Autopsia

L'impostura Heidegger

Max Vincent
 
Questo testo critico su Martin Heidegger difficilmente potrà insegnare qualcosa di nuovo a chi segue l'attualità heideggeriana da una decina di anni. Vorrei dire che si rivolge in primo luogo a quei lettori talmente disgustati dal gergo filosofico di Heidegger al punto da far loro «cadere dalle mani» i suoi libri, ma anche a chi si proibisce di leggere Heidegger per le note ragioni «politiche». Ciò per confortare all’occorrenza la scelta degli uni o degli altri, sostenendola, e per contribuire a spiegare meglio entrambe queste forme di rifiuto. Tuttavia non escludo che L'impostura Heidegger, come un messaggio chiuso in una bottiglia lanciata in mare, possa trovare un destinatario a cui non era destinato. Essendo state ridistribuite le carte in questo inizio del XXI secolo, forse questi improbabili lettori considereranno con altri occhi l'attuale partita che si presenta loro, per riconoscere finalmente che prima le carte erano state truccate.
Comunque sia, in questo genere di esercizi — simile al lavoro di un montatore cinematografico — è importante scegliere bene l'ordine delle sequenze attraverso cui si organizza il film Heidegger, quello di una impostura intellettuale e filosofica senza pari nel XX secolo (impostura non imputabile unicamente all'autore di Essere e tempo, ma anche agli heideggeriani più fedeli). Heidegger era incontestabilmente un nazista e questa «qualità» perdurò ben oltre il periodo detto «di rettorato». Ancora oggi la fazione heideggeriana minimizza l'antisemitismo del Maestro, quando non lo nega del tutto. Tuttavia, dopo la comparsa dei Quaderni neri non è più possibile avanzare il minimo dubbio. Alla domanda se Heidegger, malgrado tutto, resti il «grande filosofo» che alcuni pretendono che sia, questo testo si sforzerà di rispondere indirettamente senza farsi trascinare su un terreno di mera speculazione filosofica. Ma, riassumendo, possiamo affermare fin d’ora che un pensiero che si è identificato in gran parte in ciò che di peggio è avvenuto nel XX secolo non può in alcun modo avere la «grandezza» che l'acclamazione e il sostegno degli heideggeriani insistono a tributargli.
 
Un testimone, riferendosi agli esordi di Martin Heidegger in filosofia, descrive all'indomani della guerra del 14-18 l'assistente di Edmund Husserl come «un uomo di poca apparenza, il quale sembrava più un elettricista venuto a controllare l'impianto che un filosofo». Una decina di anni più tardi la sposa di Ernst Cassirer traccia un pittoresco ritratto di Heidegger di cui ha appena fatto la conoscenza. La medesima espressione, «uomo di scarsa apparenza», sarà vergata dalla penna di Toni Cassirer. Nel salotto borghese dei Cassirer, il filosofo diventato celebre dopo la pubblicazione di Essere e tempo «entrò nella sala, intimidito come un piccolo contadino giunto alla porta del castello». Un «uomo di scarsa apparenza» che nel corso della serata si rivelò temibile nell’argomentare. Ma l'essenziale in questo ritratto è l'indicazione finale: «Ciò che appariva più inquietante, era la sua serietà mortale e la sua totale mancanza di humour».
La ritrattista annota che quel giorno Heidegger indossava «un vestito nero fuori moda», e non «l’abito esistenziale» di cui ridevano gli studenti. Si trattava di una veste che il filosofo si era fatto cucire a Marbourg, simile a quella del pittore Otto Ubbelohde, il quale spingeva per un ritorno ai costumi folkloristici. Ciò non ha niente di aneddotico poiché, fin dagli anni 20, il pensiero di Heidegger si radicò nel suolo tedesco opponendo la semplicità del contadino, la ruralità, l'arcaismo e i valori del mondo pre-industriale, quindi «l’autenticità» (nozione cardinale in Heidegger), allo sradicamento, alla mobilità della coscienza emancipata, alla modernità, ma anche al cittadino, alla figura dell'intellettuale senza legami né radici, ovvero all'Ebreo. Una opposizione rafforzata da quella che pone avanti il conservatorismo (anche attraverso la «rivoluzione conservatrice») e le espressioni democratiche e socialiste.
