Brulotti

Lettere aperte su sabotaggio e repressione

alcuni anarchici italiani / creature della palude

 

Se la matematica non è un'opinione, sono passati solo 5 anni da questo scambio di lettere fra compagni italiani e francesi. Ma sembra essere trascorso un secolo. I primi tiravano le orecchie oltralpe a chi pensava di reagire alla repressione negando le cattive intenzioni che stanno dietro ad ogni atto di sabotaggio, i secondi rispondevano invitando a non fare generalizzazioni e criticando i tatticismi della politica.
Oggi che qui in Italia molti sovversivi si uniscono a qualsiasi recuperatore di sinistra pur di chiedere la liberazione di «quattro ragazzi» accusati di aver compiuto un atto di sabotaggio (nella vulgata innocentista, aver danneggiato semplici attrezzature per altro già "riparate e vendute" – sic!), oggi che la politica con le sue convenienze cerca di ammutolire l'etica con le sue invarianze, è bene tornare a rileggere questa corrispondenza. 
 
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Lettera aperta ai compagni francesi 

Sappiamo quanto sia doloroso essere separati dai propri compagni, e non abbiamo ricette né lezioni da impartire sul modo per farli uscire al più presto dal carcere (farli uscire tutti, a prescindere da qualsiasi distinzione tra “innocenti” e “colpevoli”). Le brevi note che seguono raccolgono alcune riflessioni nate a partire da varie esperienze repressive vissute in Italia, nella speranza che possano essere utili ai compagni francesi.
Gli arresti di Tarnac rappresentano un fatto grave non solo in quanto attacco rivolto a tutti coloro che già si battono, nella critica e nella pratica, contro lo Stato e il capitale, ma anche nel loro intento intimidatorio nei confronti di tutti i potenziali complici di una guerra sociale più diffusa.
La repressione, infatti, mira a colpire, più che i singoli atti, le "cattive intenzioni", svolgendo così un fondamentale ruolo pedagogico vòlto a depotenziare l'attitudine alla rivolta di tutti e di ciascuno. L'invenzione di "cellule terroristiche" o di "mouvances” di una qualche identità serve a isolare ogni ipotesi insurrezionale da tutte le pratiche di conflittualità esistenti, separando contemporaneamente ogni rivoltoso da se stesso e dalla proprie potenzialità.
La pedagogia della repressione è sempre una pedagogia della paura.
Il tentativo di trasformare scontri di piazza, azioni anonime di sabotaggio, scritti teorici, rapporti di solidarietà in un’“associazione terroristica” con tanto di cellule, capi e gregari è, purtroppo, un film già visto numerose volte in Italia. Il problema dello Stato è evidente: per cercare di liquidare determinate pratiche sovversive e i “movimenti” che le sostengono apertamente, non bastano accuse di reati specifici. Si tratta allora di inventare “reati associativi” per potere distribuire anni e anni di carcere senza quell’arcaica formalità che si chiamava prova. Molti di noi hanno in tal modo subìto processi, anni di detenzione preventiva e talvolta anche qualche pesante condanna. Pur non riuscendo spesso a sostenere fino in fondo le proprie inchieste, lo Stato si pone allo stesso tempo alcuni obiettivi paralleli: spezzare rapporti, interrompere il filo dell’attività sovversiva, testare la capacità di risposta dei compagni, ecc.
In Francia, azioni di sabotaggio e scontri con la polizia non datano certo dall’altro ieri. Ciò che ha spaventato lo Stato negli ultimi anni, a nostro avviso, è stato l’emergere di una possibile complicità – nelle parole e nei fatti – tra differenti forme di rivolta sociale, nonché l'affinarsi e il diffondersi di discorsi che rivendicano pubblicamente le pratiche di un’insurrezione possibile. Beninteso: lo Stato non teme tanto il discorso rivoluzionario, finché si limita a gioire della propria astratta libertà di parola, né in fin dei conti il singolo attacco: ciò che teme è l'imprevedibilità dell'attacco diffuso e il rafforzamento reciproco delle parole e dei gesti. Ciò che è stato per tanto tempo una posizione di ben pochi individui, comincia ad assomigliare ad una “palude” (per riprendere l’efficace espressioni usata, una dozzina di anni fa, dal nucleo “antiterrorismo” dei carabinieri italiani), difficilmente identificabile e governabile. Lo Stato vuole prosciugare quella palude perché ne escano capi, “organizzazioni”, pretesi “movimenti” con tanto di sigla, portavoce, ecc.
