Contropelo

Architettura e anarchia: una coppia male assortita?

Jean-Pierre Garnier
 
Secondo l'architetto Leon Battista Alberti, «è opportuno notare che la sicurezza, l'autorità, la gloria dello Stato dipendono in gran parte dall'opera dell'architetto». Da parte sua, l'architetto Renzo Piano sarebbe «caduto su una incisione che rappresentava un architetto dell'India antica: un uomo sedeva in mezzo alla casa, armato di una lunga canna con la quale indicava agli operai dove posare la loro pietra. Essere seduti e comandare i muratori, avevo trovato la mia vocazione».
Quale rapporto se non a priori antinomico possono intrattenere l'architettura e l'anarchia? In effetti è dir poco che l'architettura si è messa fin dalle sue origini al servizio dell'ordine, come testimoniato dall'edificazione di templi per onorare gli dei, di palazzi per proteggere i potenti o di monumenti per glorificare i tiranni. Simbolo dell'autorità, l'architettura lo è di sicuro. Ma non solo: essa è innanzitutto uno dei suoi strumenti, e non dei minori, poiché costituisce  un modo indispensabile del suo esercizio. «Più ancora che la rappresentazione ostentatrice del potere, l'architettura è al principio un'arte di comandare. Ogni potere si esercita architettonicamente» (Benoît Goetz). Del resto l'etimologia greca della parola lo attesta abbastanza: il prefisso arkhi esprime la preminenza, designando ciò che viene per primo nell'ordine sia cronologico che gerarchico. Detto altrimenti, l'inizio va di pari passo con il comando (arkhê).
La pratica dell'architettura stessa ne risente, più che mai segnata da elitarismo e autoritarismo. Sognare di «democratizzarla», come fecero studenti «contestatari» della disciplina una trentina di anni fa, è a questo proposito un non-senso. Preoccupati soprattutto di scuotere la tutela dei loro «grandi maestri», alcuni erano arrivati sino a richiamarsi al maoismo – o almeno a quello che se ne percepiva nei saloni o nelle sale dei seminari – per incitare l'architetto a «scendere dal suo piedistallo», a praticare il «ritorno alla base» per mettersi «all'ascolto delle masse». Non appena entrati nella professione, questi rivoluzionari del tavolo luminoso si affrettarono a ricollegarsi con la tradizione mandarinale. Il punto è che non avevano mai rotto con essa.
Può esistere allora, a proposito della creazione architetturale, un punto di vista anarchico che non sia puramente negativo, per non dire iconoclasta? L'architettura sarebbe votata per l'eternità solo a servire il Principe, anche quello che si richiamasse al popolo, come fu il caso nei paesi del socialismo realmente inesistente o ancora oggi in quelli dove si presume regni la «democrazia», se così si può dire? Per quanto magnifica possa essere, per quanto forte sia l'emozione estetica che procura, l'impronta che gli esseri umani lasciano sulla terra attraverso l'arte di costruire non  sarebbe in fin dei conti solo quella del dominio e della sottomissione? Eccezione che smentisce la regola, questa arte dovrebbe, vista la sua natura intrinsecamente autoritaria, sfuggire alla «rivoluzione totale» o «integrale» che costituisce l'orizzonte della lotta per l'emancipazione? Come rompere, in altri termini, il legame più che secolare che associa il potere dei luoghi ai luoghi del potere? E riuscire così a re-inscrivere il primo in ciò di cui la maggioranza degli esseri umani sono stati spossessati dai secondi: la loro capacità di auto-istruirsi, individualmente o collettivamente, la loro relazione coll'abitare.
 