Per perfezionare il quadro bisogna inoltre porsi nel contesto di un’epoca inquieta, quella degli ultimi anni della Repubblica di Weimar. Mettendo da parte l'ascesa del nazismo ed i fenomeni che vi concorsero, l'opera di Oswald Spengler L'uomo e la tecnica, apparsa nel 1931, evoca il clima intellettuale dei primi anni 30 in Germania in termini che fanno eco all'ideologia «Volklich» (termine ancora usato da Heidegger, che a partire dal 1933 gli preferirà quello di «Völkisch» dalle connotazioni più razziali). La città «totalmente antinaturale» vi è condannata in ragione, per esempio, delle divisioni sociali «totalmente artificiali», le quali sviluppano e provocano una iper-valorizzazione della ragione e dell'intelletto a scapito della «vita dell'anima». Contro il modello ispirato dalle «teorie plebee del razionalismo, del liberalismo e del socialismo», Spengler sostiene il «ritorno alla natura», «il diritto naturale», la restaurazione dei valori contadini e del patriarcato. Notiamo che in ambienti associati alla «rivoluzione conservatrice» il concetto di alienazione assume un significato ben diverso da quello di Marx, riferendosi allo «sradicamento» di chi è sottomesso ai diktat dell'intelletto, del razionalismo e del materialismo. La de-alienazione corrisponde qui al «radicamento» nel paese natale e alla comunione con la natura e il popolo. Heidegger riprende sul piano filosofico tale distinzione nel suo inimitabile stile ontologico.
Le prime testimonianze dell'adesione di Martin Heidegger alle idee ed alla politica del NSDAP [Partito Nazional-Socialista dei Lavoratori Tedeschi] risalgono al 1931. Ammettiamo pure che in quel momento si trattasse di opinioni che Heidegger giustificava davanti ai suoi interlocutori con la sua avversione per la politica della Repubblica di Weimar e per la democrazia borghese, e ancor più per il pericolo di una rivoluzione comunista. Secondo uno dei suoi vecchi studenti, Heidegger non capiva «granché di politica» ma si diceva pronto ad «accettare una dittatura» che non temesse di impiegare grandi mezzi per evitare «una dittatura ancora peggiore, quella del comunismo». 
L'anno seguente Heidegger vota per il NSDAP. All'inizio del 1933 si dichiara pubblicamente a favore del nazional-socialismo nel corso dell'ascesa al potere di Hitler. «Bisogna impegnarsi», scrive al suo amico Karl Jaspers. Quest'ultimo, durante una visita un mese più tardi, trova «Heidegger trasformato, mutato, investito totalmente nella sua nuova missione». Alla disincantata domanda di Jaspers («Come potrà governare la Germania un uomo ignorante come Hitler?») Heidegger risponde con queste decise parole: «La cultura non conta (...). Guarda piuttosto le sue magnifiche mani!».
In precedenza Heidegger era stato nominato dal nuovo regime rettore all'Università di Friburgo, prima di aderire ufficialmente al NSDAP l’1 maggio (adesione rinnovata tutti gli anni fino al 1945). Il 27 dello stesso mese Heidegger pronuncia il famoso Discorso di rettorato salutato come un grande avvenimento dalla stampa nazista. Durante quello che viene chiamato il «periodo di rettorato» (dall'aprile 1933 all'aprile 1934: un anno, e non 10 mesi come scrivono molti heideggeriani), Heidegger promuoverà incessantemente nel proprio insegnamento una visione del mondo nazional-socialista con un Führer rieducatore del popolo tedesco. Tanto è vero, proclama il filosofo, che «l'esistenza e la superiorità del Führer sono penetrate nell'Essere, nell'anima del popolo per legarlo originalmente e appassionatamente al compito».
