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A costo di provocare irritazioni e disagio, è fondamentale andare in senso contrario. Cessare di accarezzare ciò che ci circonda non solo nei suoi aspetti minimi, ma soprattutto nella sua dimensione generale e globale. Il pensiero ribelle, se isolato in situazioni particolari, rischia di scadere in mero commentario. Intelligente, ma a breve gittata. Per arricchirsi, in qualità come in quantità, occorre abbracciare tutti gli ambiti dell'esistenza umana. Una sfida faticosa, ma indispensabile.

Arcipelago

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Arcipelago

Affinità, organizzazione informale e progetti insurrezionali

Perché tornare sulle questioni dell’affinità e dell’organizzazione informale? Di certo non perché manchino i tentativi di esplorare e approfondire questi aspetti dell’anarchismo, perché le discussioni di ieri come di oggi non ne siano in parte ispirate, o non esistano testi che abbordano tali questioni magari in maniera più dinamica. Ma certi concetti esigono senza dubbio uno sforzo analitico e critico permanente, se non vogliono perdere il loro significato a furia di essere frequentemente usati e ripetuti. Altrimenti le nostre idee rischiano di diventare dei luoghi comuni, delle «evidenze», terreno fertile per il gioco idiota della competizione di identità dove la riflessione critica diventa impossibile. Capita che la scelta dell’affine venga liquidata frettolosamente da alcuni come se si trattasse di un rapporto arroccato sulle proprie idee, un rapporto che non permetterebbe un contatto con la realtà e nemmeno con i compagni. Mentre altri agitano l’affinità come uno stendardo, una sorta di parola d’ordine — e come con tutte le parole d’ordine, spesso è il vero significato, profondo e propulsivo, ad esserne la prima vittima.

L'industria bellica in Italia

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L'industria bellica in Italia

È da poco disponibile la nuova edizione del libro Per una milizia cittadina. Il testo che proponiamo di seguito ne è l'appendice.

Abbiamo approntato un lungo elenco di industrie produttrici di armi in Italia. Man mano che approfondivamo questo lavoro in noi l’indignazione cresceva. Ma com’è possibile, ci siamo chiesti, che migliaia di lavoratori, di esclusi, di poveri disgraziati con paghe da miseria, si vendano ai padroni collaborando alla produzione di morte, di ordigni che producono morte in tutto il mondo e che rendono possibile la guerra contro popolazioni spesso inermi o insorte con mezzi di fortuna per attaccare gli invasori?
E tutta la retorica della Resistenza di casa nostra? Possibile che non venga fuori in queste maestranze un briciolo di coscienza, una specie di resipiscenza di classe?
Era questo il discorso che stavamo quasi per fare in punta di penna, ma che non faremo.

Sicuro come la morte

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Sicuro come la morte

«Un popolo che è disposto a rinunciare ad un po’ della sua libertà
in cambio di un po’ di sicurezza non merita né l’una né l’altra»
Benjamin Franklin
 
 
È una questione di cui si fa un gran parlare, ma la cui diagnosi è secca. A destra o a sinistra, il verdetto è unanime: viviamo in un «clima di insicurezza».
Ogni giorno i notiziari ci rovesciano addosso litri di sangue raccolti sui luoghi teatro di agguati, stupri, omicidi. Fatti cruenti descritti e filmati con maniacale dovizia di particolari, sì da far correre orribili brividi lungo la nostra spina dorsale già indebolita dalle quotidiane genuflessioni.
Guardare le altrui sventure non è più una consolazione, non riusciamo a tirare un sospiro di sollievo al pensiero di averla scampata. È un incubo, perché quelle sventure sembrano premere sugli schermi per precipitarsi sul tappeto dei nostri salotti. E se un domani diventassimo noi i protagonisti di quei telegiornali che ormai grondano solo morte? In preda al terrore, cominciamo a serrare a tripla mandata la porta di casa, a non parlare col nuovo vicino, a non uscire più la sera. Il panico si diffonde, si generalizza come la seguente certezza: l’insicurezza è il flagello della nostra epoca. Se venisse risolto, si aprirebbero per noi i cancelli del paradiso.

