una intera divisione di fanteria russa. Ci sono morti e feriti dovunque. I settanta feriti più gravi vengono trasportati a Berlino Ovest, dove sei di loro muoiono. Altri feriti e altri morti restano sul campo e non si può né soccorrerli né contarli. I russi mettono in movimento consigli di guerra che colpiscono i rivoltosi con pene draconiane immediate. Al calar delle tenebre l’insurrezione è stata schiacciata dai cingolati dei carri armati e soffocata nel sangue. La fanteria russa si accampa nelle strade, qua e là si sentono di continuo colpi d’arma da fuoco o raffiche. La rivolta degli sfruttati è stata repressa ancora una volta.

Il 18 giugno vengono ristabiliti i confini dal lato di Berlino Ovest, pattugliati da carri armati russi, dalla fanteria e dalla Vopo. Ma nessuna azienda è in funzione. Tutti i negozi sono chiusi. La metropolitana è ferma, il traffico completamente interrotto. 

Gli abitanti vagano per la città. Malgrado la legge marziale, le strade ben presto si riempiono. Non si vuole darsi per vinti. Tuttavia la polizia cerca gli «istigatori della ribellione». I bonzi del S.E.D., infine usciti dai loro buchi, fanno opera di infiltrati e delatori. Viene annunciata l’esecuzione di un abitante di Berlino Ovest, l’operaio Willi Göttling, condannato da una corte marziale, presentato come uno dei «capi» dell’insurrezione. Ma i «capi» non erano dalla parte degli insorti. La sommossa era nata spontaneamente dai lavoratori e dalla popolazione. L'insurrezione non è stata comandata né ordinata da nessuno. È un'assurdità presentarla come opera di agenti occidentali. È stata solo la risposta alla provocazione inaudita del governo Ulbricht-Grotewhol, che agiva sotto gli ordini di Mosca. È da quella parte — ad Est — che bisogna cercare i provocatori.

 

[Contre-Courant n. 11, autunno 1953]