Contropelo

Bonnot e gli evangelisti

I reduci hanno sempre perseguitato i movimenti sociali. Reduci da battaglie considerate perdute, reduci da ideologie decomposte, reduci da utopie irrealizzate, tristi figuri che presentano la propria sconfitta personale come se si trattasse di una sconfitta storica allo scopo di trovare qualche pubblica giustificazione alla propria miseria umana. Per i reduci, si sa, finita la vita bisogna pensare a come affrontare la sopravvivenza ed alcuni di loro non riescono a resistere alla tentazione di darsi alla letteratura. Se le proprie esperienze e conoscenze non sono servite ieri a fare la rivoluzione, che almeno servano oggi per tirare a campare!

Una di queste brave persone è Valerio Evangelisti, noto autore di fantascienza, il creatore del personaggio di Eymerich l’Inquisitore. Non solo. Ha curato il “Progetto Memoria - La Comune”, è stato presidente dell’Archivio Storico della Nuova Sinistra “Marco Pezzi” di Bologna, è collaboratore di “Le Monde Diplomatique” nonché direttore editoriale della rivista “Carmilla” («letteratura, immaginario e cultura di opposizione»). È un po’ il tarlo di tutti questi scrittori con pruriti radicali, quello di cercare di coniugare profitto e militanza. A onor di verità, bisogna però riconoscergli un innegabile salto di qualità. A differenza di chi è andato all’assalto della classifiche di vendita dopo aver rinunciato ad andare all’assalto del cielo, Evangelisti ha dovuto solo rinunciare ad una carriera accademica alternata al lavoro di funzionario del ministero delle Finanze.
Come il collega Pino Cacucci, ex anarchico rivoluzionario, Evangelisti è nato in quel capoluogo emiliano che possiede l’ignobile primato d’aver sfornato intere generazioni di recuperatori “creativi” (da Bifo a Luther Blisset, passando per Helena Velena). Come Cacucci, si è occupato degli anarchici illegalisti francesi del primo Novecento conosciuti come “banda Bonnot”. Il primo ci ha scritto sopra un romanzo che poco tempo fa si poteva anche trovare sugli scaffali dei supermercati, dopo il pane ma un po’ prima della carta igienica; il secondo ha dedicato loro un saggio comparso su un’antologia che vuol rendere omaggio al personaggio letterario creato dalla fantasia di Marcel Allain e Pierre Souvestre, Fantômas il Re del Terrore. E “Fantômas e gli illegalisti” (www.carmillaonline.com/archives/2004/10/001037.html) è il titolo di questo saggio che costituisce un notevole esempio della passione di Evangelisti: unire narrativa fantastica e critica politica. Bisogna dire che qui la narrativa fantastica, evocata da Fantômas, è quanto mai un pretesto per dare libero sfogo alla critica politica degli anarchici illegalisti. Dei sei paragrafi che costituiscono questo testo solo il primo è dedicato al personaggio di Allain e Souvestre, i rimanenti danno corpo agli incubi di questo sinistro militante di fronte a una rivolta anarchica che non si decide a rimanere soffocata per sempre dalla polvere degli archivi.
La tesi di Evangelisti è presto riassunta. Fantômas, criminale capace di commettere ogni efferato delitto ai danni di chiunque, è stato creato in Francia nei primi del Novecento; i suoi ispiratori sono stati gli anarchici illegalisti che in quel periodo riempivano le cronache di «crimini, talora gratuiti» commessi per appagare il proprio sfrenato individualismo estraneo ad ogni contesto di lotta sociale; questo illegalismo aveva conosciuto una prima generazione in cui gli episodi di violenza brutale erano stati limitati (Ravachol e Henry) e comunque pur sempre legati ad una prospettiva di classe, ma poi aveva subìto una degenerazione che lo aveva portato a propugnare la violenza indifferenziata contro gli stessi sfruttati, come testimoniato in teoria dagli scritti di Libertad ed in pratica dalle azioni della “banda Bonnot”; le idee illegaliste rimasero completamente circoscritte in un ambito marginale del movimento anarchico, non trovando riscontro presso gli altri nemici dello Stato dove «il processo rivoluzionario è costantemente concepito quale azione di massa, anche se il compito di innescarlo può essere attribuito a ristrette avanguardie». Questa cieca esaltazione della violenza in nome di un Individuo attento solo al comodo suo è in realtà affine alla peggior ragione di Stato, poiché «sarà proprio la borghesia fattasi Stato a inaugurare l’età contemporanea con il macello più ampio e indiscriminato visto fino a quel momento. Sarà lei a incarnare collettivamente l’ideale illegalista, tanto nell’odio verso i deboli che nella rivendicazione di un’assoluta libertà dai vincoli morali». La conclusione è indimenticabile: «da ideologia minoritaria, l’illegalismo si fa pensiero dominante, con tutto il sangue che ciò comporta».
