Brulotti

Pacificazione sociale e cittadinismo

 

Assemblea llibertària St. Andreu (Barcellona)
 
La pacificazione delle lotte
 
Se le strade parlassero, urlerebbero un sentimento di disfatta. Ai giorni nostri parlare di rivoluzione, di rivolta o di insurrezione significa parlare di Storia. Di epoche in cui certuni si permettevano di sognare un cambiamento radicale delle strutture sociali. Quei tempi sono ripiombati, restituiti, polverizzati dalle nuove democrazie, dal capitalismo e dal progresso. Ogni prospettiva rivoluzionaria si è perduta con l'interiorizzazione della logica del potere, della paura, dell'impotenza. Alcuni modelli sono stati assunti come valori propri, mentre hanno appena alimentato i meccanismi grazie ai quali i padroni del mondo generano e preservano le loro vite privilegiate. Sono state istituite la giustizia, la salute, l'economia. I nostri bisogni, i nostri desideri, i nostri sogni sono diventati merci. Tutto viene strettamente regolato da leggi, da procedure amministrative e da istituzioni; tutto viene delegato ad altri. È l'accettazione del dominio.
Un giro per Barcellona ti fa diventare pessimista. I suoi lunghi passaggi fra negozi e boutique, le strade che conducono al lavoro, le orde di turisti per cui i nostri quartieri sono diventati sterili scenari da fotografare. La polizia in uniforme, i civili, la videosorveglianza. Persone che spendono denaro, persone senza niente. Siamo sul punto di perdere la strada o l'abbiamo già persa? Vediamo come le lotte sociali che sorgono si soffocano nei valori superflui del civismo e del cittadinismo che le condannano ad un cammino breve e limitato. Vediamo che le lotte, invece di acquisire più radicalità, scansano il conflitto e rispettano l'ambito legale. Vediamo come, malgrado la perdita di fiducia verso la classe politica, cresce un processo di delega alternativa verso i partiti che sembrano più radicali. Vediamo che le aspirazioni di certe lotte non immaginano nemmeno di andare oltre qualche miglioramento del sistema. Questo ci mette fuori gioco. Perché inseguiamo ancora i vecchi sogni pur condividendo, volenti o nolenti, questa stessa realtà.
 
La pericolosa interiorizzazione del civismo
 
La pacificazione delle lotte, il mantenimento dell'ordine e la volontà unificatrice sono i pilastri del civismo. Un civismo regolato a colpi di ammende, che s'impone con la forza ed è interiorizzato quasi normalmente.
Il potere ha utilizzato diverse strategie per sbarazzarsi delle lotte: dalla repressione all'integrazione, passando per la diffamazione e l'isolamento. Attualmente, la nostra civilizzata e democratica società dispone di meccanismi di protesta che chiaramente non causano disturbo, non interrompono la normalità, né ottengono alcunché. Siamo in un periodo in cui numerose lotte nascono già in un ambito civico e integrato dal sistema. Ciò significa non uscire mai dalla legalità, restare educati anche se ci si fa fregare, essere cittadini che razionalizzano civilmente la propria collera, senza far uso di violenza, senza affrontare la frenesia del produci-e-consuma. Senza alterare l'ordine delle cose.
Le lotte radicali sono sconfitte molto prima di manifestarsi nelle strade. Sono sconfitte dalle intenzioni delle persone. Dalle loro aspirazioni che si limitano ad una realtà concepita con impotenza. Alcune rivendicazioni si accontentano dei privilegi dei consumatori oggi minacciati nella società occidentale; altre si limitano a piccoli gesti di altruismo perfettamente compatibili con l'ordine delle cose; e di tanto in tanto fa capolino una lotta degna che rompe con l'ipocrisia ed esce dai sentieri battuti sotto forma di conflitti di quartiere contro questo o quel piano urbanistico, di scioperi indefiniti, ecc.
Questa auto-limitazione collettiva che incide anche sul piano individuale, distrugge il campo fertile che la strada può costituire per degli incontri sovversivi, rafforzando la criminalizzazione e l'isolamento dei più ribelli e favorendo l'infiltrazione. L'interiorizzazione sociale di questi valori permette allo Stato di delegittimare e di reprimere facilmente, con l'appoggio di una società che magari si altera perché arriva tardi al lavoro a causa di uno sciopero. Questi «principi civici» sono posti al di sopra della solidarietà e del mutuo appoggio e questo, oltre a privarci di molte energie, ci rende ancora più miserabili.
Mettere in discussione i valori civici e cittadinisti significa aprire tutto un ventaglio di possibilità, significa uscire dai terreni controllati e inoffensivi. Ovvero mettere in discussione la legittimità dello Stato nella gestione dei conflitti, mettere in dubbio il valore assegnato alla merce, alla proprietà privata. Significa comprendere che la cosa peggiore non è lottare, ma restare a braccia incrociate e non ribellarsi contro ciò che ci mette con le spalle al muro e ci pone di fronte alla scelta fra una vita da schiavi potenzialmente infelici, ma senza grandi rischi, e la sfida di una incertezza motivante.
Un altro dei pilastri (che non hanno nulla di innocente) su cui poggia il civismo è la tolleranza.
 
