Macchianera

Tempo scaduto

 
Postfuturo
IntraMoenia, Napoli 2008
 

È inutile. Esiste un legname talmente duro da risultare refrattario all’azione di qualsiasi tarlo, anche il più mordace. Hai voglia a forarlo, per lungo o per largo. Nel vederlo ridotto così, bucherellato da tutte le parti, non scommetteremmo un centesimo sulla sua resistenza, e invece... Quel legno non si sfalda, non si sgretola, al massimo risuona in maniera un po’ sciocca.

Accade lo stesso alle celluline grigie di Pierluigi Sullo, direttore di Carta, nonché promotore di Attac Italia, nonché collaboratore de Il Manifesto e di Liberazione. Una vita spesa nel benemerito Corpo dei Pompieri della Rivolta — composto, per intenderci, da quelli che intessono lodi ai passamontagna messicani, alle vetrine sfondate statunitensi, ai fuochi francesi o agli assalti greci, ma che strillano alla provocazione e invocano il ripristino dell’ordine davanti a passamontagna, vetrine sfondate, fuochi ed assalti in terra italica. Una vita trascorsa a predicare che la protesta contro l’esistente è più che giustificata ma che non bisogna esagerare, che la rabbia è comprensibile ma a tutto c’è un limite. Una vita che è stata testimone del passaggio storico dalla ribellione generalizzata degli anni 70 all’obbedienza generalizzata del 2000, non senza registrare traumi. Ebbene, su tutto ciò Sullo ha da poco pubblicato un libro curioso, Postfuturo. Si tratta di una specie di epistola proveniente da un futuro lontano, successivo al futuro immediato che ci aspetta, in cui l’autore ripercorre gli ultimi decenni di storia mescolando sapientemente ricordi e analisi. Ed è qui, fin dalle prime pagine, che egli ci confida gli «autentici choc» ricevuti nel corso della sua vita, attraverso l’evocazione di «un tunnel scavato dal tarlo per due decenni nel duro legno dei miei luoghi comuni di sinistra» (24). Sapete cosa intaccava quel tarlo? La sua cieca fiducia nello Stato, in questa forma di organizzazione sociale che, benché di origine relativamente recente (così dice), viene percepita come eterna, oggettiva, irrinunciabile.

Figlio di un maresciallo di polizia nonché militante stalinista, in altri tempi Sullo considerava lo Stato «il padre violento che si cercava di far diventare più paterno» (15) e come «un bunker da espugnare, il forte là in cima, sulla collina, conquistato il quale saremmo stati noi in vantaggio» (13). Un quadretto idilliaco andato in frantumi. Dopo alcune avvisaglie, Sullo ha dovuto arrendersi definitivamente in via Tolemaide, a Genova, un pomeriggio del luglio 2001.

Postfuturo è il grido di dolore di un orfano dello Stato alle prese con la propria solitudine, fra struggente nostalgia per il passato, bisogno di protezione per il presente e un certo panico per il futuro. Il colpevole del dramma — quel gran bastardo! — è il Mercato senza regole. È il mercato, con la sua avidità, la sua grettezza, la sua sconfinata sete di profitto, ad aver gettato nel lutto Sullo ed i suoi compari di cordata (che, per farsi tanto coraggio e un po’ di pubblicità, non smette di citare e ringraziare). Prima dell’avvento del neo-liberismo, le cose erano chiare e tutto filava liscio: «Lo Stato esercitava sì la violenza, ma osservando — salvo le eccezioni causate dagli strappi che le sperimentazioni di una società senza Stato produce — un sistema di regole e di mediazioni (la politica). E allo stesso tempo era il dispensatore di sanità pubblica e gratuita, di istruzione a basso costo, di altri cuscinetti che attutivano l’urto tra la vita e il mercato» (13), un mercato la cui economia poteva vantare un «ciclo virtuoso per cui a maggior produzione corrispondevano maggiori salari e a questi maggiori consumi, oltre che maggiore gettito fiscale, e quindi maggiori disponibilità per lo Stato» (55). A vegliare sul ciclo virtuoso dello sfruttamento ci pensava poi il grande battaglione degli intellettuali di sinistra, con la loro «narrazione» che esaltava al tempo stesso la santità del Lavoro e l’obbedienza al Partito. Il povero Sullo ancora non si capacita che questa propaganda infame sia giunta alla fine: «L’agonia della sinistra ha prodotto un effetto collaterale — tra altri — assai grave: il crollo delle istituzioni culturali che l’avevano accompagnata per decenni... la dispersione dei plotoni di docenti, scienziati, letterati, cineasti ecc» (105).

