Brulotti

Asfissiante cultura

Jean Dubuffet

La cultura si identifica con l’istituzionalizzazione. Questo fatto non va mai dimenticato, né bisogna illudersi che la cultura consista unicamente in un dato sistema di strutturazione del pensiero, come mezzo per un suo miglioramento. Coloro che contestano le posizioni culturali per lo più aspirano soltanto ad arricchirle o rinnovarle, e in tal modo non fanno che portar acqua al proprio mulino e rafforzare la loro influenza. L’istituzionalizzazione – qualunque siano le posizioni che ne sono l’oggetto – va combattuta senza tregua, essendo la forza che si oppone a quella del pensiero individuale, e dunque alla vita stessa; è precisamente la forza contro cui il pensiero deve combattere; sta al pensiero come la forza di gravità sta al saltatore, al proiettile.
Nella mia città non ci saranno più spettatori, ma soltanto attori. Niente più cultura, dunque niente più gente che guarda. Niente più teatro – il teatro comincia quando si separa la scena dalla sala. Tutti saliranno sul palcoscenico, nella mia città. Niente più pubblico. Niente più gente che guarda, quindi niente più azione falsificata sin dall’inizio dall’essere destinata a chi guarda – anche nel caso dell’attore, che diventa, nel momento in cui agisce, spettatore di se stesso. Nel momento in cui agisce? Questo sarebbe il male minore. L’inversione si opera ancor prima dell’azione, poiché l’attore deve situarsi nella sala prima di agire, per cui alla sua azione se ne sostituisce un’altra, che ormai non è più la sua, ma quella di un altro, che si offre in spettacolo. Questo è l’effetto del condizionamento culturale. La cultura fa sì che l’azione sia sostituita da quella di un altro. Ma noi che siamo condizionati, che non possiamo impedirci di guardarci agire, cosa possiamo fare? Dobbiamo compiere ogni sforzo per guardarci meno. Invece di acconsentire al principio dello starsi a guardare e di esserne compiaciuti, invece di discutere su come deve essere un buono spettacolo (e un buon modo di guardare), dobbiamo cercare di chiudere gli occhi, di distogliere lo sguardo, all’inizio per qualche istante, e progressivamente sempre più a lungo; dobbiamo costringerci all’oblio e alla disattenzione, per divenire non dico completamente (questo è impossibile), ma a poco a poco e sempre di più, nella misura in cui ci è possibile, attori senza pubblico. Non bisogna esitare neppure un istante dinanzi all’obiezione che la mia città è un astro irraggiungibile; non ha nessuna importanza che alla fine della strada ci siano l’assurdo e l’impossibile: l’assurdo e l’impossibile sono alla fine di tutte le strade, se le consideriamo rettilinee. Quello che conta è la direzione in cui si cammina, è la tendenza, l’atteggiamento. Di quello che ci sarà alla fine della via, non dobbiamo curarci. Le vie non hanno fine, non hanno una fine a cui si possa giungere.
La cultura è l’ordine, è la parola d’ordine. È liberamente consentito dire che l’ordine è massimamente debilitante. Il libero consenso è la nuova arma dei nuovi imperi, è l’ingegnosa formula, più efficace del bastone, dell’ultima ratio regum. Gli organismi di propaganda culturale rappresentano il corpo occulto delle polizie di stato; sono la polizia che agisce con grazia. Imposto con la forza, l’ordine provoca un moto di reazione, rinvigorisce la sedizione. La sedizione era certamente più vitale un tempo, quando veniva esercitata una vera coercizione, quando le forze dell’ordine mostravano il loro vero volto, e non ricorrevano alle pressioni occulte oggi abituali. È nel nostro tempo di libertà di stampa che la stessa stampa, con maggior zelo di quanto ne abbia mai avuto, è divenuta così unanimemente la servile ausiliaria delle forze dell’ordine.

[1968]