Non si può dire che le argomentazioni di Evangelisti siano molto originali: non fanno altro che ripetere gli anatemi più volte piovuti sugli anarchici illegalisti, anatemi scagliati sia dagli anarchici più codini sia dai marxisti di ogni pelo, altezzosi intellettuali ostili al “lumpenproletariat”. Tutti questi fieri nemici dell’individuo e leali amici del popolo, da quasi un secolo si dannano per diffondere l’immagine di un Bonnot alter ego del feroce borghese (un po’ come in ambito filosofico c’è chi ha cercato di presentare Sade come alter ego del feroce nazista). Come se un individuo in rivolta contro la società potesse mai avere qualcosa in comune con un uomo di Stato ubriaco di potere.
Come se quegli anarchici del passato (ma nelle segrete intenzioni dell’autore il rimando è ad alcuni anarchici del presente) fossero una manica di pazzi furiosi, assetati di sangue, aspiranti stragisti. A questa menzogna è forse ora di opporre qualcos’altro che non sia il silenzio dell’indifferenza o le risate di ilarità. Il testo di Evangelisti — una piccola antologia di errori, contraddizioni, calunnie, il tutto condito da spassosi abbagli — fornisce un’ottima occasione per farlo.
 
Abbasso il lavoro!
È stato fatto più volte notare che i peggiori nemici della storia spesso sono proprio gli storici. A differenza di chi fa la storia, essi si limitano a raccontarla. Il loro oggetto di studio — l’avventurosa vita altrui — può talvolta diventare uno specchio in cui vedere riflessa l’insulsaggine della propria esistenza. Uno specchio da infrangere, tanto la sua vista è insopportabile.
Consapevoli del loro ruolo passivo, di mera contemplazione, essi si vendicano di chi ha vissuto in prima persona ed ha agito direttamente. Non stupisce quindi che Evangelisti, questo laureato in storia, questo prolifico autore di saggi a carattere storico, questo direttore di un archivio storico, mistifichi la storia di quei lontani anarchici. Già non si capisce bene cosa c’entri Emile Henry con l’illegalismo, se con questo termine ci si riferisce a quell’insieme di pratiche extralegali volte ad ottenere denaro: furti, rapine, truffe, contraffazione di falsa moneta. A spingere gli anarchici verso l’illegalismo non era e non è il delirio di onnipotenza o l’abiezione morale, quanto il rifiuto del lavoro salariato.
Il peggior ricatto cui ci sottopone la società è quello di scegliere fra lavorare o morire di fame. Nel lavoro, nella ricerca del lavoro, nel riposo dal lavoro, se ne va tutta la nostra vita. Quanti sogni infranti, quante passioni avvizzite, quante speranze deluse, quanti desideri insoddisfatti nella terribile condanna quotidiana del lavoro che è sempre stato il più feroce degli ergastoli.