Il dolce veleno della tolleranza
 
Nulla di più ingannevole, di più nocivo e dannoso della tolleranza, sia come concetto in quanto tale, che nella sua applicazione politica. Non solo serve da balsamo pacificatore al potere costituito, ma è l'idea di partenza, pur benevola, del rispetto e della vita in comune armoniosa, ad essere perversa.
Quando il comune mortale evoca la «tolleranza», si preoccupa di rispettare chi gli sta accanto, di «permettergli» di essere diverso o di vivere la propria vita entro certi limiti. Ma quando si dice tolleranza, si parla in realtà – in modo sottinteso e conciso – di rassegnazione.
Quelli che, pagati dal potere, si sforzano a spiegarci come vanno le cose, usano il concetto di «tolleranza logica» come idea benintenzionata di rispetto reciproco, di non ingerenza nella vita altrui. Tuttavia, sono altri i concetti che si nascondono dietro e la cui applicazione cementa il civismo, così come contribuisce a deteriorare ancor più la nostra vita. La «tolleranza politica» è applicata dal potere in un'abile manovra di manipolazione e d'indottrinamento, al fine di farci interiorizzare i valori di rassegnazione già citati. Nella società, tolleranza significa tollerare il padrone, ovvero consentirgli di commerciare, di speculare sulle tue spalle, di dirti cosa devi fare, quando, come, in quale quantità e a quale ritmo e infine, di sbatterti per strada quando gli fa comodo. Questo supponendo che tu faccia parte di quegli schiavi salariati felici che, in cambio del loro sudore, riceveranno qualche briciola alla fine del mese per comprare quanto hanno essi stessi prodotto. Nella società, tolleranza è anche sopportare, se nessuno vuole sfruttarti, di fare la coda durante il giorno per la disoccupazione o davanti alle bacheche degli annunci di impiego. Tolleranza è rassegnarti a permettere alla polizia di aprirti la testa le rare volte che esci a protestare (cioè a reclamare rimedi dagli stessi governanti che sono la causa dei tuoi mali) contro ciò che ti ostacola e ti opprime. Non è solo dar loro il permesso, ma per di più non reagire, con la giustificazione «che anche loro sono lavoratori con una famiglia da mantenere». Sì, certo, come le SS che bruciavano gli ebrei nei forni crematori, ricevevano anche loro degli ordini ed avevano famiglie da mantenere. Abbiamo quasi tutti una famiglia da mantenere.
È questa la tolleranza, accettare una vita di servitù, monotona e grigia, sporca e inquinata, mentre altre persone prosperano a nostre spese, ci sfruttano, ci discriminano, ci espellono, ci violentano, ci indottrinano, ci sottomettono, ci rinchiudono. 
No, non si tratta solo del politico col conto in Svizzera che aumenta le proprie entrate abbassando quelle degli altri, che fa dei tagli da buon amico di un banchiere speculatore. È tutto un sistema sociale, politico ed economico (con altre implicazioni ancora) che si materializza attraverso lo Stato (che, ricordiamolo, legifera, esegue, controlla, sorveglia, agisce, punisce, condanna, regola...) ed attraverso il capitalismo, questa espressione economica perversa di un modello di produzione e di riproduzione di beni e di rapporti sociali mercificati. E una delle cose di cui lo Stato dispone per conservare la pace sociale necessaria alla perpetuazione dell'ordine e dell'attuale stato di cose è la tolleranza. Che consiste anche nel persuadere i suoi sudditi che occorre essere pazienti, mantenere la speranza, avere fiducia nel sistema che li salverà, mentre li condanna alla miseria, e nei suoi amministratori, gli stessi che li sfruttano e li opprimono, fra le altre cose grazie al civismo.
Un grande proprietario terreno ricco e corrotto, che aveva fatto la guerra per costituire la più grande forza mondiale di estorsione, sfruttamento ed oppressione (cioè gli Stati Uniti), ha detto chiaramente «siccome i governati hanno dalla loro la forza numerica, per farsi obbedire i governanti non hanno altra via che quella della persuasione» (James Madison, 1783). Ovviamente, ciò non vuol dire che le loro mani esiteranno al momento di usare la forza, ma sempre in maniera tollerante, civica, democratica e non violenta, poiché sono sempre gli altri ad essere i violenti. Come diceva quel pazzo saggio ed irriverente di Max Stirner, parafrasato dalla Polla Records in una brillante canzone, «quando è l'individuo ad usare la violenza contro lo Stato, si chiama violenza, ma quando è lo Stato ad usarla contro l'individuo, si chiama diritto».
 
[SubversionS, n. 3, settembre 2013]