Contropelo

Alla corte dell'atomo

T. Fulano

Comunque totalitario

L'apparente controversia a proposito dell’utilizzo del nucleare non costituisce in realtà materia di dibattito: essa rispecchia la sottintesa questione del potere sociale. La storia della scoperta dell’atomo rende tutto sufficientemente chiaro. Sviluppatosi all’inizio come arma da guerra sotto la coltre del segreto militare, poi attraverso sforzi coordinati che obbedivano ad enormi interessi industriali, il nucleare non era mai stato oggetto di pubblico dibattito prima che l’intera società non si fosse pesantemente compromessa con esso.

Negli anni 40 una opposizione dichiarata si sarebbe attirata le accuse di tradimento e, malgrado la fine della cosiddetta Guerra fredda, la tecnologia nucleare come le sue sostanze sono ancora oggi considerate una questione strettamente legata alla sicurezza dello Stato. Ecco perché, al posto di una genuina discussione pubblica, le preoccupazioni relative ai pericoli di questa tecnologia sono state marginalizzate dal monologo pubblicitario e dal patriottismo. Negli ultimi decenni, le stravaganti affermazioni in merito all’utopia tecnologica e all’abbondanza illimitata sono state erose dai fatti. Il sogno dell’energia nucleare è finito col somigliare piuttosto a un incubo animato da incidenti terrificanti, da costi esorbitanti e dall’eterno problema di come smaltire le scorie nucleari. Eppure una discussione pubblica rimane poco più che un diversivo tattico, per quel che riguarda coloro che amministrano il nucleare, una sorta di cambio d’abito all’Imperatore per ipnotizzare la popolazione. Non hanno alcuna intenzione di farla finita, quale che sia il conto da pagare. Per altro, la stessa possibilità di una libera discussione in merito all’utilizzo o meno dell’energia nucleare è tutta da dimostrare. Bisognerebbe trascurare il piccolo particolare che viviamo in una società basata sulla divisione di classe — laddove un gruppo ristretto di persone esercita l’autorità secondo i propri fini, incrementando la propria ricchezza ed il proprio potere a scapito di tutti gli altri. Quindi “discutere” dei pregi e dei difetti del nucleare con gli amministratori delegati delle industrie coinvolte o con i burocrati governativi equivale a discutere del significato della vita con un assassino che ci sta puntando il coltello alla gola. Il fatto è che l’energia nucleare è per necessità totalitaria. Inizialmente i tecnocrati nucleari hanno eseguito i loro esperimenti su intere popolazioni, come i dottori folli di Buchenwald. Tantissime persone ignare sono state trattate alla stregua di soggetti sperimentali segreti, intere città come Los Angeles sono state intenzionalmente sottoposte a ricaduta radioattiva, numerose popolazioni indigene sono state estirpate dalla loro terra natale utilizzata poi per esperimenti, truppe di militari sono state costrette a marciare in luoghi radioattivi per poter studiare le conseguenze di una esposizione alle radiazioni. E questi esperimenti, i soli di cui siamo a conoscenza, sono avvenuti qui, nell’occidente democratico, non in lontane e gelide dittature. Persino il sogno di un mondo post-nucleare contiene in sé il germe di un controllo autoritario e centralizzato, avendo il nucleare creato problemi tecnologici e sociali che semplicemente potrebbero non avere soluzioni adeguate. Demolire la tecnologia è già di per sé una prospettiva abbastanza sconcertante, senza dover prendere in considerazione l’arduo problema di come contenere le già presenti scorie nucleari e industriali — problema che, per inciso, rende ancora più urgente la necessità di fermare la megamacchina industriale.

 

