Brulotti

Licenza di uccidere

Lo scorso 26 ottobre la polizia francese uccide Rémi Fraisse nel corso di una manifestazione contro la diga in costruzione di Sivens. Pochi giorni dopo molte manifestazioni di protesta avvenute oltralpe contro questo omicidio di Stato sfociano in scontri con le forze dell'ordine. Negli stessi giorni, qui in Italia, la Corte d'Appello di Roma assolve i poliziotti e gli altri responsabili accusati di aver causato la morte di Stefano Cucchi. 

Quella che qui pubblichiamo è la lettera aperta inviata alla madre di Rémi Fraisse da Farid El Yamni, fratello di Wissam, assassinato dalla polizia a Clermont Ferrand l'1 gennaio 2012.
 
Nel momento in cui a Parigi vengono condannate le manifestazioni violente e si lodano i presidi pacifici, le scrivo questa lettera.
Ho perso mio fratello in circostanze assai simili a quelle in cui lei ha perso suo figlio. Mio fratello, che si prendeva tanto cura di mia madre, ci ha lasciati e non tornerà più. La perdita di mio fratello ha causato un dolore immenso che provo ogni volta che lo Stato assassina ancora. «Là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva», diceva qualcuno. Ogni qualvolta lo Stato assassina c'è l'opportunità di fermarlo, di costringerlo a cambiare e restituire la dignità perduta a tutti gli altri.
Con la morte di Rémi s'intreccia assai più della storia di una vita, s'incrocia la vita di tutti noi, individualmente e collettivamente. La criminalizzazione operata è terribile, così come è accaduto a noi. Più tardi ho capito che era intenzionale. Io desideravo solo una cosa, che Giustizia fosse fatta e restituisse a mio fratello la dignità che meritava, in tranquillità, e che questa storia servisse a tutti, a noi governati per meglio amarci e alla polizia per riconciliarla con la nazione. Pensavo che la polizia non potesse accettare nei suoi ranghi degli assassini, all'epoca non la conoscevo abbastanza. Mi sbagliavo. I quartieri sono bruciati, hanno invitato alla calma: l'incendio di ogni veicolo e di ogni cassonetto della spazzatura veniva vissuto come un insulto, come una spina in mezzo al cuore, una spina che veniva conficcata.
Poi il tempo è passato, ci hanno promesso verità, ma non abbiamo avuto che menzogne e false promesse, come tanti altri prima di noi. Eravamo stati avvisati, ma non ci avevamo creduto. Lo stesso François Hollande aveva abbracciato mia madre e le aveva promesso che ci avrebbe aiutato a far luce sulla morte di suo figlio. Senza giustizia e verità, il tempo che scorreva veniva vissuto come una condanna. Eravamo sempre in prigione, a soffocare ed a invocare il soccorso della Giustizia.
E poi abbiamo capito che il nostro caso non era isolato, che tante altre famiglie vivevano e vivono la stessa cosa. Tante sono le umiliazioni e le mutilazioni commesse consapevolmente dalla polizia e coperte dalla giustizia, tante!
Abbiamo anche scoperto il modo di pensare dei poliziotti, fa venire i brividi sulla schiena. Ecco un esempio: lo scorso mercoledì, dopo la manifestazione di Parigi, uno dei poliziotti mi ha detto «1-0» davanti ai suoi colleghi del commissariato, che sogghignavano nel veder indossare la maglietta «Attenzione Nostra Polizia Assassina». Nessuno lo ha rimproverato, nessuno... Tanti francesi vivono quotidianamente esempi di questo genere, non ne possono più di questa polizia e non ne vedono il fine.
Comprendo gli appelli alla calma, anche noi li abbiamo fatti. Ma lei capisca che molte persone non credono più in questo sistema che dà un'impunità di fatto alla polizia. Comprenda che si può concepire la non-violenza solo a condizione di supporre che la controparte sia capace di mettersi in discussione: e umanamente ne sono incapaci, perché pensano che mettere in discussione la polizia significherebbe mettere in discussione lo Stato. Da 40 anni, la polizia uccide impunemente, a ripetizione. Da 40 anni, assistiamo alla stessa procedura che copre gli omicidi di Stato, malgrado i video, i testimoni, le prove. Da 40 anni, ci sono i presidi, le manifestazioni, i libri, le prese di posizione di uomini politici, le interrogazioni rivolte al ministro degli interni. Da 40 anni, tutto questo non funziona.
Ecco cosa accade: comunicato dell'agenzia stampa, menzogna del procuratore, inchiesta di pessima qualità e interrotta per sfociare in una condanna ridicola dopo parecchi anni, ovvero ad una assenza di condanna. La cosa peggiore è che quelli che seppelliranno la vicenda riceveranno promozioni e quelli che hanno ucciso i nostri fratelli, i nostri figli o amici, saranno trattati da eroi dai loro colleghi. Questa è la realtà che anche lei vivrà.
Manuel Valls afferma che le violenze sono un insulto alla memoria di Rémi, ma deve sapere che Manuel Valls, per la sua inazione a combattere l'impunità poliziesca, è il primo assassino di suo figlio. È un criminale recidivo. È venuto a Clermont-Ferrand una settimana prima della consegna del rapporto di contro-autopsia bidone di cui conosceva gli esiti, e ha parlato della vicenda solo per meglio condannare le violenze di chi si è rivoltato per la morte di mio fratello.
Signora, le persone si battono per Rémi, per la loro dignità e per i loro ideali. Lottano per lei, per tutti noi, affinché la fratellanza sia effettiva. Coloro che lottano conoscono a sufficienza la cattiveria dei nostri governanti per capire che cercano di farci credere che siamo in uno Stato di diritto, mentre invece siamo in uno Stato di dovere. Lo Stato non rispetta la legge che chiede di rispettare. Si prende gioco del nostro corpo, della nostra fiducia, dei nostri averi e della nostra dignità. Ci domanda di restare in ginocchio, come un imperativo categorico.
Ho scritto questa lettera a lei e a tutti quelli che mi leggeranno per far sapere che io capisco oggi più che mai fino a che punto la non violenza nei casi dei crimini di Stato ha i suoi limiti. La non violenza, con la sua impotenza, è talvolta più esecrabile, più omicida della violenza stessa. Le persone che ci governano sono perfide, arriviste, sadiche e recidive. Devono andarsene con ogni mezzo necessario.