Meno noto è che Heidegger non abbia esitato ad intervenire al di fuori del suo ambito universitario. Durante l'estate 1933, per esempio, tiene un discorso all'istituto d'anatomia patologica di Friburgo, nel quale Emmanuel Faye precisa «il filosofo si erge qui a garante del fatto che nel nazismo ciò che è sano e ciò che è malato non si stabilisce più in funzione dell'essere umano propriamente detto, ma della sua appartenenza o meno a un certo popolo». Siamo al centro del pensiero nazista. Heidegger lo riformulerà durante il suo seminario dell'anno 1933-34 dichiarando che attraverso una espressione come «salute del popolo» si avverte «il legame dell'unità del sangue e della stirpe, della razza». Hitler, Himmler e compagnia, più tardi, durante la seconda guerra mondiale, sapranno mettere in pratica la diagnosi del dottor Heidegger.
La parola popolo scompare come per incanto dal vocabolario di Heidegger nell’affrontare la questione dei «negri, come per esempio i Bantu», e si trova sostituita dall'espressione «gruppi di uomini che non hanno storia». Certo non nel senso inteso da Pierre Clastres e da tutta una corrente antropologica. Questa storia, ci istruisce il professor Heidegger, non è diversa da quella di «scimmie ed uccelli». Magari troveremo un heideggeriano a risponderci che scimmie ed uccelli figurano fra le specie animali più intelligenti.
A completare il quadro, aggiungiamo che Heidegger, senza che qualcosa gli sia stato richiesto, nel dicembre 1933 scrive all'Unione dei professori nazional-socialisti per denunciare il suo vecchio amico Eduard Baumgarten, candidato ad un posto all'Università di Gottingen, che egli giudica indegno di tale funzione in quanto estraneo al nazional-socialismo e in quanto intrattiene «stretti rapporti con l'ebreo Fraenkel». Heidegger ne conclude che all'interno del NSDAP e dell'Unione dei professori sia impossibile l'ammissione del candidato, che per di più è presentato dal rettore di Friburgo come un «impostore filosofico».
Due mesi prima Heidegger aveva tenuto un analogo comportamento in relazione al chimico Hermann Staudinger su cui pesava il sospetto di «non affidabilità politica». In seguito ad una inchiesta della Gestapo, Heidegger chiederà il licenziamento di Staudinger dal suo posto di insegnante. Ma, in virtù della fama del chimico all'estero, e ancor più dei servigi che lo scienziato poteva dare alla «scienza tedesca» (otterrà il premio Nobel nel 1953), Staudinger non viene inquisito. In certi casi, il potere nazista poteva ben mettere in attesa l'ideologia. Secondo Safranski, che riporta i due esempi, Heidegger non considerava quei due modi di reagire come atti di delazione, ma l'uno e l'altro si spiegavano allora con lo zelo «rivoluzionario» del filosofo nel voler purificare il movimento da elementi opportunisti. La qual cosa già conferma il fatto che, come si vedrà oltre, su questo piano Heidegger si poneva, non al di qua del nazismo, ma ben al di là.
Tralasciamo per il momento la questione dell'antisemitismo per porre una prima domanda: non si deve separare, malgrado tutto, l'impegno nazista di Martin Heidegger dal suo lavoro filosofico propriamente detto? Una separazione proclamata a gran voce dagli heideggeriani, che riconoscono esplicitamente il nazional-socialismo del Maestro durante il periodo di rettorato pur protestando contro l'assimilazione della sua filosofia a categorie naziste. Eppure si possono trovare alcuni punti di convergenza. Per far ciò, torniamo indietro di qualche anno.
