Brulotti

Bruno Filippi o Guerra alla Società!

«Poiché ognuno ha saputo in un certo momento della sua vita condurre nobilmente la lotta contro l’uomo. Parlo di quel momento della vita che venne magnificamente chiamato “età ingrata”... Età ingrata! La sola età che desideriamo avere. È sempre il nostro bambino che singhiozza e morde le lenzuola perché ha paura di dimenticare ciò che vuole da qualche giorno e di diventare un giorno simile a suo padre. Età ingrata! Nome che sarà quello dell’era aperta da Rimbaud. Il nostro secolo è iniziato con il gesto del bambino che, in una piazza di Charleville, ha brandito una sedia contro sua madre dicendo “Merda” perché lei non voleva comprargli un dolcetto».
 
Arthur Rimbaud ou Guerre à l’Homme!
 
 
 
Quando esce dal carcere di Forlì, dopo aver scontato senza sconti una condanna a 20 mesi, Bruno Filippi deve ancora compiere 17 anni. È un ragazzo, appena un ragazzo — ma sa già il significato che vuol dare alla sua vita. Sale su un treno e arriva a Milano,  dove lo attendono per riabbracciarlo i genitori ed i fratelli. È il 14 gennaio 1917. Non lo sa, non può saperlo, ma in quel momento gli restano solo 2 anni e 8 mesi di vita. Li trascorrerà combattendo.
Non è un ragazzo difficile, Bruno Filippi, uno di quelli che oggi sarebbe considerato «a rischio». Non è orfano, non ha subito violenze, non è semianalfabeta. Tutt’altro. Figlio di un tipografo, si può proprio dire che sia cresciuto in mezzo ai libri, che divora uno dopo l’altro, in una famiglia numerosa che lo ama. Durante il suo processo del 1915, al Presidente della Corte — sbalordito di fronte a quel quindicenne determinato, intelligente e desideroso di prender parte ad un’insurrezione, tanto da procurarsi un’arma e farne uso contro i sostenitori della guerra — che gli chiede chi siano i suoi autori preferiti, Bruno Filippi risponde facendo i nomi di Herbert Spencer e Max Stirner. 
Eccolo là, alla sbarra di un tribunale, l’individuo contro la Società. Vincenzo Mantovani, che per redigere il suo libro sull’attentato al Diana del 1921 ha rintracciato alcuni sopravvissuti del movimento anarchico dell’epoca che hanno avuto modo di conoscerlo, lo descrive così: «Ironico, taciturno con gli estranei ma espansivo con gli amici, e buon parlatore in pubblico quando era il caso, studiava e leggeva moltissimo, partecipava alla vita di movimento, collaborava alle sue pubblicazioni. La sua camera era una biblioteca di opuscoli sovversivi».
Ah, questi anarchici con la loro mania per i libri! Con quella sete di conoscenza da cui fanno derivare la coscienza, in quello che ai loro occhi è un vero e proprio circolo virtuoso. Più si conosce e più si è consapevoli, più si è consapevoli e più si vuole conoscere. Conoscenza e coscienza vanno quindi di pari passo, si alimentano a vicenda, reciprocamente. Ma poi? Non può finire tutto lì. A cosa serve tutto quel sapere, tutta quella consapevolezza, se non per agire? A tal proposito, il giovane Bruno Filippi cresce in un’epoca che lo pone di fronte ad interrogativi brucianti.
Chissà se si trovava a Milano nel giugno del 1914, e se aveva avuto modo di assistere alla furia di gran parte della popolazione contro gli insorti scioperanti della Settimana Rossa. In quei giorni il prefetto di Milano riferiva al Ministro dell’Interno di una «folla esasperata che specialmente in piazza Duomo e nelle strade adiacenti eccitava continuamente ad alte grida la forza pubblica ad arrestare e sparare applaudendo anche dai balconi e finestre ad ogni passaggio di arrestati». In base alle testimonianze storiche, nel capoluogo lombardo la preoccupazione maggiore da parte delle autorità non era stata affatto la repressione del moto insurrezionale bensì «quella di impedire che l’indignazione di una parte della cittadinanza verso gli scioperanti assumesse forme violente».
