Macchianera

Imprevisti riflessi

 

La Settimana Rossa

Luigi Lotti

Le Monnier, Firenze, 1965

 

C'è chi sostiene che esiste un modo semplice e sicuro per riconoscere una vera rivoluzione: è quella che non viene celebrata con un anniversario. Ma se la Settimana Rossa — scoppiata esattamente un secolo fa, il 7 giugno 1914 — non è stata una rivoluzione, essa «fu certo la più importante e grandiosa agitazione che mai si fosse svolta nell'Italia unita». La citazione è tratta dal libro considerato il più approfondito sull'argomento, quello di Luigi Lotti, da molti anni andato fuori catalogo e mai più ristampato da un mercato che segue ben altri interessi e mode. Chi lo volesse leggere sarà costretto a frequentare le biblioteche, oltre a protrarre la propria attenzione fin oltre le 250 pagine. I masticatori di opuscoli possono quindi risparmiarsi la fatica.

Storico talmente immune da aspirazioni sovversive da essere introdotto da Giovanni Spadolini (in un tempo in cui non era ancora ministro, né capo del governo), Lotti ricostruisce pazientemente i fatti accaduti, inserendoli nel contesto storico dell'epoca. Ne viene fuori un libro davvero interessante, dove persino i commenti personali dell'autore non riescono ad infastidire più di tanto. Anche perché, accanto a quelli più scontati e per noi ridicoli (che peccato che gli anarchici fossero «lontani da ogni importante carica direttiva del proletariato organizzato»!), ve ne sono altri nient'affatto peregrini, frutto più di pacata osservazione che di frettolosa faziosità.

La Settimana Rossa, quindi. Un esempio notevole di come nasca, si sviluppi e muoia un moto insurrezionale. Una perfetta illustrazione di come le aspirazioni rivoluzionarie si disintegrino non appena decidono di fare i conti con la realtà. Una radicale dimostrazione di come l'imprevisto incida assai più della strategia. Una istruzione storico-pratica per scoprire, se non gli amici, di sicuro qualche nemico.

Il primo ingrediente è il più ovvio, ma anche il più facile da ottenere: un'atmosfera carica di tensioni sociali. Fattore all'epoca fornito da una guerra in Libia che aveva spinto Augusto Masetti a puntare il fucile contro il suo colonnello, da una disoccupazione così crescente da far toccare proprio nel 1914 l'apice dell'emigrazione, da un conseguente moltiplicarsi di scioperi. L'esasperazione era riuscita a contaminare di attivismo rivoluzionario tutte le forze progressiste. Era giunta l'ora del sovversivismo, di «quella intransigente contrapposizione classista fra proletariato e borghesia che anche socialisti e repubblicani — oltre ai sindacalisti — accettavano ora come il solo dato vero, come il solo punto fermo da cui muovere per qualsiasi azione». Quanto agli anarchici, potevano fare affidamento — oltre che sul dinamismo di Malatesta da poco tornato in Italia — sulla loro volontà di essere «minoranza attiva che si inserisce nel moto generale, gli imprime la propria impronta, promuovendo iniziative e agitando problemi, e lo sospinge verso l'insurrezione». Altro che numeri sfavorevoli (macroscopici, se paragonati alla situazione odierna). Per dare il via alle danze non occorreva un grande esercito disciplinato, guidato da un astuto stato maggiore. Bastava una scintilla, un imprevisto. È quanto avvenne ad Ancona, quel 7 giugno di un secolo fa. 

Una contro-manifestazione antimilitarista in occasione di una festa istituzionale viene proibita. Una pioggia torrenziale mette in fuga fin dal mattino reazionari festeggianti e sovversivi contestanti, il fermo di Malatesta che gironzola lì in zona eccita gli animi, il suo immediato rilascio sembra rabbonirli. In sostituzione della manifestazione proibita, viene indetto per il pomeriggio un comizio privato alla sede repubblicana, i cui locali si affacciano su una via stretta, in salita. Dopo un'ora e mezza tutto sembra finito. Ma duecento manifestanti decidono di raggiungere il centro cittadino, dove è previsto un concerto con tanto di marcia reale. Il responsabile dell'ordine pubblico deve impedire la sortita e, per disperdere i manifestanti, chiude loro lo sbocco in basso spingendoli verso l'alto. Ma in alto la presenza di alcuni carabinieri dà ai manifestanti l'impressione di ritrovarsi stretti in una tenaglia, senza via d'uscita. La rabbia monta e, anziché disperdersi, si accalcano tutti nella sede repubblicana. I carabinieri in basso salgono e premono, salgono e premono, fino a ritrovarsi sotto le finestre e le terrazze dell'edificio. Inevitabilmente parte un fitto lancio di oggetti contro di loro, che contribuisce ad innervosirli. Sono esattamente sotto la terrazza. Poco sopra le loro teste, alcuni manifestanti si apprestano a gettare un barile che stanno facendo rotolare. Un poliziotto anch'egli presente se ne accorge e, per farli desistere, esplode quattro colpi di pistola in aria. I carabinieri fraintendono, pensano siano stati i manifestanti a sparare. È un attimo. A loro volta puntano le proprie armi contro i manifestanti e premono il grilletto: tre morti e quattro feriti. Un paio di equivoci, ed ecco il fuoco alle polveri!