Purché non se ne parli

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Purché non se ne parli

Si tratta di una delle grandi ipocrisie umane: la libertà di critica. Nessuno oserà mai affermare esplicitamente la propria ostilità nei confronti della critica, tutti ne riconosceranno comunque il valore e l'importanza.
Nei sistemi politici, infatti, la sua messa al bando è notoriamente sinonimo di totalitarismo. Eppure, la sua manifestazione viene sollecitata, gradita, o anche solo tollerata, quasi esclusivamente quando non è indirizzata verso se stessi. Criticare va bene, va benissimo... finché si criticano gli altri.
Siamo sinceri: in fondo i dittatori l'hanno mai pensata diversamente? Un Duce non aveva ragioni di mettere a tacere chi se la fosse presa con il comunismo. E nessun regime stalinista ha mai ostacolato la critica al nazismo. Ma qualora i critici avessero rivolto la propria attenzione all'interno e non più all'esterno (del proprio paese, o partito, o movimento, o gruppo...), è facile prevedere che nei loro confronti sarebbe immediatamente scattata la censura. Perché criticare può anche essere considerata una attività lodevole, ma essere criticati non piace a nessuno.
Eppure sta proprio qui una delle differenze fondamentali fra autoritarismo e libertà — nella possibilità di criticare chiunque.

Sull'egoismo

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Sull'egoismo

Max Stirner

Tutto gira intorno a te; tu sei il centro del mondo esterno e il centro del mondo del pensiero. Il tuo mondo arriva fin dove arriva la tua capacità di capire; e ciò che tu abbracci, è tuo per il solo fatto che lo comprendi. Tu unicamente sei “unico” soltanto insieme alla “tua proprietà”.
Intanto non ti sfugge che ciò che è tuo proprio, è anche suo proprio o ha una sua propria esistenza, è qualcosa di unico come te. Per tutto questo tu dimentichi te stesso in dolce dimenticanza di te.
Ma se tu ti sei dimenticato, sei forse del tutto scomparso? Se tu non pensi a te stesso, hai forse cessato di esistere? Se tu guardi il tuo amico negli occhi o rifletti ad una gioia che potresti procurargli; se tu alzi lo sguardo alle stelle e scruti le loro leggi o mandi loro il tuo saluto, che dovrebbe portarle nella tua solitaria cameretta; se, guardando nel microscopio, tu ti perdi dietro al movimento degli infusori; se tu ti butti nell’acqua o nel fuoco per venire in aiuto a qualcuno, senza badare al tuo pericolo personale, certo allora tu non “pensi” a te stesso, ti “dimentichi”. Ma se tu esisti soltanto se pensi a te stesso, e se sparisci, se ti dimentichi: esisti soltanto attraverso l’autocoscienza? Chi non dimenticherebbe se stesso in ogni momento; chi non perderebbe di vista se stesso mille volte all’ora?
Questa dimenticanza di noi stessi, questo perdere di vista noi stessi è soltanto un modo di soddisfarci, è soltanto godimento del nostro mondo, della nostra proprietà, cioè godimento del mondo.

Il lato fossile del marxismo

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Il lato fossile del marxismo

Francesco Saverio Merlino

Organizzazione della classe operaia, — aveva detto Marx. — Operai di tutto il mondo, unitevi! — Ma che cosa s'intende per organizzazione? Le società di Mutuo Soccorso non ne sono una forma? Le Leghe di Resistenza, le Camere del Lavoro, i Sindacati, le Trades-Unions forse? No! essa è l'organizzazione politica «per la conquista del potere», salvo a contentarsi provvisoriamente della conquista dei municipi, e disputare sulle parole: candidatura di classe o candidatura operaia.
Dopo tante fanfaronate, i marxisti si sono allontanati dall'obiettivo rivoluzionario per cacciarsi nella via del parlamentarismo. Sic transit... con quel che segue.
«Per difendersi contro il "serpente delle proprie torture" bisogna che gli operai non siano più che una sola testa ed un cuore: che, con un grande sforzo collettivo, con una pressione di classe, inalzino una barriera insormontabile, un ostacolo sociale che loro interdica di vendere "per il libero contratto" al Capitale, sé e i propri figli fino alla schiavitù ed alla morte».
Gli operai che interdicono a se stessi di vendersi liberamente! In queste linee era scritta tutta l'impotenza dell'Internazionale e de' Partiti Operai che le sono succeduti.