Di sicuro ha assistito allo scoppio della prima guerra mondiale, al montare irresistibile di quell’interventismo contro cui si batteva. Perché, perché prendere le armi e andare in guerra, a massacrare altri esseri umani rei solo d’essere nati altrove, di parlare un’altra lingua, d’indossare colori diversi? Perché non rivolgere quelle stesse armi contro i veri responsabili della miseria in cui si trascina l’esistenza umana; contro i politici e i ricchi, ad esempio?
O pure, una volta scatenata la guerra, una volta sospesa la normalità quotidiana con tutte le sue meschinità, perché pretendere il ritorno alla pace nelle strade, alla quiete nelle piazze, all’ordine nei mercati? Giunti a quel punto, dopo che il conflitto è già iniziato, dopo che lo Stato ha già messo un’arma in mano all’uomo insegnandogli ad uccidere, dopo che un enorme sacrificio di vite umane è già avvenuto, non sarebbe meglio arrivare fino in fondo e far affogare la stessa borghesia nel sangue? Se l’abisso è già stato spalancato, perché devono essere sempre e soltanto i poveri ad esserne inghiottiti?
Si possono leggere molti libri e da questi imparare a conoscere il popolo, l’idea del popolo, amarla perfino questa idea, ma... Ma la coscienza, quella, si forma e si sviluppa quotidianamente, magari negli angoli delle piazze. Non salta fuori, bella e completa, fra le righe dell’epilogo di un libro. Ciò che le teorie insegnano, deve trovare poi riscontro nei fatti. Ed è qui, giorno dopo giorno, che la sete di giustizia sociale di Bruno Filippi non trova nessuna sorgente comune in grado di soddisfarla. Egli ha letto che gli esseri umani sono tutti fratelli, si è avvicinato prima al cattolicesimo e in seguito al socialismo. Ma poi... Quante menzogne, quante ipocrisie! Non c’è nessun paradiso, né in cielo né in terra, ad attendere il popolo che prega, lavora ed obbedisce. Lungo le strade della vita c’è solo fango.
Bruno Filippi lo sa. Anche qualora non abbia udito le urla di odio della folla meneghina contro i rivoltosi del 1914, ha di certo visto la massa italiota trascinarsi nelle trincee della grande guerra. Così, senza un perché. Senza nemmeno tentare di capovolgere quella tragedia, di darle un altro significato, come si è illuso di poter fare lui quando ha accettato di andare al fronte. Pregiudicato antimilitarista, trascorrerà un anno intero a combattere sotto il disprezzato straccio tricolore, nella speranza che la guerra imperialista si trasformi in guerra sociale. Speranza vana. La massa, così come uccide quando le viene ordinato e chi le viene indicato, allo stesso modo smette di ammazzare per tornare a spaccarsi la schiena e a farsi sfruttare appena riceve un nuovo ordine. («Ho ancora il fucile d’ieri, come ieri il cuore mi batte a grandi colpi. Perché allora non rinnovo l’assalto travolgente verso il più vero, il più malvagio nemico? Perché sono diventato vigliacco?»). È questo il popolo? Sì, è questo il popolo.
Al rientro dal fronte, nel marzo del 1919, nessun fantasma collettivo incanta più gli occhi di Bruno Filippi. Inutile girarci attorno, inutile intonare inni al proletariato, questo popolo in tuta blu che suda e che soffre nelle grandi fabbriche e sul posto di lavoro. Quel proletariato che, proprio nel 1919, sull’onda della rivoluzione russa, si sta pur sollevando dappertutto. Si solleva sì, scontrandosi con le forze dell’ordine, e poi... aspetta. Aspetta l’ordine di fare la rivoluzione, ordine che non arriverà mai dai Comitati Centrali delle varie organizzazioni che lo tengono al guinzaglio. 
Uno dei compagni di Bruno Filippi, Giuseppe Mariani, ricorderà: «A farci persistere nella nostra “propaganda del fatto” furono, sia la vista continua della violenza premiata quando esercitata contro i lavoratori; sia il constatare che i lavoratori manifestavano contro i loro sfruttatori e persecutori solo con grida e invettive, ma mai con coraggioso atto di rivolta. Complesso di odio e di viltà, che doveva agire sui nostri animi sinceramente rivoluzionari, determinandoci all’azione».