Una questione di psicopatologia

Per i sostenitori dell’energia nucleare, parlare — per lo meno quando ciò avviene — significa sollevare una cortina di fumo. È nel loro interesse vedere la questione come un insieme di problemi tecnici, di semplici procedure decisionali, di analisi dei costi e dei benefici, di accertamento dei rischi; tutte cose che devono essere discusse da esperti in materia e da cittadini bendisposti. Ma una cosa è la vita, e ben altro sono i sofismi, la neolingua della tecnica e la mistificazione al servizio del puro dominio. L’energia nucleare è centrale in una configurazione di domande che l’umanità si trova oggi ad affrontare, che possono venir riassunte con la vita contro la morte. “Favorire” l’energia nucleare significa desiderare che la propria tecnoburocrazia amministri l’annichilimento. Temere ed opporsi al nucleare — non importa se per ragioni scientifiche (“razionali”) o intuitive (“irrazionali”) — significa in una certa misura resistere all’inerzia, intravedere la vita oltre il sudario dell’affarismo in una civiltà che sta sbandando verso l’autodistruzione. Il nucleare è quindi più di una tecnologia (vocabolo che riesce a dargli una parvenza di innocuità): è piuttosto la materializzazione dello stesso desiderio di morte. È un elemento chiave in un sistema che, come la maggior parte delle lungimiranti e acute menti scientifiche oggi riconosce, sta minando irrimediabilmente la vita complessa sulla terra. Persino i campioni di questo sistema possono riconoscere molte delle sue conseguenze nocive — il disastro di Chernobyl, ad esempio —, eppure continuano nella loro folle corsa. Un similare impulso suicida ci spinge a considerare l’energia atomica in termini di patologia: un fascino per l’autodistruzione ed un incurante disprezzo per la vita, una diminuita convinzione nell’integrità e autonomia degli individui, e un modello psicologico di dipendenza e negazione. Come altro spiegare l’idillio incessante in alcuni settori della società con una tecnologia capace di provocare disastri indicibili, e la generale indifferenza e l’intorpidimento fisico in altri? Anche se ulteriori disastri alla Chernobyl fossero considerati una possibilità remota (di fatto sono inevitabili), il rischio di causare milioni di malati e di morti, nonché il bisogno di evacuare permanentemente intere regioni, dovrebbe sembrare una ragione sufficiente per abbandonare il nucleare. Ma non è così. Infatti, ci viene detto che «noi» dobbiamo produrre sempre più energia — ma per fare cosa? La gente è davvero intenzionata a negoziare il proprio futuro pur di vivere in un impero industriale che produce cose di cui non solo non si ha realmente bisogno, ma di cui in non pochi casi sarebbe meglio fare a meno? Possiamo condurre una vita soddisfacente usando meno energia? È necessario sacrificare l’integrità genetica delle prossime generazioni pur di mantenere le strade commerciali illuminate di notte e le televisioni accese? Perché, visti gli orrori di Chernobyl, non c’è nessuno — tranne una esigua minoranza — a porsi un semplice quesito: energia per che cosa?

 

Una forma virulenta di rimozione

La tecnolatria assicura le persone che i sistemi odierni funzioneranno, i metalli non si corroderanno né si esauriranno prematuramente, i tecnici prenderanno le decisioni corrette, premeranno il bottone giusto nella esatta sequenza, i bottoni funzioneranno come richiesto, e i computer risponderanno appropriatamente. Tutto questo è frutto di una massiccia, irrazionale, rimozione. Bizzarramente, essa coesiste con un pervasivo, diffuso sospetto che nullain questa società funzioni, che tutti i sistemi stiano crollando e che nessun esperto meriti piena fiducia o che possa esistere una macchina attendibile; perché stupirsene, dato che tutto è stato prodotto dal minor offerente, un minor offerente che prende scorciatoie per tagliare i costi. Eppure questa diffusa, complessa e pericolosa tecnologia — ci assicurano i suoi operatori e pubblicitari salariati — funzionerà alla perfezione. In ogni caso, ci viene detto, non abbiamo scelta; semplicemente non possiamo più farne a meno. Certo, solo la più venale e disperata comunità accetterebbe volontariamente di avere vicino un impianto nucleare o un deposito di scorie radioattive. Ciò dimostra fino a che punto sia diffusa la consapevolezza che nessun sistema tecnico è privo di errori, sia che riguardi la produzione o l’immagazzinaggio delle sostanze radioattive. Nei sistemi industriali complessi, gli incidenti sono inevitabili. La maggior parte dei contenitori si sta crepando per usura. I fenomeni geologici e chimici sono più complessi di quanto si pensava una volta, ed i risultati delle più recenti ricerche hanno incrementato il senso di sconcerto fra gli scienziati. Sebbene ci siano ancora centinaia di reattori nucleari operanti nel mondo, non c’è nessun programma a lungo termine per l’immagazzinaggio delle scorie prodotte. In Italia, ad esempio, dove esistono circa venticinquemila metri cubi di materiali radioattivi, lo stesso consigliere dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente ammette che «sembra non esistere un luogo adatto a un definitivo sotterramento, cioè, come recitano i manuali, un sito di profondità geologicamente stabile». Eppure l’impero nucleare continua la sua marcia verso l’oblio. Malgrado il numero di morti e di ammalati a causa della contaminazione avvenuta nell’aprile 1986 a Chernobyl, l’Ucraina ha deciso — in nome delle “necessità energetiche” — di mantenere funzionanti i rimanenti reattori e di concedere una moratoria solo su quelli nuovi in preparazione. In occidente, la mentalità è la medesima. Perché? È stato Wilhelm Reich a sostenere nei suoi studi sulla psicologia di massa del fascismo che una larga porzione della popolazione tedesca desiderava il fascismo anche se non rappresentava il suo interesse. Da questo punto di vista, non sembra che si siano fatti molti passi avanti. Nel breve periodo (almeno fino alla prossima paga), le persone pensano a come fare soldi (e per la maggior parte, nemmeno tanti), districando i nodi della fragile tela della vita. Nel lungo periodo, le loro famiglie soffriranno di cancro, di malattie immunologiche, di deformazioni fin dalla nascita e di mille altre malattie provocate dalla civiltà industriale. La massiccia rimozione sociale a questo riguardo non riesce a nascondere la propria dipendenza dall’esca industriale (le automobili, di cui pare non sia possibile fare a meno) e dal prestigio (la propria posizione nella scala gerarchica sociale). È così che rimozione e torpore fisico mantengono un sistema suicida.