«La Natura, c'est moi»

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«La Natura, c'est moi»

L’idea di ciò che potrebbe essere la vita umana è già così perduta, così dimenticata, così rovinata e ormai poco immaginabile che si è oramai incapaci di elaborare una seria argomentazione in grado di contraddire la duplicazione dell’uomo in laboratorio. La manipolazione genetica finisce coll’abbattere le barriere naturali che erano rimaste fino a un dato momento a baluardo contro l’espansione industriale. Ma quella che viene conosciuta in laboratorio non è che la "vita" in laboratorio, vale a dire niente: un "meccano genetico", una costruzione arbitraria che potrebbe diventare osservabile come forma di vita solo se ricollocata nella natura. Ecco che l’ottusità confina con la stupidità in coloro che reclamano vigilanza, garanzie, in breve un affidamento al vecchio metodo sperimentale. Il mondo "trascurato", lasciato da parte dal metodo sperimentale, diventa in realtà l’oggetto dell’esperimento continuando però ad essere ignorato.
La manipolazione genetica abbatte le barriere naturali rimaste a baluardo contro l'espansione naturale. Ma a provocarci disagio è solo la visione fantascientifica di individui fabbricati in serie nelle incubatrici di una industria della riproduzione?

Suicidio

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Suicidio

Alfredo M. Bonanno

Affrontare il problema del suicidio equivale ad affrontare uno dei punti essenziali della problematica umana, in quanto immediatamente esso conduce al problema della morte, del limite dell’esistenza, cosa questa che resta nello stesso tempo un punto di riferimento e qualcosa da cui cerchiamo di allontanarci per quanto possibile.
Problema della morte e problema della scelta di morire, sono ambedue estremamente complessi e di larga trattazione nella storia del pensiero umano.

Precisiamo che qui non ci occuperemo del problema esistenziale delle scelte, che pure presenta importanti elementi di riflessione, come non ci occuperemo neanche del problema del valore, in astratto, della vita. Non ci occuperemo, sotto un altro aspetto, nemmeno del problema della condanna religiosa del comportamento che sceglie il suicidio.

Ci sembra opportuno, invece, fare alcune riflessioni sulle condizioni obiettive che contribuiscono a produrre il fenomeno del suicidio. Motivi soggettivi e condizioni oggettive.

Chi È?

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Chi È?

Adonide

Quando si parla di totalitarismo, il pensiero corre senza esitazioni a una forma di dominio implacabile che storicamente si è incarnata nella figura di un singolo dittatore. Hitler il Führer, Mussolini il Duce, Franco il Caudillo, Stalin il Piccolo Padre, Ceausescu il Condottiero, Mao il Grande Timoniere, Pinochet il Generalissimo: sono tutti esempi di dittatori di un passato non sempre lontano, ma comunque considerato difficilmente ripetibile. Nel corso degli ultimi anni stiamo assistendo alla fine dell’era delle dittature individuali e alla condanna quasi unanime di queste forme di potere. E se in alcune parti del mondo resistono ancora regimi guidati da uomini forti, la tendenza a sostituirli con le moderne democrazie si va affermando senza troppi contrasti. I Führer, i Duce e i loro simili hanno dovuto cedere il posto a sistemi di dominio piuttosto disincarnati, freddi, senza sorprese, da cui l’elemento umano è quasi del tutto bandito.

Ma una dittatura — un sistema totalitario — per essere così definita non abbisogna necessariamente d’essere guidata da un unico individuo, giacché si può ritenere tale qualsiasi regime ove si attui la concentrazione assoluta del potere nelle mani di un gruppo di persone, che viene così ad assumere il controllo su tutti gli aspetti dell’esistenza di ciascuno.

Ma chi ha detto...