Anarchico individualista, Bruno Filippi si getta nella tempesta sociale scatenatasi in quel 1919. Partecipa a manifestazioni, a riunioni, a comizi, si scontra sia con gli agenti di polizia sia coi pompieri socialisti. Finisce ancora in prigione, assieme ad un sindacalista, per aver aiutato i parrucchieri in sciopero. Il suo, come ebbe a ricordare chi l’aveva conosciuto di persona, era l’«individualismo di un proletario, e non gli impediva di provare un senso di appartenenza al movimento operaio». Cosa che viene tuttora dimenticata e mistificata da chi preferisce descriverlo come un nemico delle masse più che della borghesia, simpatizzante di «qualunque movimento aristocratico capace di esaltare l’uomo superiore». 
È la solita, eterna menzogna degli amici del popolo rivolta a chi non si inginocchia ai piedi del loro stesso feticcio. Davanti ad anarchici come Bruno Filippi, o Renzo Novatore, da un lato costoro non possono negarne l’anarchismo; dall’altro sbuffano, sospirano, alludono... e stendono un velo di ambiguità su questi anarchici che sapevano trovare in se stessi la forza della propria rivolta. Anarchici, il cui cuore bruciava al legno di una certezza che non era affatto quella della loro superiorità, bensì della loro differenza. È questa differenza a spingere verso un non-conformismo assoluto che si oppone e si opporrà sempre a tutte le istituzioni, vigenti o prementi. Qui siamo davanti all’etica della singolarità irriducibile. Passando per vie sensibili, la vita si definisce attraverso ciò che non si condivide. Provare in comune non significa nulla, il gruppo umano — quale che sia, per il semplice fatto di essere gruppo — può muoversi solo nella peggiore delle aberrazioni: la rinuncia di se stessi.
C’è perfino chi ha visto in Bruno Filippi, l’emulo italiano di Emile Henry che cercò di colpire la borghesia nel mucchio, un teorico dello stragismo («Non domandate pietà. Nel mio cervello avete scritto: Strage. E strage sia. Forse l’umanità è sporca. Ha bisogno di lavarsi, e per questo bagno ci vuole sangue»), ispiratore del principale responsabile della strage del Diana, avvenuta nel marzo del 1921 a Milano. Esistono certamente molte similitudini fra Emile Henry e Bruno Filippi: entrambi giovani anarchici di circa vent’anni, entrambi collaboratori di giornali considerati organi dell’individualismo, entrambi contrari alla logica sacrificale dell’azione così tipica dell’Ottocento — entrambi sceglieranno come bersaglio un caffè dell’alta borghesia. Ma se la parola «stragismo» ha un senso se pensiamo a piazza Fontana nel 1969 o alla stazione di Bologna nel 1980 — allora non ha nulla a che vedere né con il Terminus di Henry, né con il Biffi di Filippi. Entrambi presero di mira un locale celebre perché frequentato da esclusivi borghesi, non da comuni risparmiatori o da semplici viaggiatori (quanto alla strage del Diana, è noto che fu il risultato di un susseguirsi di circostanze, equivoci ed errori di certo non programmati).
Ciò precisato, mettiamo da parte i buoni sentimenti e siamo sinceri: dei nemici, dei responsabili del dominio, dei governanti, degli sfruttatori... quale anarchico non ha mai desiderato farne strage, sopprimerne il maggior numero possibile in un colpo solo? Da quale intenzione erano animati quegli anarchici spagnoli che nella primavera del 1923 irruppero nel Circolo dei Cacciatori di Barcellona, abituale ritrovo dei borghesi più reazionari, e fecero fuoco sui presenti? In cosa la loro scelta operativa differì da quella di un Emile Henry o anche di un Bruno Filippi? È legittima perché agirono in quindici, anziché in uno? Erano giustificati perché amavano il popolo anziché l’individuo? O è la presenza di una organizzazione alle loro spalle a fare la differenza?
 