Alcuni anarchici, anziché piegare la testa e la schiena per il proprio salario e l’altrui profitto, hanno preferito procurarsi in altra maniera i soldi necessari per vivere. Una scelta, la loro, condivisa e praticata da molti altri proletari. Il benpensante Evangelisti si guarda bene dal ricordare che all’epoca c’era una intera Parigi che viveva di espedienti, ad esempio la maggior parte della popolazione proletaria di Montmartre. Come verrà ricordato successivamente da Victor Serge: «Uno dei caratteri particolari della Parigi operaia di quel tempo, era che si trovava a contatto in vaste zone con la teppa, cioè col vasto mondo degli irregolari, dei decaduti, dei miserabili, col mondo equivoco: c’erano poche differenze essenziali tra il giovane operaio o artigiano dei vecchi quartieri del centro e il magnaccia dei vicoli vicini alle Halles. L’autista e il meccanico un po’ svelti rubacchiavano di regola tutto quello che potevano al padrone, per spirito di classe e perché “liberi” da pregiudizi…». Di fatto c’erano quartieri a Parigi più o meno “a rischio”, principalmente la periferia settentrionale della città (Pantin, St-Ouen, Aubervilliers e Clichy), in cui risiedevano molti ladri e borseggiatori professionisti, truffatori e falsari, così come migliaia di proletarie costrette occasionalmente a prostituirsi al fine di sbarcare il lunario. I proletari parigini, se non facevano parte di quel «mondo equivoco», ne erano di solito simpatizzanti e naturalmente erano ostili alla polizia, e nient’affatto contrari a compiere in prima persona piccoli furti.
Subito dopo la prima rapina compiuta da Bonnot e dai suoi compagni, un giornale francese dichiarò che la polizia parigina necessitava di rinforzi poiché doveva fare i conti con 200.000 fuorilegge (su una popolazione di tre milioni di persone). Se molti proletari accolsero le tesi anarchiche sulla «ripresa individuale» molto meglio di quanto accolsero la morale di un Jean Grave (o di un Valerio Evangelisti), se simpatizzarono con personaggi come Jacob o Bonnot, è perché capivano da dove provenivano.
Eppure Evangelisti sostiene che negli anarchici illegalisti il rifiuto del lavoro salariato era diventato disprezzo per i lavoratori, trasformando le vittime del sistema capitalista in suoi complici. Sicché alla divisione di classe fra sfruttatori e sfruttati, gli illegalisti avrebbero sostituito quella fra complici dello sfruttamento e ribelli. Tutto il saggio di Evangelisti è una denuncia di questa «marcata semplificazione», di questa «grossolana abolizione di ogni sfumatura analitica», rea di portare all’«appannamento tanto delle prospettive strategiche della lotta quanto delle tattiche rivendicative di medio raggio». Insomma, Valerio Evangelisti ce lo assicura: le sue non sono le parole dell’ex funzionario del ministero delle Finanze che di fronte a questi anarchici sente un brivido correre lungo la schiena, bensì quelle del compagno uso a guardare il «quadro articolato di una società stratificata in classi» e preoccupato che ad esso non venga sostituito un «profilo semplificato». Per il bene della rivoluzione, inutile dirlo.
 
Illegalisti, non evangelisti
Il guaio del creatore di Eymerich è quello di tutti i grigi e sinistri militanti. Non capire che questi anarchici non avevano il tempo di attendere con pazienza l’arrivo della “grande sera”, cioè la rivoluzione delle masse che avrebbe risolto la questione sociale liberandoli dallo sfruttamento. Non avevano voglia di ascoltare la buona novella dei preti rossi, secondo cui la liberazione è inscritta nello stesso processo capitalista, costituendone il lieto fine. Non avevano fiducia nei leader che, dall’alto della loro saggezza, osservando, misurando, calcolando, giungevano all’immancabile conclusione che la rivoluzione si farà domani, mai oggi. Avevano fretta e voglia di vivere, non di sopravvivere, qui e in questo momento.
Il primo ad avere deriso con forza e continuità i rivoluzionari evangelisti in Francia fu Zo d’Axa, creatore del settimanale “L’Endehors” a cui collaboravano anche scrittori del calibro di Georges Darien, Lucien Descaves, Victor Barrucand, Félix Fénéon, Bernard Lazare, Saint-Pol Roux, Octave Mirbeau, Tristan Bernard, Emile Verhaeren e molti altri (e pensare che il povero Evangelisti, nella sua accademica ignoranza, liquida d’Axa come «divulgatore secondario»!): perseguitato dalla magistratura, incriminato per “associazione di malfattori”, d’Axa non decantava le virtù di futuri paradisi terrestri, ma prendeva a frustate i vizi dei presenti inferni sociali allo scopo di incitare i suoi lettori alla rivolta.