 

Il nucleare e l’autonomia umana

La difesa dell’energia nucleare solitamente viene presentata attraverso una difesa dei “diritti dell’individuo” — il diritto delle grandi compagnie di ottenere un profitto, il diritto degli individui di realizzare una “vita bella” attraverso un illimitato accesso all’energia e alle merci. Ma il capitalismo industriale, basato com’è sul saccheggio della natura e dell’umanità, può funzionare solo dove l’autonomia umana stessa è stata saccheggiata. Se questo processo si è manifestato sotto forma di una violenta coercizione agli albori del capitalismo industriale, oggi la suggestione ipnotica appare più che sufficiente. Il sistema industriale non sopravvivrebbe senza l’attiva e passiva cooperazione degli esseri umani che si fidano e obbediscono ai propri leader, hanno fede nella neolingua degli esperti, e accettano ogni passo del progresso tecnologico sguinzagliato contro di loro dalle burocrazie governative e aziendali, con una naturalezza tale da far sembrare tutto ciò un arricchimento delle loro vite. Oggi gli individui sono a malapena capaci di esaminare criticamente la propria esistenza e la società. Avendo abdicato alla responsabilità per se stessi, si limitano a recitare le litanie dei loro leader e padroni. In principio, il capitalismo proclamava la supremazia dell’individuo solo per raggiungere, nella sua maturità, la soppressione delle possibilità di un’autentica individualità. Oggi le persone percepiscono solo ciò che hanno perduto, ma non lo sanno definire. È venuta a mancare loro la stessa capacità di distinguere ciò che sta scomparendo. L’ansia è pervasiva, così come la rabbia. Nel tentativo di espandere il proprio spersonalizzato mondo artificiale, il capitale mina e degrada la terra per produrre cumuli di oggetti consumabili, intrattenimenti programmati e comunità prefabbricate. Le creature addomesticate che continuano a ripetere le razionalizzazioni del capitale alla luce dei drammatici incidenti e dei continui resoconti di una tecnologia nociva — eventi che potrebbero spezzare il loro condizionamento nello stesso modo in cui una tempesta che irruppe nel laboratorio spezzò il condizionamento dei cani di Pavlov, secondo la storia raccontata da qualcuno — sono reminiscenze delle masse analizzate da Reich.

 

«Contro il nucleare» non basta

Come il capitano Achab del Moby Dick di Melville, i fautori dell’energia nucleare non possono sostenere la bontà dei mezzi e dei fini. Nondimeno, essi pongono in cima al senso comune parte del normale stato delle cose. Questo genere di realismo serve a legittimare il moloch industriale incline ad imporre una “conquista della natura” che pare costituire la più preziosa miniera del capitalismo. Ma questa conquista non avviene senza incontrare resistenze da parte della vittima. La natura infatti non si lascia addomesticare facilmente e trova la propria vendetta in conseguenze non previste. Le quotidiane operazioni della civiltà industriale stanno attualmente minando la vita planetaria: cancellano popolazioni, luoghi e specie, causano una progressiva distruzione globale delle diversità culturali, biologiche e agricole, polverizzano lo stato selvaggio, devastano delicate armonie ecologiche, riempiono silenzi naturali con il rumore bianco, disperdono gli ultimi resti delle antiche comunità umane, avvelenano l’intera ecosfera e degradano i cicli naturali. Messo di fronte a tutto ciò, il capitalismo industriale tenta a malapena di giustificarsi. Anzi, si pone come la soluzione ai disastri che ha provocato (i politici proclamano il bisogno di «far crescere l’economia», il che significa aumentare il saccheggio). Avendo già cancellato la memoria dei modi in cui la gente viveva in passato, questa civiltà sta lavorando per liquidare il futuro imponendo sempre più rigidi, e al tempo stesso flessibili, pericolosi sistemi tecnici e istituzionali. Un’attenzione critica rivolta al solo nucleare non è perciò sufficiente; la resistenza all’energia atomica è solo un punto della critica del sistema industriale nella sua globalità. Coloro che sostengono la possibilità di mantenere una civiltà industriale urbana libera dal nucleare non comprendono che il nucleare è soltanto un acciarino nella crescita economica della produzione di massa, che sta divorando il mondo con le sue nocività. La subordinazione al profitto ed al potere continuerà a minare la vita, con o senza energia nucleare. Per altro, anche dopo un eventuale abbandono del nucleare permarrebbe il problema delle sostanze radioattive. Una critica che non affronti l’organizzazione capitalista industriale nel suo insieme — non solo nucleare, ma petrolio, produzione e mercato, militarismo, cibernetica, mass media, ingegneria genetica, eccetera — si confronterà solo con una testa dell’idra, lasciando il resto inalterato. 

 

[da Diavolo in corpo, n. 1, dicembre 1999]