Nel 1927 Heidegger pubblica Essere e tempo, opera filosofica che lo fa conoscere e lo rende celebre in Germania, e anche al di là dei paesi di lingua tedesca. Safranski difende una posizione intermedia (rispetto a quella espressa sopra) quando afferma che ancora nel 1932 le simpatie di Heidegger «per il nazional-socialismo non si riflettevano nella sua filosofia. Un anno dopo sarà diverso». Tuttavia Essere e tempo contiene pagine, come osserva Emmanuel Faye, che attraverso il legame «della rinuncia di sé», de «l'essere verso la morte» e della «affermazione del destino comune nella totalità indivisibile della comunità» fanno eco alle tesi di Mein Kampf nel capitolo «Popolo e razza», dove viene esaltata a lungo «la capacità dell'individuo di sacrificarsi per la totalità, per i suoi simili».
 
Riprendendo il filo della nostra cronaca arriviamo al 21 aprile 1934, giorno in cui Heidegger dà le dimissioni dal suo posto di rettore. Per tanto tempo si è creduto che il filosofo fosse stato estromesso dalle autorità naziste. Non è così. Tra le altre ragioni, queste dimissioni si spiegano principalmente con le difficoltà incontrate da Heidegger nell'imporsi istituzionalmente sulla scena universitaria. Nel diventare in qualche maniera il Führer delle università tedesche. Diciamo che questo impegno nazional-socialista non si smentirà, ma Heidegger vi si dedicherà in maniera meno esposta rispetto al periodo di rettorato.
Un altro esempio, carico di significato, prova in maniera decisiva che Heidegger non viene affatto messo all'indice nell'aprile 1934, al contrario. Il mese successivo sarà chiamato a sedere nella commissione dell'Accademia per il diritto tedesco (a fianco di Hans Franck, Carl Schmitt, Julius Streicher, Alfred Rosenberg... tutta bella gente!) la cui importanza è da sottolineare in quanto tale commissione partecipa attivamente all'elaborazione delle leggi razziste e antisemite di Norimberga nel 1935. La presenza di Heidegger e la sua assiduità ai lavori di questa Accademia sono attestate almeno fino al 1936. Un simile coinvolgimento, meno noto di quello del rettorato, si rivela altrettanto compromettente. Heidegger ha abbandonato l'idea di diventare il Führer delle università tedesche, ma lo spirito di quella «rivoluzione spirituale e filosofica» soffierà in altri luoghi, come abbiamo appena visto, benché alleggeriti dalla «spiritualità» delle Squadre d'Assalto.
Parallelamente, nemmeno i corsi tenuti da Heidegger in questa nuova fase, così come i seminari, allontanano il filosofo dall'ideologia nazista. Lo stesso accade nella vita quotidiana. Karl Löwith, vecchio studente di Martin Heidegger, costretto a lasciare la Germania nel 1933, riporta che durante un incontro pubblico avvenuto a Roma nel 1936 Heidegger non dimenticò di appuntarsi sul vestito la spilla nel NSDAP («Apparentemente non gli era venuto in mente che non era affatto opportuno indossare la croce uncinata per trascorrere una giornata con noi»). Durante lo stesso incontro, Heidegger assicurò il suo vecchio discepolo che la «concezione di storicità sviluppata nove anni prima in Essere e tempo era alla base del suo nazional-socialismo».