Dopo di lui, sarà la volta di Albert Libertad. Ma al contrario di Zo d’Axa, rimasto essenzialmente un solitario, Libertad fu capace di dare alla sua azione una forma costruttiva ed un impatto sociale, ampliando il respiro delle proprie idee. Lo stesso Evangelisti è costretto a riconoscere che il suo giornale «discretamente diffuso» riuscì a «conquistare consenso in taluni settori popolari». Collaboratore della stampa libertaria, attivo nell’agitazione pro-Dreyfus, nel 1902 Libertad fu fra i fondatori della Lega Antimilitarista e, assieme a Paraf-Javal, fondò le “Causeries populaires”, discussioni pubbliche che riscossero un grande interesse in tutto il paese, contribuendo all’apertura di una libreria e diversi locali in vari quartieri parigini. Sull’onda dell’entusiasmo suscitato da queste iniziative fondò tre anni dopo il settimanale “l’Anarchie”, che in occasione della ricorrenza del 14 luglio stampò e diffuse il manifesto “La Bastiglia dell’Autorità” in 100.000 copie. Oltre ad una febbrile attività contro l’ordine sociale, Libertad era solito organizzare anche feste, balli e gite campestri, conseguentemente alla sua visione dell’anarchismo come «gioia di vivere» e non come sacrificio militante e pulsione di morte, cercando di conciliare le esigenze dell’individuo (nel suo bisogno di autonomia) con la necessità di distruggere la società autoritaria. Libertad infatti superò la falsa dicotomia rivolta individuale/rivoluzione sociale, evidenziando che la prima è solo un momento della seconda, non certo la sua negazione: la rivolta non può che nascere dalla tensione individuale del singolo, la quale, per estendersi, può solo sfociare in un progetto sociale di liberazione. Per Libertad l’anarchismo non consiste nel vivere separati da ogni contesto sociale in qualche fredda torre d’avorio o in qualche isola felice comunitaria, né vivere sottomettendosi ai ruoli sociali procrastinando ad oltranza il momento in cui mettere in atto le proprie convinzioni, ma vivere qui ed ora come anarchici, senza concessioni, nella sola maniera possibile: rivoltandosi. Ed ecco che, in questa prospettiva, rivolta individuale e rivoluzione sociale non si escludono più a vicenda, ma si integrano. Questa concezione di vita esige una concordanza fra teoria e pratica che rende furiosi i vari evangelisti che pensano di poter essere rivoluzionari pur continuando ad essere impiegati di banca, docenti universitari, commercialisti, burocrati ministeriali o portaborse di grandi case editrici, lasciando a un meccanismo storico esterno il compito di trasformare la realtà. Come ebbe a dire lo stesso Libertad: «la nostra vita è un insulto per i deboli e i bugiardi che si vantano di un’idea che non mettono mai in pratica». Nelle sue memorie Victor Serge così ricorderà il fascino esercitato dalle idee di Libertad: «L’anarchismo ci prendeva per intero perché ci chiedeva tutto, ci offriva tutto: non c’era un solo angolo della vita che non rischiarasse, almeno così ci sembrava. Si poteva essere cattolici, protestanti, liberali, radicali, socialisti, anche sindacalisti senza nulla cambiare della propria vita, e per conseguenza della vita: bastava dopo tutto leggere il giornale corrispondente; a rigore frequentare il caffé degli uni o degli altri. Intessuto di contraddizioni, dilaniato in tendenze e sottotendenze, l’anarchismo esigeva anzitutto l’accordo tra gli atti e le parole...».
 
Senza servi niente padroni
Secondo gli evangelisti, sono i padroni a creare i servi. Solo quando scomparirà chi comanda, scomparirà anche chi obbedisce. Ma finché esistono i padroni, ai servi non resta che continuare a piegare la testa e attendere con pazienza la loro morte. Per gli illegalisti, al contrario, sono anche i servi a creare i padroni. Se i primi smettessero di obbedire, i secondi scomparirebbero all’istante. Ecco perché solitamente gli illegalisti tendono a lasciar perdere il tono persuasivo tanto amato dagli evangelisti, non intendendo convertire gli sfruttati, bensì eccitarli, scatenarli, aizzarli contro il vecchio mondo.
A prima vista sembra quasi una differenza di sfumatura, ma di fatto si tratta di due prospettive opposte che comportano una consequenzialità pratica del tutto diversa. 