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Ma chi ha detto che non c’è

Odoteo/Crisso

Non solo la morte, volgare è pure la vita «che danza senza avere sul dorso le ali di un’idea». Senza ali, per dirla con un vecchio compagno, si hanno solo rospi borghesi e rane proletarie alle prese con il loro pugilato ventristico, con le loro lotte rachitiche che sollevano fango fino a insudiciare le stelle. Per avere un esempio concreto pensiamo all’odierno discorso sovversivo e osserviamo fino a che punto il suo asse si sia spostato, passando dalla realizzazione del desiderio alla soddisfazione del bisogno. Il desiderio è l’assalto al cielo stellato. Il bisogno è lo sguazzare nel fango, è ciò che unisce rospi e rane. È il pane quotidiano, il cui sapore ha sempre un retrogusto amaro perché ottenuto con la sottomissione al lavoro. Ma l’essere umano non ha bisogno solo di riempirsi lo stomaco. Vogliamo il pane, ma anche le rose! «Le rose, dove sono le rose?», si chiedeva il solito vecchio compagno.
Già, ce lo chiediamo anche noi. Oggi, quando ci troviamo tutti con le spalle al muro e un coltello puntato alla gola, con portafogli leggeri e conti da pagare, con militari per le strade e centrali nucleari in costruzione, a chi volete che interessino le rose? Ecco perché ci si limita a parlare di bisogni. Ecco perché nessuno guarda più alle stelle.

Avanguardie sovversive?

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Avanguardie sovversive?

H. T.

È abitudine consolidata, fra i vari esperti in genealogia dell’arte moderna, fare risalire la nascita del concetto di “avanguardia” a Baudelaire. Sarebbe stato lui — il precursore dei poeti maledetti, il dandy dai gusti ricercati, il giovane ribelle in rotta con la famiglia, l’anticonformista che si tingeva i capelli di verde, l’amico e compagno di prostitute, lo sperimentatore di sostanze proibite, l’insorto salito sulle barricate nei moti del 1848 — il primo ad aver sostenuto la necessità di una «estetica della rottura», ad aver abbandonato i melensi sentimentalismi del passato per esigere, con tono cinico e mordace, la liberazione della individualità, ad aver illustrato come una pressante richiesta di nuovo non possa che accompagnarsi all’ostilità nei confronti dell’autorità. Ma a lui spetterebbe anche un altro merito, quello di aver introdotto per la prima volta in campo culturale il vocabolo “avanguardia”.
Ora questa allegra attribuzione di paternità la dice lunga sulla cattiva coscienza di cui si nutre da sempre l’avanguardia storica con i suoi innumerevoli cultori. Più che l’ostetrico dell’avanguardia, Baudelaire ne fu infatti il primo anatomista.

Sfruttamento della protezione

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Sfruttamento della protezione

Di solito arrivano dopo le catastrofi. Il loro compito è quello di vagliare la situazione, di circoscriverne gli effetti, di affrontarne le conseguenze. All’inizio, devono portare soccorso a chi è rimasto vittima degli eventi. Poi, devono ripristinare il ritorno alla normalità, al quotidiano andamento delle cose. Sono i membri della Protezione Civile, di cui in questi giorni si fa un gran parlare. Li lodano in molti, e si capisce il perché. Li criticano in pochi, quasi sempre per la qualità dei loro servizi, e ciò sembra già di cattivo gusto. Il loro operato nei momenti più drammatici, più o meno gratuito e non privo di rischi, nonché i sacrifici cui vanno incontro in simili contesti, non dovrebbero bastare per assicurar loro applausi unanimi e metterli al riparo da ogni sospetto o contestazione? Sì, finché questo loro operato viene guardato con gli occhi dell’emotività, capace di far commuovere e genuflettere di fronte al coraggio e all’abnegazione quali che siano le cause che avallano, gli scopi che perseguono, gli interessi che difendono.

La gioia armata

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La gioia armata

Alfredo M. Bonanno
Avanti tutti! E con le braccia e il cuore,
la parola e la penna, il pugnale e il fucile,
l'ironia e la bestemmia,
il furto, l'avvelenamento e l'incendio,
Facciamo.... la guerra alla società!...
Déjacque
 