L'eccidio spingerà i sindacati, nolenti o volenti, a proclamare per il 9 giugno lo sciopero generale. L'indomani Ancona è in mano ai rivoltosi armati di bastone a caccia delle poche divise in circolazione. «Sono cose dell'altro mondo», dirà un giornalista. Le autorità trattano con una delegazione — composta da onorevoli, ma anche da Malatesta — il ritorno alla calma. Tutto inutile, perché qui è là continuano le aggressioni alle truppe di militari. Presi dal panico, ancora una volta gli uomini in divisa fanno fuoco, causando alcuni feriti che però, in un frenetico passaparola, diventano nuovi morti. Ora basta, si dà l'assalto alle armerie. Intervengono i militari, e intervengono soprattutto due onorevoli esponenti dei partiti sedicenti rivoluzionari. Qui Lotti descrive con candore il loro ruolo reale: «Nenni convinse gli scioperanti a seguirlo in piazza Roma, ove egli stesso e De Ambris parlarono alla folla eccitatissima facendo ad un tempo un'esaltazione della battaglia rivoluzionaria e un invito alla calma non essendo ancora giunto il momento». 

Per i partiti, per tutti i partiti, il sovversivismo è solo un gioco di parole, una retorica con cui intimidire la controparte, attrarre consensi e rafforzare la propria posizione. Ma di passare ai fatti, non se ne parla proprio.

In un certo senso tutta la storia della Settimana Rossa, così come la racconta Lotti, avviene seguendo lo stesso canovaccio. Piccoli fatti, spesso insignificanti e talvolta del tutto casuali, che in mezzo all'eccitazione diventano scintille e contribuiscono a far divampare vasti incendi. Da un lato il furore degli insorti, i quali in diverse città — Ancona, Roma, Firenze, Bologna, Imola, Fabriano, Foligno, Venezia, Parma, Milano, Torino, Napoli... — assaltano armerie, infrangono vetrine di negozi, devastano stazioni ferroviarie, bloccano mezzi di trasporto, si scontrano con le forze dell'ordine, alzano barricate, attaccano crumiri, tentano di occupare municipi, bruciano chiese. Dall'altro la doppiezza di capipartito e capoccia sindacali — che con la mano sinistra stretta a pugno incitano i militanti alla lotta mentre con la destra firmano la resa. Dalla parte opposta, uno Stato i cui funzionari preposti al mantenimento dell'ordine spesso non fanno altro che gettare benzina sul fuoco. Per non parlare della folla di persone dabbene che in alcune città prima applaudono apertamente la repressione, e poi passano direttamente al suo servizio. A un passo dalla guerra civile.

C'è poi l'iniziativa individuale, come quella che fa esplodere bombe o appicca incendi a ponti ferroviari. Le ferrovie sono infatti un punto nevralgico per tutto il paese ed il movimento. Non solo gli anarchici sostengono da tempo la necessità di bloccarle per impedire la circolazione delle truppe, ma il potente e decisivo sindacato dei ferrovieri è quello più ostile allo sciopero. Ecco perché in quei giorni le stazioni ferroviarie diventano il principale bersaglio degli insorti.

Intanto in Romagna, dove la Settimana Rossa assumerà caratteristiche uniche, inebriati da notizie lontane rivelatesi poi false ma in quel momento straordinarie, gli scioperanti isolano la propria regione dal resto d'Italia tagliando i fili telegrafici e telefonici. Paradossalmente, ciò farà fermentare ed esplodere un movimento «tanto spontaneo, immediato ed erompente dal basso, quanto disarticolato e caotico», privo di rappresentanti popolari in quel momento assenti quanto di intese fra Comitati d'agitazione «nonostante il via vai di staffette». Anzi «gli stessi "Comitati d'agitazione" che parranno erroneamente la riprova di un piano preordinato, finiranno assai più per tentare di disciplinare città per città clamorosi e scomposti moti locali che a guidarli a un identico e congiunto sbocco rivoluzionario».