Quando un evangelista maledice il padrone ed elogia il servo, non fa altro che criticare l’operato del primo e salutare la resistenza alla frusta del secondo. Il padrone è cattivo perché opprime, il servo è buono perché sopporta. E poiché gli evangelisti negano la singola rivolta dei servi, a cui è concesso ribellarsi solo collettivamente, tutti assieme nello stesso momento — un momento che viene rimandato all’infinito da chi non ama i «profili semplificati» — cosa ne consegue? Che i servi devono continuare ad essere buoni, cioè a sopportare, nella speranza che prima o poi...
Viceversa, quando l’illegalista maledice sia il padrone che il servo non lo fa per equiparare le loro responsabilità, ma per esortare il secondo a cambiare subito la propria vita, ad agire contro il primo, perché ritiene che sia sempre possibile fare qualcosa di concreto per liberarsi dal giogo. Perché comandare è indegno, è vero, ma lo è anche obbedire. Perché di fronte alla frusta non va acclamata la tolleranza, ma la rivolta. Non c’è nulla di ammirevole negli onesti lavoratori che si lasciano sfruttare o negli onesti elettori che si lasciano governare. Ammirevole è la capacità di ribellarsi, di disertare i ruoli sociali che vengono imposti per iniziare ad essere se stessi; una capacità che ha sempre la possibilità di esprimersi. Dietro il disprezzo delle parole di Libertad (e degli altri anarchici come lui) per quel che gli sfruttati si lasciano fare, c’è sempre la passione per quel che potrebbero fare. Si può condividere o meno un simile approccio alla «questione sociale», ma affermare che si tratta di una indicazione operativa contro gli sfruttati, di una teorizzazione della violenza cieca e indiscriminata, è un’aberrazione degna di un imbecille o una calunnia degna di un miserabile.
Evangelisti ha dimostrato di essere l’uno e l’altro, ad esempio quando equipara borghesi guerrafondai e anarchici illegalisti, dimenticando che se i primi nutrono «odio verso i deboli» i secondi nutrono odio verso i potenti. Lo stesso Evangelisti, dopo averlo arruolato fra gli illegalisti, ha dovuto ammettere che quando Emile Henry si era dichiarato a favore degli «atti di brutale rivolta», aveva anche specificato che il suo obiettivo erano solo i borghesi. Quanto alle sue vittime, il minimo che si possa dire è che agli occhi interessati degli evangelisti il loro sangue doveva essere più raccapricciante di quello versato dagli anarcosindacalisti spagnoli. Cosa hanno fatto poi di tanto diverso quei quindici compagni che nella primavera del 1923, a Barcellona, fecero irruzione nel Circolo dei Cacciatori, abituale ritrovo dei padroni più reazionari, e aprirono il fuoco sui presenti?
Ad ogni modo è soprattutto contro gli illegalisti francesi passati alla storia come “banda Bonnot” che Evangelisti lancia le sue scomuniche. Ora, a parte il fatto che la “banda Bonnot” in quanto tale non è mai esistita, essendo una pura invenzione giornalistica, chi erano mai questi anarchici?
Bonnot aveva fatto diversi mestieri e veniva spesso licenziato per via della sua insofferenza per i padroni. Garnier era un renitente alla leva, un operaio che aveva preso parte a numerosi scioperi, con precedenti per oltraggio e incitamento all’omicidio durante uno sciopero, e con la tessera del sindacato. Callemin aveva già avuto in precedenza alcune condanne per furto e per scontri con la polizia durante uno sciopero generale. Valet era un fabbro, sempre presente nelle manifestazioni. Dieudonné era un falegname e aveva preso parte a numerosi scioperi. Soudy era un garzone di drogheria, con precedenti per oltraggio, resistenza all’arresto e per aver distribuito volantini durante uno sciopero. De Boe era un tipografo che era stato imprigionato per via di alcuni articoli antimilitaristi. Carouy lavorava in un garage. Medge, anch’egli renitente, faceva il cuoco. Erano tutti semplici proletari, attivi nel movimento dell’epoca, che collaboravano in vario modo a pubblicazioni sovversive, frequentavano le sedi, partecipavano agli scontri con la polizia come quelli avvenuti in seguito alla Settimana Tragica o all’esecuzione di Liabeuf. Erano tutti compagni, schedati come agitatori e teste calde. Per questo motivo, trovare lavoro era per loro impresa ancora più ardua. Non c’è quindi nulla di sorprendente nel fatto che avessero deciso di fare ricorso alla ripresa individuale. Che talvolta alcuni di loro siano incappati in poco piacevoli “incidenti di percorso” è un fatto che in sé non copre di infamia una scelta individuale del tutto coerente con le idee anarchiche.