Mettiamo da parte le attese, le titubanze, i sogni di pace sociale, i piccoli compromessi, le ingenuità. Tutto il ciarpame metaforico che ci viene fornito negli spacci del capitale. Mettiamo da parte le grandi analisi che tutto spiegano, fin nei minimi particolari. I libroni pieni di senno e di paura. Mettiamo da parte l'illusione democratica e borghese della discussione e del dialogo, del dibattito e dell'assemblea, delle capacità illuministiche dei capi mafia. Mettiamo da parte il senno e la saggezza che la morale borghese del lavoro ha scavato dentro i nostri cuori. Mettiamo da parte i secoli di cristianesimo che ci hanno educati al sacrificio e all'obbedienza. Mettiamo da parte i preti di ogni ordine e funzione, i padroni, le guide rivoluzionarie, quelle meno rivoluzionarie e quelle per niente rivoluzionarie. Mettiamo da parte il numero, le illusioni del quantitativo, le leggi del mercato, la domanda e l'offerta. Sediamoci un attimo sulle rovine della nostra storia di perseguitati e riflettiamo. Il mondo non ci appartiene, se ha un padrone e questo padrone è tanto stupido da desiderarlo, così come si trova, che se lo prenda, che cominci a contare le rovine al posto dei palazzi, i cimiteri al posto delle città, il fango a posto dei fiumi, la melma infetta al posto dei mari.

Contr'Uno

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Contr'Uno

Nell’assemblea viene operata una riduzione della differenza ad una medesima identità, indipendentemente dal formalismo decisionale. Se ciò non viene percepito, è perché la consistenza quantitativa della realtà è più immediata di quella qualitativa. Lo Stato con il suo esecutivo, e per lo più anche il Partito col suo comitato centrale, possono essere facilmente distinti e riconosciuti come singole parti che pretendono di rappresentare il tutto. Viceversa l’Assemblea, che è (o dovrebbe essere) lo spazio comune aperto a tutti, viene considerata la forma per eccellenza del confronto diretto e orizzontale, garante della libertà di ciascuno. Ma le cose stanno proprio così, oppure si tratta di una delle tante arguzie della ragione? Nelle assemblee non si discute affatto tutti assieme, si ascoltano gli interventi di chi è più abile ad esporre le proprie ragioni facendole così passare per Ragione collettiva. Chi parla meglio, ovvero possiede la favella più persuasiva, controlla l’assemblea (il più delle volte è anche colui che la organizza). Chiunque abbia frequentato le assemblee ne ha ben chiaro l’andamento. Quando la composizione è più omogenea, si assiste al rimbalzo fra due/tre voci che incanalano docilmente verso la decisione sovente già presa in separata sede. Gli spettatori, in silenzio, prendono mentalmente appunti su cosa dovranno dire nel caso in cui qualcuno dovesse interrogarli circa le loro idee. Chi dovesse nutrire dubbi e perplessità si guarderà bene dall’esporli, per paura di venir confutato da una brillante risposta. Se le assemblee sono più allargate, allora è scontro fra le opposte fazioni per ottenerne l’egemonia. Amplificati dai rispettivi gruppi di sostegno, i parlatori più abili si danno battaglia. Qua i numeri possono fare la differenza, perché non è affatto detto che la parola più abile sia anche l’ultima.

Ma che storia è questa?

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Ma che storia è questa?

Adreba Solneman

Qui ed ora comincia la storia. Lo spontaneo, l’immediato, il presente sono l’inizio della storia. Il passato è una introduzione che, come tutte le introduzioni, è scritta a cose fatte, nell’avvenire, nella riflessione, nella mediazione. Il presente comincia la storia, e il passato concede tempo a questo inizio.
La storia in quanto totalità viene generalmente percepita come un mito. La piccolezza contemporanea ha praticamente abdicato davanti alla grandezza dell’oggetto, di modo che, così come confonde il proprio inizio e la propria origine, essa ribassa miseramente la storia come unità delle storie separate facendola cominciare... con una s maiuscola. Per di più è un’autentica alienazione della logica ad appiattire questa storia «universale» in storia particolare: oggi è unicamente dal particolare che si astrae il generale e non è affatto dal generale che si determina il particolare; è dall’avvenimento che si deducono la storia e la misura della sua s e non è dalla storia che si deducono le esigenze e gli imperativi che fanno sì che un avvenimento la riveli oppure no. La storia reale è un tutto la cui ricchezza e il significato non stanno nella quantità delle determinazioni, ma nel loro rapporto col tutto, e che per la brevità e straordinarietà delle sue manifestazioni ne esclude quasi tutti gli individui, e gli altri quasi sempre.

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