Se in città la presenza di truppe sembra riuscire a contenere l'animazione, «una vera sollevazione, con un'esplosione di inaudite violenze divamperà invece nelle vaste plaghe del ravennate e del lughese», dove si arriverà al famoso episodio del fermo di un generale e di sei ufficiali. 

Alla fine, dopo pochi giorni, davanti al baratro rappresentato da un salto nel buio — perché una rivoluzione è proprio questo — si ritorna alla ragionevolezza. I sindacalisti proclamano «la fine dello sciopero, preoccupati dalle pericolose conseguenze di tale stato d'animo». Ne esaltano sì l'imponenza, ma soprattutto raccomandano di vigilare «perché nessuno compia atti che possano riuscire di pretesto per nuove repressioni e per diffamare il nostro movimento». Una decisione presa dai vertici della Confederazione, ma ampiamente sollecitata dai dirigenti locali terrorizzati per una situazione fuori controllo. Lo sciopero finisce e, con esso, anche la Settimana Rossa. Il suo bilancio di sangue sarà di 16 scioperanti morti e di 600 feriti.

Nelle sue conclusioni Lotti osserva come la proclamazione della fine dello sciopero sia stato sì un duro colpo, ma non abbia costituito in sé la causa della disfatta. Le accuse di tradimento alla Confederazione, care a molti anarchici, denotano «una visione limitata e deformata, come se tutta l'Italia si fosse trovata nelle stesse condizioni di Ancona e della Romagna, e come se anche in quelle zone i rivoluzionari avessero prevalso sulla forza pubblica, e le parti non fossero state invece  a controllarsi a vicenda, quelli in attesa della notizia decisiva per insorgere, questa in attesa di rinforzi per ripristinare l'ordine senza fare uso delle armi».

Ciò che è mancata davvero è stata la determinazione a sfidare l'ignoto, passo che non potrà mai essere realizzato su ordine di un partito, né facilitato da una organizzazione di massa. Per non parlare della disparità di mezzi, di quella mancanza di armi da parte degli insorti che è stata la ragione principale addotta dai vari partiti per rimandare la rivoluzione.

In un certo senso lo stesso Alceste De Ambris lo aveva ammesso quando scrisse: «Noi che sentiamo la fatale necessità della violenza per la soluzione dei conflitti sociali ci dibattiamo continuamente in una tragica contraddizione. Tutto l'anno si predica il dovere dell'azione eroica e della consapevole non metaforica rivolta; ma poi quando il momento auspicato del risveglio proletario viene e la massa cessa d'esser prona e si leva negli impeti sublimi del più duro ardore di sacrificio, siamo ancora noi che accorriamo per contenere lo slancio superbo, per quietarne la tempesta di sdegno. Così neghiamo in un giorno tutta la propaganda fatta durante mesi. La massa ci guarda sorpresa e disorientata».

Anche gli anarchici sono in un certo senso immobilizzati da questa stessa contraddizione, per il cui superamento non basta — come sosteneva Malatesta — seguire «la linea dello sviluppo spontaneo nella convinzione che "da cosa nasce cosa"». Il tatticismo gonfia, ma non fa crescere. Non è la stessa cosa, pensarlo è una forma di suggestione («E dappertutto si vedono agire in bella concordia repubblicani, socialisti, sindacalisti e anarchici»). Dall'alleanza coi sostenitori dello Stato non nasce l'autonomia di azione. Dall'esortazione rivolta al popolo di armarsi seguita dall'invito alla calma non nasce la rivolta. Dall'indicazione di dividere il nemico applaudendo i militari e fischiando i carabinieri non nasce l'antimilitarismo. Nascono solo attendismo e disorientamento, appunto.

Per alcuni la Settimana Rossa è stata l'ultima occasione per una rivoluzione in Italia. Se non è scoppiata allora, con tutte le forze progressiste favorevoli all'intransigenza rivoluzionaria, figurarsi oggi! Ma in fondo, anche allora c'era chi aveva da poco decretato «la fine dell'anarchismo». Per altri, sembra che questa resterà comunque l'insuperata esperienza storica insurrezionale italiana, un modello che potrebbe presto tornare utile. Perché no, che oggi sia «tempo di rivoluzione» lo dicono persino alcuni ammiratori di Don Gallo.

Certo, anche oggi l'aria è tesa. E un imprevisto può accadere in ogni momento (anche in senso contrario, ricordiamo che il 28 giugno 1914 avvenne l'attentato di Sarajevo che provocò la prima guerra mondiale). Ma che sia facilmente risolvibile o meno, che finisca con lo scatenare una guerra civile o una guerra sociale, ciò potrà dipendere anche da ciascuno di noi. Dai nostri riflessi, ma anche dalle nostre riflessioni.