 
Le disavventure di uno storico
Lo storico Evangelisti non può fare a meno di salire in cattedra a dare lezioni. Leggendo il suo saggio si viene così istruiti su molte cose interessanti, sebbene spesso contraddittorie, talvolta del tutto assurde.
Già non si comprende cosa c’entri Fantômas con gli illegalisti. Primo: se «è l’omicidio, e non il furto, l’asse della sua azione criminale», al contrario è il furto l’asse dell’azione illegalista, essendo l’omicidio solo un imprevisto (evitabile o meno, questo è un altro problema) che talvolta si è verificato. Secondo: se gli «uomini di Bonnot» (sic!) sono «apparsi pochi mesi dopo» che Fantômas ha visto la luce, come diavolo fanno ad averlo ispirato? Chi sono quindi questi anarchici illegalisti che avrebbero riempito le cronache, «zeppe» dei loro misfatti, scatenando la fantasia di Allain e Souvestre?
Poi c’è il solito Max Stirner, bestia nera di tutti coloro che amano le masse popolari perché intenzionati a guidarle o addomesticarle. All’inizio viene definito «il riferimento d’obbligo» per Fantômas e quindi, a detta di Evangelisti, per gli stessi anarchici amanti del «crimine». Ma poi, poco dopo, ecco che «nemmeno Max Stirner è individuabile quale ispiratore degli illegalisti». E che dire delle idee illegaliste? Sono un «corpus teorico di spessore non trascurabile» oppure costituiscono un «limitato bagaglio teorico»?
Per fare terra bruciata attorno alle idee individualiste e illegaliste, Evangelisti non trova di meglio che appellarsi ai grandi nomi del movimento anarchico, rammentando che «nulla di analogo è reperibile in Proudhon, Bakunin, Kropotkin o nei coevi Malatesta e Reclus». Come dire che, dinnanzi ai padri fondatori, mica saranno davvero anarchici questi delinquenti! Eppure fu proprio Proudhon, decretando che la proprietà è un furto, a gettare le basi del concetto di ripresa individuale. E che dire dello scatenamento delle cattive passioni invocato da Bakunin? Kropotkin teorizzava sì la necessità di mettere semi sotto la neve, ma anche che «tutto è buono per noi quando non sia la legalità». Quanto al «coevo» Reclus, era lui a sostenere che «la codardia per eccellenza è il rispetto delle leggi» e ad esprimersi su Ravachol in questi termini: «ammiro il suo coraggio, la sua bontà, la sua grandezza d’animo… conosco pochi uomini che lo superino in nobiltà… è un eroe dalla magnanimità fuori dal comune» (mentre il nipote Paul asseriva che «nella società attuale il furto e il lavoro non sono sostanzialmente differenti. Io mi scaglio contro la pretesa che ci sia un modo onesto di guadagnarsi la vita, il lavoro; e uno disonesto, il furto o la truffa...»). Inoltre che senso ha prendersela tanto con Armand (fra l’altro, il più candido degli illegalisti) quando è noto che l’altro «coevo» Malatesta lo apprezzava al punto di domandarsi «perché mai l’Armand parla continuamente di “individualismo anarchico”, come un corpo di dottrina distinto mentre in generale non fa che esporre i principi comuni a tutti gli anarchici di qualsiasi tendenza»?