Se è sempre valido il consiglio che Victor Serge dava ai rivoluzionari in ostaggio del nemico – “negate tutto, anche l’evidenza” –, è necessario saper leggere la repressione al fine di rilanciare e rafforzare la nostra prospettiva. Sappiamo tutti che il nemico storico di ogni lotta insurrezionale è sempre stata la sinistra (e la sua sinistra): partiti e sindacati, recuperatori, mediatori, intellettuali consiglieri dei moderni Principi, alleati scaltri della repressione, abili nel dividere in “buoni” e “cattivi”. In particolari circostanze, costoro possono persino arrivare a difendere di fronte ad una “Giustizia ingiusta” quegli stessi compagni che li hanno sempre attaccati. Permettere che queste carogne riacquistino una qualche forza a partire dai nostri arresti è un errore non privo di conseguenze.
Che ad opporsi alle porcherie dell’“antiterrorismo” non siano solo i compagni, ma un ambito più allargato, ha degli aspetti positivi (ed è indice della constatazione spaventata che il terrore di Stato ci schiaccia ogni giorno di più). Ma la nostra prospettiva avanza solo nella chiarezza con gli altri sfruttati e ribelli, vale a dire nella ferma inimicizia verso la sinistra e i suoi mass media. Per dirla diversamente, anche il modo di reagire alla repressione fa parte di quella guerra sociale che non ammette tregue. Non assumendo e difendendo determinate posizioni, si cede terreno al nemico. La solidarietà democratica e lo spazio sui quotidiani non si danno mai gratis: oggi, servono alla sinistra non solo per riabilitarsi agli occhi di tutti coloro che sono ai ferri corti con l'esistente (“Vedete? in fin dei conti siamo d'accordo...”), ma anche per neutralizzare ogni posizione di rottura radicale col presente (si possono anche perdonare certi eccessi giovanili...).
La risposta che molti compagni hanno dato in Italia, di fronte ad inchieste simili (o ancora più pesanti), è stata molto semplice: “Noi non sappiamo chi ha fatto le cose di cui ci accusate, signori; ciò che sappiamo è che le difendiamo apertamente, e che le vostre inchieste non spegneranno i fuochi di quella rivolta sociale che non ha aspettato i nostri testi per divampare”. Una simile risposta – unita alle pratiche che ne conseguono – ci ha permesso di uscire dal carcere riprendendo il filo della nostra attività. Una simile risposta non troverà certo alleati tra i mass media e gli intellettuali democratici – soprattutto, non gli permetterà di parlare a nome nostro.
Alcune parole chiare trovano sempre delle orecchie pronte ad ascoltarle. Prigioniere, le parole forzano talvolta le catene, emergendo dalle parti più misteriose e comuni dell’esperienza e del cuore.
La forza che deriva dall'inserirsi nel loro gioco e nel loro discorso, con la pretesa di sfruttarlo o di détournarlo ai propri fini, è illusoria. Con il nostro nemico non abbiamo in comune nemmeno il senso delle parole – né di felicità, né di tempo, né di possibilità, né di fallimento o di riuscita.
Ci sono posizioni di rottura che si sono rivelate utili anche sul piano giudiziario, così come ci sono compagni che hanno rimediato un anno di carcere per qualche scritta sul muro: non esiste in questo ambito alcuna scienza esatta. La tensione verso la coerenza tra mezzi e fini pone il problema dell’efficacia in altri termini, cioè rispetto alla vita per cui ci battiamo. “Se sono innocenti – diceva Renzo Novatore – hanno la nostra solidarietà, se sono colpevoli ce l’hanno ancora di più”. I compagni solidali hanno trovato spesso in queste parole il terreno più favorevole per agire, per continuare là dove alcuni sono stati provvisoriamente fermati, e per scoprire nuovi complici…
Una certezza ce l’abbiamo: l’insurrezione che viene non legge Libé.
 