Quanto a quei “sedicenti” rivoluzionari che prendevano le armi contro lo Stato, il direttore di Carta non ha dubbi: costoro erano solo «mostri che aspettano agli angoli delle strade, nelle ore più mattutine, i “nemici di classe”, per abbatterli a colpi di pistola o di mitraglietta» (16). Si tratta di compagni, è vero, ma di cui vergognarsi e da cancellare dalla memoria e dagli album di famiglia.

Così andava il mondo quando le cose possedevano ancora un senso, prima dell’avvento del totalitarismo teledemocratico. Ma oggi? Oggi è una merda, in cui nulla è più come prima! E lamenta che non ci troviamo più in «una società organizzata per configgere in modo non distruttivo, tra classi e gruppi sociali, con lo Stato a fare da sublimazione — risoluzione, moderazione — degli scontri sociali» (27), perché ormai «Sono Stati Ogm, quelli con cui abbiamo a che fare... è questo dominio incontrollato di entità meta-nazionali e meta-politiche come “i mercati” o “gli alleati” ad erodere il significato stesso dello Stato. Che è nato, in due secoli di atti di violenza, come la possibilità per le comunità nazionali di trovare un loro punto di equilibrio, simboleggiato dalla moneta nazionale e dal parlamento, tra contrasti e scontri di classe, in nome di un bene comune denominato “progresso”» (28); oppure maledice il momento in cui «la politica si è tramutata nella aspirazione, e nell’obbligo, ad accompagnare e favorire i flussi di capitale, dovunque l’erratica ricerca di remunerazione li spinga: non è più la proposta al popolo, all’elettorato, di un futuro comune auspicabile a cui i capitali dovrebbero contribuire, nel rispetto di regole certe» (28).

Deluso da una democrazia trasformatasi in dispotismo e sconvolto da questi imprenditori e politici contemporanei che pensano solo (incredibile ma vero!) ad accumulare denaro e potere, Sullo deve riconoscere a malincuore che «noi non siamo lo Stato. Sappiamo che una nuova architettura del vivere sociale dovrà fare a meno del padre burbero o bonario...» (32). Ora che «Tutti percepiscono quanto questo tipo di civilizzazione e di economia abbia raggiunto il capolinea» (48) e «visto che lo Stato non esiste più (nel senso che si diceva), cos’altro potremmo inventarci?» (35). Si tratta di una domanda interessante, anche alla luce di alcune considerazioni iniziali. Nell’evocare celebri momenti di rottura con l’esistente, Sullo osserva che «Sono le parentesi, incise nella memoria collettiva da un bisturi affilato e doloroso, che hanno dato senso a tutti i movimenti sociali, operai e non. Erano gli istanti in cui lo Stato scompariva e si intravedeva il profilo di un altro modo di vivere in società. Ma tra uno strappo e l’altro del continuum spazio-temporale dominato dal capitale, lo Stato esisteva, se non altro come ingombro o nemico» (13).