Le false finestre dell'autocostruzione
Esistono diversi modi di considerare questa relazione in cui gli abitanti potrebbero dare libero corso, nel loro rapporto con l'habitat, alle loro facoltà inventive e creatrici. Il primo che salta in mente è evidentemente l'autocostruzione. Numerosi scritti sono già stati consacrati a ciò, ma questo tipo di risposta e le esperienze cui si ispira o che ispira non rispondono esattamente alla problematica sopra enunciata.
Posta il più delle volte sotto il segno dell'urgenza e della penuria, l'autocostruzione costituisce innanzitutto, ai giorni nostri, una soluzione di sopravvivenza corrente nei paesi in cui una grande parte della popolazione, vittima dell'oppressione dei regimi in carica, vegeta nella miseria e nell'abbandono. Senza dubbio l'habitat di fortuna che le serve da riparo, se non da residenza, è il frutto dell'«arrangiarsi», ovvero una inventiva dettata dalla necessità. Ma, salvo versare nel populismo esotico in cui si compiacciono certi antropologi affascinati dalla «cultura della povertà», non si potrebbe senza cinismo né demagogia scorgere nelle bidonville l'abbozzo di un modello alternativo della creazione architetturale. Nel migliore dei casi, come fanno gli esperti in sviluppo, «durevole» o meno, si potrà al massimo pescarvi qualche idea (scelta di materiali non costosi, uso dei saper-fare locali, conformità della sistemazione degli spazi ai modi di vita, ecc.) suscettibile di migliorare l'ordinario.
Nei paesi del capitalismo avanzato, l'autocostruzione ha potuto ugualmente essere considerata come il nec plus ultra di un «habitat autogestito». Non ne consegue tuttavia che la creatività in materia architetturale sia sempre presente. Nonostante gli assidui sforzi di qualche ricercatore di scienze sociali per rivelare la «ricchezza di significati» delle abitazioni costruite dai loro proprietari o sotto il loro controllo diretto, a predominare sono la mediocrità e la banalità estetica. Il saper-fare costruttivo di cui possono dare prova i «costruttori della domenica» non potrebbe infatti essere confuso con una qualsivoglia inventività estetica. Così le abitazioni individuali edificate dai lavoratori immigrati portoghesi, spagnoli o greci per le loro famiglie, ad esempio, nella prospettiva del loro ritorno al paese, pasticciano sia il paesaggio della loro regione di origine che le lottizzazioni e altri «nuovi villaggi» che proliferano alla periferia delle città dei paesi di accoglienza. Il fatto è che la «competenza» pratica e linguistica del «pavillonnaire», eletto da certi sociologi in «occupante attivo» del suo alloggio, non ne fanno per questo un creatore. Allo stesso modo, l'ingegnosità di cui può dare prova nel «fare da sé» l'interno del suo alloggio o nel sistemare il giardino circostante rimane per lo più prigioniera degli stereotipi pescati fra i «modelli-tipo» delle case prefabbricate vendute «chiavi-in-mano» sui cataloghi. Non tutti sono il Fattore Cheval!
All'opposto di questo habitat autocostruito dove la diversità va di pari passo con la ripetitività, esistono dei prototipi di alloggi «innovativi», ad un titolo o ad un altro, case individuali o piccoli immobili collettivi, concepiti e talvolta realizzati dai loro proprietari, con spesso il concorso di amici architetti, urbanisti, ingegneri o designer. Esperienze senza alcun dubbio arricchenti, ma alla sola portata dii una minoranza di persone agiate desiderose di provare che si potrebbe «vivere altrimenti» in un mondo globalmente immutato. Stesso discorso per le «baracche risistemate» dai loro acquirenti per essere convertite in residenze secondarie nelle zone rurali minacciate dalla desertificazione. E che dire dei «loft» sistemati con grosse spese dai loro ricchi occupanti nei laboratori o nei magazzini in disuso ereditati dalla deindustrializzazione?
Forse si obietterà che, prima di essere investiti dai riccastri, i «maggesi urbani» erano inizialmente serviti da terra di accoglienza per «marginali» più o meno squattrinati, allergici al diritto di proprietà e alla mercificazione generalizzata dello spazio urbano. Luoghi di sperimentazione sociale e al tempo stesso di modi di sopravvivere, succede che gli squat, soprattutto quando sono trasformati in «spazi culturali» da artisti, siano l'occasione per dei non-professionisti di impiegare talenti di architetti che sarebbero rimasti allo stato di virtualità in altre situazioni residenziali. Il più delle volte, tuttavia, le sistemazioni apportate sono fra le più sommarie. Effettuate per di più con mezzi limitati, costringono gli squatter a vivere in condizioni precarie di comodità e di igiene dove l'inventiva e la creatività architetturale non potrebbero trovare posto.
Ritenuto in grado di «rompere con l'urbanizzazione capitalista», il recupero inventivo degli interstizi di un tessuto urbano degradato non ha tardato ad ispirare istituzioni locali e promotori alla ricerca anch'essi di una alternativa ad un «rinnovamento» divenuto impopolare e soprattutto alla lunga invendibile, per via delle devastazioni estetiche ed ecologiche che aveva comportato. Un nuovo modello di «riconquista urbana» ne ha preso perciò il posto: la «riabilitazione» dei vecchi quartieri popolari e la loro «gentrificazione», ovvero la loro occupazione progressiva, se non progressista, da parte di individui danarosi e alla moda, affascinati dal non-conformismo etichettato. In questo caso l'autocostruzione non ha presa. Ormai si fa appello agli architetti specializzati per «reinventare» la città.
 