alcuni anarchici italiani
febbraio 2009
 
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Lettera aperta ad alcuni anarchici italiani

 
Abbiamo appena finito di leggere la lettera che ci avete indirizzato, a noi come a tutti i compagni francesi. L’abbiamo letta con piacere, ritrovandovi molte considerazioni in cui ci riconosciamo. L’abbiamo letta con attenzione, giacché essa proviene da chi, purtroppo, ha dovuto fare i conti con la repressione assai prima e più di noi. Ma, a dirla tutta, ci ha lasciato l’amaro in bocca e provocato un certo fastidio.
Ci viene infatti da chiedervi: a chi state parlando? Di cosa state parlando? Siccome la vostra lettera è rivolta ai compagni francesi e formula precise critiche alla deriva “innocentista” che ha preso la mobilitazione in favore degli arrestati di Tarnac, non vorremmo che in Italia si pensasse che “i compagni francesi” sono tutti dediti a raccogliere firme, in compagnia di bolsi intellettuali di sinistra, da consegnare alle autorità competenti come attestato di buona condotta.
 
Se è vero che alcuni compagni hanno deciso di trasformare quella che, a nostro e vostro avviso, dovrebbe essere una lotta contro la repressione in una lotta in difesa di alcuni repressi, è altresì vero che si tratta di una loro scelta che non è affatto condivisa dall’intero movimento francese.
 
Sfortunatamente la repressione in Francia non è iniziata lo scorso 11 novembre, avendo già colpito in precedenza altri compagni. Fortunatamente i sabotaggi sono proseguiti anche dopo quella data, inarrestabili. Tarnac non è il centro della Francia, né per lo Stato né tanto meno per l’insurrezione. È solo un episodio, che rischia di assumere connotati sempre più patetici. Come giustamente fate osservare, sono le “cattive intenzioni” il vero obiettivo della repressione, la quale, non riuscendo a prevenire gli attacchi, cerca di fermare il diffondersi di discorsi che rivendicano pubblicamente la necessità e la possibilità di una insurrezione (discorsi che alimentano e sono alimentati dall’azione, in un continuo gioco di vasi comunicanti).
 
Ciò che è grave, con gli arresti di Tarnac, non è tanto il comportamento dello Stato che, per le ragioni da voi chiaramente espresse, colpisce le nostre fila. In fondo, giudici e poliziotti non fanno che il loro sporco mestiere. Ciò che è grave è che, a fronte di ciò, si rinneghino pubblicamente quelle “cattive intenzioni” e quei discorsi, che li si banalizzi facendoli passare per la semplice “passione storica” di un “droghiere”. Oppure che si accetti fino in fondo di ricoprire il ruolo di “bravi ragazzi” (dall’illustre blasone e con adeguate referenze, nonché disponibili al dialogo con giornalisti e politici, quindi fuori posto in una cella) da non confondere con le “cattive canaglie” (senza santi in paradiso, muti di fronte ai loro nemici, quindi meritevoli di marcire in galera). Questo, siatene certi, è per noi molto più doloroso della momentanea separazione fisica da alcuni compagni.
 
Essendo molti gli anarchici italiani noti per la loro intransigenza, ci ha stupito e anche un po’ colpito la premura e la cautela con cui ci rivolgete le vostre osservazioni (le Alpi sono davvero così alte, se vi limitate a biasimare in Francia ciò che disprezzereste in Italia?). Arrivate perfino a metterci benevolmente in guardia contro gli “errori”. Quali errori? Siamo desolati, ma temiamo che stiate fraintendendo: non è stato commesso nessun errore nella mobilitazione in favore degli arrestati di Tarnac. Si è trattata di una precisa scelta di campo.
 