Quindi, se è nei momenti in cui lo Stato scompare che una forma di vita altra può comparire, se lo Stato è ingombro o nemico, se lo Stato è oggi pura violenza al servizio del Mercato, non ne consegue che si tratta di abbandonare definitivamente ogni velleità sulle sue virtù? Non bisognerebbe disertarlo in ogni sua manifestazione, sabotarlo, attaccarlo, al fine di accelerarne la scomparsa? Non dovremmo spegnere per sempre la fiducia e la delega nei suoi confronti? Una volta ammesso che «il potere ha le sue regole, dice bruscamente il subcomandante Marcos, cui devi adeguarti necessariamente, perciò ti digerisce e ti trasforma in merda» (32) — concetto che in bocca a qualsiasi anarchico verrebbe liquidato come trivialità qualunquista, ma che in bocca all’idolo mascherato dei radical-chic diventa geniale trovata da citare — non sarebbe ora di smetterla di andare al suo inseguimento con l’intento, se non più di conquistarlo, almeno di migliorarlo, correggerlo, stimolarlo, consigliarlo? Se non l’odio (per carità, quello lasciamolo ai “mostri”), non sarebbe auspicabile una limpida estraneità nei confronti di chi ovunque sfrutta, inquina, devasta, massacra, bombarda?

Macchè! Si tratta di domande ingenue che non tengono conto né del duro legno degli inamovibili luoghi comuni della sinistra, né di quel «horror vacui, il riflesso di paura paralizzante che ci assale sull’orlo di un precipizio» di cui il direttore di Carta ammette di patire (33). Il suo orizzonte limitato non sa spingersi oltre i confini dello Stato, fuori dal quale intravede solo la giungla del caos con le sue belve feroci. Così la sua domanda, la «domanda fondamentale, o almeno una delle due o tre domande fondamentali, che si dovrebbe porre chi vede la necessità di sovvertire l’ordine esistente», non può che essere: «che tipo di potere o di Stato, dopo?» (34). Il tarlo ha lavorato inutilmente: c’è gente che senza padri-padroni non ci sa proprio stare. Si capisce quindi perché va alla ricerca di una nuova politica, di una nuova economia, di un nuovo Stato, che percepisce nelle forme embrionali di auto-organizzazione che si vanno diffondendo in tutto il paese per contrastare i progetti nocivi dello Stato o le sue carenze funzionali. Dalla Val Susa a Vicenza, da Venezia a Messina, passando per Chiaiano, è tutto un brulicare di comitati e presidi che gli ridanno fiducia e speranza nell’avvenire: «I cittadini che formano in modo esitante, ancora venato di passato, i loro “municipi autonomi” stanno in verità accennando alla costituzione di un contesto nuovo di decisione, un altro spazio pubblico. La loro è una azione costituente. Stanno ridando senso alla parola “Stato”... » (118), e ancora: «Riportare la politica al suo grado zero, alla semplice e potente parola “cittadino”, non è solo una terapia per la malattia mortale che ha colpito lo Stato, ma è la sola occasione che abbiamo di non vivere in un mondo distrutto dallo “sviluppo”» (38).

Con il nobile scopo di guarire lo Stato dalla sua malattia mortale, Sullo propone di iniettare nel malato alcune dosi di auto-organizzazione: «Il presidio può, a determinate condizioni, come è avvenuto a Vicenza, proporsi di partecipare alle elezioni locali, sia da solo che aggregando partiti di sinistra che stiano ai patti e altre associazioni, ma sottoponendo la scelta a un dibattito che non termina finché i contrari non ammettono che sì, si può tentare (dunque decidendo per consenso), e chiarendo a se stessi e a tutti che non si tratta di eleggere un rappresentante, di delegare qualcosa a qualcuno, ma di mettere un piede dentro l’istituzione locale per farvi pressione, aumentare la capacità di sapere le cose, interloquire con i “decisori” dei partiti e delle amministrazioni, e di esercitare un diritto permanente di tribuna, cioè di far valere la propria parola. Ovunque si sia organizzata a questa maniera una “lista”, si è ottenuto un successo, magari l’elezione di un solo consigliere comunale» (115). E se qualcuno pensa che incitare i nuovi movimenti a «penetrare negli enti locali, e magari di prenderne possesso per farne una linea di resistenza dal basso» (116) sia poco conciliabile con l’idea altrove espressa secondo cui «Spingere questi movimenti alla mediazione “politica”, credere di poter modificare il corso delle cose attraverso la rappresentanza, è un nonsense» (64), si sbaglia di grosso: infatti ciò «non toglie che tattiche dilatatorie e sfruttamento della residua ipocrisia attorno al ruolo “pubblico” del sistema politico siano da utilizzare il più possibile, perché alla fine bisogna sopravvivere» (64). Se non bisogna inginocchiarsi davanti al padre che dà la vita, bisognerà comunque inginocchiarsi davanti al nemico che concede la sopravvivenza. Ma mica per fedeltà — no davvero! — solo per tattica.