L'impasse della «partecipazione»
Sulla scia dello slancio liberatore del maggio 68, si è rapidamente accumulata tutta una letteratura attorno alla tematica del «diritto alla città», teorizzato dal sociologo Henri Lefebvre e popolarizzato da una piccola borghesia intellettuale radicalizzata che discerneva allora nel «campo urbano» sull'apertura di un «nuovo fronte» contro il dominio borghese. Le «lotte urbane» condotte a quell'epoca contro i progetti di sistemazione della tecnocrazia o le operazioni immobiliari dei «mercanti della città» sembravano accreditare la fondatezza di questa visione. Organizzati in comitati di utenti, consigli di residenti e altre associazioni di territorio, sostenuti da militanti che auspicavano una estensione o uno spostamento della «contestazione» dal campo del lavoro verso lo spazio urbano, numerosi cittadini facevano valere la loro volontà di intervenire direttamente nell'ambito fino a quel momento riservato all'urbanesimo e all'architettura.
Preso a prestito dai situazionisti agli architetti futuristi dell'Urss pre-staliniana prima di essere convertito in jingle elettorale dai «comunicatori» del Partito Socialista, lo slogan «cambiare la città per cambiare la vita» aprirà la via a una irruzione di proposizioni per far «partecipare» gli abitanti al «miglioramento del loro ambito di vita». Si arriverà persino a preconizzare «l'autogestione» di quest'ultimo, in nome di un approfondimento giudicato indispensabile della «democrazia locale». Presi in questo flusso ideologico, alcuni architetti parlarono di «associare gli utenti» alla definizione e alla messa in opera dei progetti urbani, i più radicali non esitarono a riprendere per loro conto la parola d'ordine lanciata dal loro confratello egiziano Hassan Fathy in ben altro contesto: «costruire con il popolo».
Beninteso, questi proclami restarono, se non senza domani, almeno senza conseguenze visibili sulla condivisione di ruoli fra, da una parte, i produttori dello spazio urbano, ovvero i decisori e gli ideatori, i soli abilitati a determinare, fra gli altri, quali forme dovesse rivestire la città nell'avvenire e, dall'altra parte, i consumatori, ovvero i comuni abitanti, invitati da una «critica» architetturale servile non solo ad accettare, ma ad approvare cioè ad applaudire le «grandi opere» realizzate senza il loro avallo.
Certo, nelle alte sfere ci si è preoccupati di conoscere un po' meglio gusti e disgusti del popolo, tramutato nel frattempo in «pubblico», in materia di urbanesimo e architettura. Una muta di ricercatori viene regolarmente distaccata «sul terreno» per captare i suoi «bisogni», studiare le sue «pratiche», speculare sulle sue «rappresentazioni». Inoltre, lo sviluppo delle «nuove tecnologie di comunicazione», utilizzate soprattutto all'occorrenza come tecniche audiovisive informatizzate di manipolazione, ha permesso agli eletti locali di mettere a punto procedure di «concertazione» sempre più sofisticate per fare del cittadino un «attore a pieno titolo della Città». Tuttavia, quando si chiede il suo parere, sarà raramente su progetti urbani un tantino importanti e suscettibili di modificare notevolmente il suo ambiente, ma piuttosto su questioni essenziali quanto la sistemazione di un campo da bocce, l'altezza dei bordi del marciapiede o la segnaletica di un incrocio con diritto di precedenza. Ad ogni modo, se ha voce in capitolo, questa è solo «consultativa»!
A dispetto degli sforzi impiegati dalle autorità e dai loro collegamenti mediatici per far credere il contrario, il «diritto allo sguardo» concesso al cittadino sulla qualità del paesaggio urbano non ha fatto che confermarlo e confinarlo nella condizione che è sempre stata sua: quella di spettatore. Oggi come ieri, l'arte di costruire resta appannaggio dei Principi, che siano manager «globali», governanti nazionali o potentati locali, assecondati da architetti di fama di cui si sono comprati i servigi.
Puro prodotto della separazione e della frammentazione della prassi umana sotto l'effetto della divisione capitalista del lavoro, la creazione architettonica passa a giusto titolo per una attività altamente specializzata riservata a una minoranza, per non dire una élite. Solo individui provvisti della formazione, delle conoscenze e delle attitudini adeguate possono oggi pretendere di forgiare l'ambiente costruito dove i loro simili sono chiamati a vivere. Bisogna allora decidersi ad ammettere che l'ipotesi di partenza, formulata da André Bernard e Philippe Garnier, secondo cui «il potere d'innovare, di inventare è al cuore dell'uomo, di ogni uomo, come potenzialità» non potrebbe applicarsi alla produzione architettonica e, più estesamente, a quella dello spazio abitato, se si eccettuano le sistemazioni di dettagli domiciliari sopra evocati? Ammettere che, alla fine, la complessità raggiunta oggi dalla attività costruttrice rende illusoria ogni speranza di riappropriazione popolare in questo ambito? Oppure non sarebbe piuttosto, come ogni volta che viene sbandierata la «complessità», un alibi per rendere impensabile l'idea stessa di una tale riappropriazione?
 
[autunno 2004, inverno 2009]