Come se non bastasse, il fantascrittore bolognese riesce addirittura a confondere l’anarchico Raymond Callemin con il situazionista Guy Debord! Eccolo insinuare: «non è forse un caso se nel 1912 il braccio destro di Jules Bonnot, Raymond-la-Science, esalta in un’ironica ballata un’altra impresa di Henry, l’attentato agli uffici della miniera di Carmaux, definendo poulets vulgaires le vittime civili del gesto». Qui lo storico Evangelisti ha preso una cantonata storica, dando il meglio di sé: 1) l’ironica ballata è stata scritta da Debord, che per celia si è firmato con il nome del «braccio destro» di Bonnot (certa gente non può fare a meno di ragionare in termini di gerarchie...); 2) poulets vulgaires significa sbirri volgari, ed il riferimento è al vigile urbano e al sotto-brigadiere morti nell’esplosione; 3) la sola vittima civile fu il fattorino dell’impresa che aveva aiutato gli sbirri a trasportare la bomba all’interno del commissariato.
Divertente è anche la contrapposizione sollevata da Evangelisti fra Libertad e Pouget. Anarchico illegalista il primo, anarcosindacalista il secondo, come stupirsi se le considerazioni di Pouget vengono definite «assai più equilibrate»? C’è da chiedersi se Evangelisti abbia mai letto il giornale di Pouget, “le Père Peinard”. Ecco cosa scriveva nel 1905 un contemporaneo a proposito di questo giornale anarchico, il più scurrile e con il maggior numero di lettori fra la classe lavoratrice: «Senza nessuno sfoggio di filosofia (il che non vuol dire che non ne abbia) ha giocato apertamente con gli appetiti, i pregiudizi ed i rancori del proletariato. Senza riserve o inganni, ha incitato al furto, alla contraffazione, al rifiuto di tasse e affitti, all’omicidio e all’incendio. Ha consigliato l’immediato assassinio di deputati, senatori, giudici, preti e ufficiali dell’esercito. Ha invitato gli operai disoccupati a prendere cibo per se stessi e le loro famiglie ovunque lo trovassero, a fornirsi di scarpe al negozio di scarpe quando la pioggia primaverile bagnava loro i piedi, ed a coprirsi al negozio di vestiti quando i venti invernali li pungevano. Ha invitato gli operai a mettere alla porta i loro datori di lavoro tirannici, e ad appropriarsi delle loro fabbriche; i braccianti ed i vignaioli ad impossessarsi delle fattorie e delle vigne, e trasformare i proprietari dei campi e delle vigne in fosfati fertilizzanti; i minatori ad impadronirsi delle miniere e ad offrire picconi agli azionisti nel caso in cui questi avessero mostrato disponibilità di lavorare come loro amici fraterni, altrimenti a scaricarli in pozzi inutilizzati; i coscritti ad emigrare piuttosto che fare il loro servizio militare, i soldati a disertare o a sparare agli ufficiali. Ha esaltato i bracconieri ed altri deliberati trasgressori della legge. Ha raccontato le gesta di antichi briganti e fuorilegge, e esortato i contemporanei a seguire il loro esempio». Ce ne fossero ancora oggi di anarcosindacalisti così equilibrati...
Quanto alla borghesia che avrebbe incarnato «l’ideale illegalista» al punto di scatenare la prima guerra mondiale, per avere un’idea dell’infamia di una simile ipotesi basti ricordare che in Francia gli anarchici interventisti non furono né gli illegalisti né gli individualisti, ma proprio gli anarchici bigotti alla Jean Grave.
Solo chi amava le masse al punto di seguirle e giustificarle in ogni bassezza accettò l’idea di sostenere la guerra. Furono i maggiori critici di Libertad e Bonnot a sostenere che un anarchico può essere un soldato, ma non un rapinatore. Eccola qua, la doppia morale evangelista.
 
Infine...
A quasi un secolo di distanza, la rivolta di quei lontani anarchici continua a bruciare. Mentre la servitù volontaria ha quasi raggiunto quota sei miliardi, mentre una catastrofe sociale, tecnologica e ambientale minaccia ogni giorno di più la mera sopravvivenza del genere umano, mentre da ogni parte si vedono ricchi rispettare la miseria dei poveri e poveri rispettare l’abbondanza dei ricchi, è incredibile che ci siano ancora pompieri che, in nome della rivoluzione ma per conto del proprio quieto vivere, accorrono a spegnere i focolai illegalisti. Potranno mai gli inviti alla calma da parte degli evangelisti della militanza fermare l’urgenza della guerra sociale?
 
 
[Machete, n. 1, gennaio 2008]