Sì, Bruno Filippi è davvero imperdonabile. Anziché accompagnare gli eventi con la sua rivolta, anziché mettersi al servizio del contesto storico in cui viveva, decise di eccederlo, di sconvolgerlo. Per qualsiasi politico sovversivo, l’azione individuale è forse comprensibile e giustificabile in tempi di aperta reazione, o al limite di soffocante pace sociale, quando nessuno spazio di agibilità è concesso all’azione collettiva. Ma in tempi di rivoluzione, via, è una provocazione ed una follia!
Bruno Filippi era quel provocatore, quel folle che ad una protesta di disciplinata ragionevolezza preferì un gesto di odio animato da una volontà deliberata di aggressione. In preda alla nausea per i sordidi calcoli da cui dipende l’esistenza umana, egli «detestava l’attesa perché in lui tutto era folgore». Più che un militante, si considerava un «artista anarchico». Anche i suoi testi, come quelli di Novatore, traboccano più di appassionata poesia che di fredda analisi sociale. E la poesia, per essenza, non è al servizio di niente e di nessuno. Ecco perché Filippi non vedeva i soli dell’avvenire promessi dagli imbonitori della lieta novella redentrice; no, lui sognava «un mondo in fiamme roteante nell’infinito e lanciare bolidi infocati e scintille per gli spazi siderei». 
Per questo, come ricordò chi lo conobbe, «guardava nel mondo con occhio attonito perché sentiva che tutto gli era ostile». E per questo aveva dichiarato guerra a tutto. Oltre a partecipare assieme ad altre centinaia di compagni alle agitazioni sociali, quotidiane in quei giorni turbolenti, decise anche di agire singolarmente contro questa infame società. 
In occasione dello sciopero generale internazionale progettò di «far saltare le principali linee ferroviarie e la centrale elettrica di Paderno», cioè di colpire trasporti ed energia — di bloccare tutto. Nell’anniversario della morte di re Umberto I, celebrò Gaetano Bresci dinamitando il tribunale di Milano. In solidarietà con lo sciopero dei metalmeccanici, attaccò il principale industriale del settore, Giovanni Breda. Non soddisfatto, se la prese anche con un altro bellimbusto dell’industria meccanica, aristocratico ed ex politico. Infine, quel tragico 7 settembre, pensò di rovinare la digestione all’intera classe borghese di Milano.
E tutto questo lo fece in pochi mesi, da solo, insieme ad un pugno di compagni. Non era un essere superiore. Era un ragazzo fuori dal comune di soli 19 anni — «alto, snello, colorito rosso, fronte larga, occhi ampi e verdoni, spalle larghe» (com’era descritto nei rapporti di polizia). Possedeva una certa conoscenza, aveva raggiunto una forte coscienza. Ma poi? Non può finire tutto lì. Perché, a cosa serve tutto quel sapere, tutta quella consapevolezza, se non per agire? E Bruno Filippi decise di agire, decise di osare.
Negli infelici cervelli oscurati da addestramenti sociali — da «la vita non è una risata» degli educastratori a «la rivoluzione è una cosa seria» dei militanti — un paradiso ancora rutilante comincia con un formidabile rumore di cocci rotti. La grande collera è una collera infantile, non chiede permessi, non tollera limiti. Sferra pugni contro gli uomini che hanno impedito alla vita d’essere una festa ininterrotta. Non conosce assennata rivendicazione né peccato originale, semplicemente pensa che il desiderio non sia fatto per essere umiliato. È questo senso della dismisura a permettere di mantenere vive, contro il ricatto di mediocri verità pratiche immediate, le aspirazioni esorbitanti. Non esiste scandalo per chi pensa che il solo scandalo consiste nell’accettare la condizione umana.
Siamo nati nel Novecento e — anche se a quindici anni, noi, pensavamo per lo più a divertirci — siamo cresciuti alimentandoci delle sue rivolte. Ebbene, il nostro secolo è cominciato col gesto di un ragazzo che, in una piazza di Milano, ha scagliato una bomba contro la Società perché non gli permetteva di cercare la felicità in questa vita. 
Età ingrata, la sola età che desideriamo avere...
 
Bruno Filippi
Ho sognato un mondo in fiamme roteante nell'infinito
pag. 136, euro 8
 
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