Da questo punto di vista, il vostro invito a “saper leggere” la repressione accompagnato dalla citazione di Victor Serge è un autentico lapsus. È proprio perché hanno letto bene Victor Serge (quello che, imputato nel processo contro gli illegalisti noti come Banda Bonnot, si difendeva definendosi un intellettuale che nulla aveva a che spartire con volgari criminali) che alcuni compagni francesi hanno imboccato la strada della difesa ad personam. Non fanno che mettere in pratica la diffusa idea secondo cui bisogna organizzarsi a partire dalla situazione, che in ogni situazione si possono fare alleanze, che nella guerra contro lo Stato non bisogna avere scrupoli morali o impacci etici, ma solo strategie da applicare. Buono è ciò che fa uscire i compagni dalla galera, cattivo è ciò che li fa rimanere. Punto e basta.
 
Là dove l’etica coinvolge la totalità dell’esistenza umana, la politica agisce su alcuni suoi singoli frammenti. Per questo l’opportunismo ne è una costante, perché interviene a seconda delle circostanze. Quando queste sono favorevoli, si può ben essere coerenti. Ma quando sono sfavorevoli… Ecco perché esso si manifesta soprattutto nelle situazioni di crisi o di urgenza.
Il compagno che si incontra con un funzionario di Stato (ad esempio un ex ministro) spinto dall’emergenza di un procedimento giudiziario (bisogna uscire dal carcere) non è tanto diverso dal compagno che si incontra con un funzionario di Stato (ad esempio un sindaco) spinto dall’urgenza di una lotta sociale (bisogna fermare una nocività), ed entrambi sono eredi del compagno che diventa funzionario di Stato (ad esempio ministro della giustizia) spinto dall’emergenza della guerra (bisogna fare la rivoluzione). In tutti e tre i casi si fa il contrario di quel che si dice, avvalendosi di buone ragioni (e quanto pratiche! quanto concrete!) e delle migliori intenzioni. L’emergenza spezza il normale svolgimento degli avvenimenti, travolge ogni punto di riferimento, sospende l’etica e spalanca la via ai contorsionismi della politica.
 
Tutto ciò è ovvio, è quasi banale, ma solo per chi pensa che idee e valori non siano parte integrante dell’essere umano, ma gli siano esterni, come puri strumenti da usare a seconda dell’occasione. Se invece si ritiene che le circostanze cui pone di fronte la realtà possono anche essere diverse e contraddittorie, ma unici sono i propri pensieri, i propri sogni, i propri desideri, allora è difficile negare che è giustamente nei momenti di crisi o di urgenza che bisogna cercare di rimanere se stessi. Una partita sempre aperta, piena d’imprevisti ed ostacoli, in cui è purtroppo facile inciampare e cadere. E allora, che si fa? Ci si rialza, cercando di imparare dai passi falsi, o si inizia a strisciare vantandosi della propria abilità tattica?
 
Dopo tutto, l’insurrezione è in sé una situazione eccezionale. Non ha senso atteggiarsi a cavalieri dell’Idea fuori dai momenti di rottura, per poi scoprirsi all’improvviso piazzisti della Convenienza non appena questi si verificano. Sarebbe come proclamarsi ai ferri corti con l’esistente per poi sfoderare un uncinetto con cui ricamare rapporti con i suoi sostenitori e i suoi falsi critici. Insomma, o si pensa che fini e mezzi siano un tutt’uno (interpretazione etica della lotta), oppure si pensa che fini e mezzi siano separati tra loro (interpretazione politica della lotta). Le vie di mezzo, come quelle che propongono dei mezzi senza fini, lasciamole alle fumisterie filosofiche.
 
Ciascuno è ovviamente libero di scegliere la maniera che più preferisce per cavarsi dai guai (senza pretendere per questo un rispetto dovuto, né un’amicizia immutata). Ciò detto, pensiamo sia quanto mai necessario arginare questo opportunismo politico dichiarato — presente in Francia, ma siamo certi anche in Italia e nel resto del mondo. Esso sarà magari in grado di spalancare più velocemente le porte delle prigioni o di calamitare l’attenzione di tante brave persone, ma ci restituirà solo l’ombra dei compagni che abbiamo potuto apprezzare. Contro questo opportunismo, è meglio la furia iconoclasta di un Renzo Novatore degli astuti consigli dell’anarchico individualista ravveduto Victor Serge.
 
Creature della palude
marzo 2009
[visibili qui]
[12/5/14]