Vien quasi voglia di battere sulla spalla al direttore di Carta per chiedergli: ma ci sei o ci fai? Come si fa a salutare la Comune di Parigi, la rivoluzione russa o quella messicana come illustri precedenti storici di auto-organizzazione, omettendo che quelle esperienze furono possibili solo grazie a contesti insurrezionali in cui si maneggiava ben altro dei tomini e delle insalate? Come si fa a identificare nell’assenza di Stato la condizione per ogni autentica sperimentazione sociale in libertà, per poi auspicarne la rinascita e ricostituzione? Come si fa a constatare con disappunto «la fatica delle enclaves di libertà a costituirsi in arcipelago» nonché «la lentezza del sistema politico a consumare il suo definitivo discredito» (54) senza venire sfiorati dal sospetto che quella fatica è dovuta proprio all’ingombrante presenza dello Stato, e quella lentezza è data proprio dall’ossigeno sparato nella moribonda istituzione statale dai suoi terapeuti cittadinisti? Come si fa a pensare davvero che «sono le parole scandalose, come appunto decrescita, o nonviolenza, quelle che hanno l’opportunità di incrinare la crosta dell’ideologia ufficiale» (46), senza avvedersi che un equilibrato sfruttamento delle risorse e l’introiezione da parte degli oppressi della non violenza portano solo ad un capitalismo dal volto umano che si vede legittimato nel suo preteso monopolio della violenza? Come si può osservare e criticare «la generale tendenza, di movimenti e gruppi locali e tematici, ad avere un atteggiamento lamentoso, talvolta ferocemente lamentoso, nei confronti dei media liberisti, accusati di non svolgere il loro ruolo (lo stesso vale per partiti e istituzioni): che è una attitudine utile, o lo sarebbe, se fosse accompagnata dalla consapevolezza del muro che separa il “basso” dall’“alto” e non fosse invece, come troppo spesso è, l’effetto della nostalgia per il (mitico) passato» (93), senza accorgersi che tutto il proprio argomentare è in preda a questa medesima stupida nostalgia?

Postfuturo farà strage di cuori fra la sinistra alternativa, fra coloro che desiderano merci senza logo, polizia senza manganelli, denaro senza speculazione, bistecche senza sangue, rivoluzioni senza insurrezioni. Anime belle dall’attitudine compromissoria ed eclettica, Sullo & C. propongono una strategia di minimizzazione del negativo. Se adorano fare il censimento del conflitto, è per meglio addomesticarlo. Le loro critiche più radicali all’ordine sociale sono solo rimproveri tristi. Non bisogna lasciarsi ingannare dall’affabilità e dalla socievolezza che ostentano; la loro bonarietà e simpatia servono solo a far sembrare candidi ed innocenti i progetti politici che perseguono. Chi si sta interrogando sui motivi per cui l’Italia non abbia ancora conosciuto il furore della Francia o della Grecia, troverà in questo libro parte della risposta: solo qui esiste una sinistra para-istituzionale capace di mescolarsi nei movimenti di protesta per ricucire ogni strappo con la normalità imposta. Inutile sperare che la sinistra si decida a fare Carta straccia di ogni compromesso con lo Stato («perché alla fine bisogna sopravvivere»!). Il legno dei luoghi comuni della sinistra è immune al morso del tarlo del dubbio. Ma finché c’è il fuoco, c’è speranza...

 

[da Machete n. 4, luglio 2009

www.macheteaa.org]