I turiferari di Heidegger che intendano dimostrare che il loro campione, dopo il 1935, non si sia compromesso nel suo insegnamento con il potere e l'ideologia nazista, dimenticano di precisare che un decreto, lo stesso anno, proibiva ai membri del corpo insegnante di fare politica nei propri corsi. Ciò può apparire stupefacente in uno Stato totalitario ma i responsabili dell'insegnamento avevano appena constatato che la politicizzazione nazional-socialista allora in vigore fra gli insegnanti contribuiva paradossalmente alla depoliticizzazione degli studenti. Come osservava ironicamente Löwith: «Lo Stato totale divenne paradossalmente l'avvocato della neutralità nelle cose dello spirito». Dunque il nostro filosofo, come i suoi colleghi universitari, dovette conformarsi alle direttive del Reich. Segnaliamo che Heidegger, dopo il 1945, includerà questo dato nel suo sistema di difesa argomentando, davanti ai suoi interlocutori dalla memoria corta, che egli si era opposto nei suoi corsi e seminari alla politicizzazione dell'Università. Si può ragionevolmente pensare che quel decreto non sia stato accolto bene da Heidegger, e ciò vale per altri aspetti della politica nazista. Così in una lettera indirizzata il 7 giugno 1936 allo storico d'arte Kurt Bauch, Heidegger precisa che «il nazional-socialismo sarebbe bello in quanto principio barbaro — ma non dovrebbe essere così borghese». Ciò significa per chi sa leggere che Heidegger non si situa al di qua del nazional-socialismo (come pretese dopo la guerra) ma ben al di là, stimando che i nazisti facessero troppe concessioni e non si spingessero sufficientemente oltre. A partire dalla comparsa dei Quaderni neri questo non può più essere negato, nemmeno interpretato, poiché (in righe contemporanee alle precedenti) vi si legge che «il nazional-socialismo è un principio barbaro. È questo che ne costituisce l’essenza e la possibile grandezza. Non è il pericolo: il pericolo è renderlo anodino o farne un sermone sul Vero, il Bene, il Bello (come durante una serata di formazione)».
Heidegger aveva solo amici fra gli «intellettuali» nazisti. In seguito non mancò di ostentarlo per sottolineare che la sua stella aveva smesso di brillare nel firmamento nazional-socialista, da qui gli attacchi diretti contro di lui. Fra gli «attacchi» in questione, due meritano di essere menzionati. Il primo proveniva da un certo dottor Könitzer che nel 1936 nella rivista della gioventù hitleriana aveva criticato una conferenza di Heidegger su Hölderlin affermando che «la gioventù conosceva Hölderlin meglio... del professor Heidegger». Punto sul vivo, Heidegger rispose sulla stampa nazional-socialista che, secondo la testimonianza dei responsabili SS, il citato Könitzer «serviva durante l'estate 1933 nei ranghi social-democratici». Uno degli episodi, fra gli altri, dei conflitti fra le diverse fazioni naziste. Tornerò poi sul «secondo attacco», due anni dopo, proveniente da un quotidiano nazista di Friburgo.
Nel 1938 usciva la seconda edizione accresciuta di un'opera intitolata La Storia tedesca dal 1914 in documenti, la cui vocazione era di figurare nella biografia nazional-socialista ufficiale. L'autore, Ernest Forsthoff, vi include lunghi estratti del Discorso di rettorato. Un privilegio che Heidegger condivise coi soli Hitler, Goebbels, Rosenberg, Streicher, Darré e... Mussolini. Come messa a margine c'è di meglio! Nel 1938, lo si sarà capito, Heidegger non era persona non grata (contrariamente a Carl Schmitt, allora in disgrazia), come pretenderà dopo la guerra.
Ma torniamo a Hölderlin, cui Heidegger dedica diversi corsi nel 1934-1935, così come alcune conferenze. L'occasione per lui di travestire Hölderlin (definito «poeta dei tedeschi») con stracci nazionalisti e «Völkisch». Negli anni seguenti, e in particolare nella conferenza del 1938 «L'epoca dell’immagine del mondo», Heidegger elaborerà questo terreno nazionalista. Alla sua maniera, insidiosa, intende dimostrare che fra i popoli solo quello tedesco è «propriamente parlando, metafisico», qualità atta ad evitare quella «degenerazione» con cui Heidegger gratifica gli altri popoli. Si riferisce a Hölderlin, ed a Nietzsche soprattutto, a proposito del quale le sue analisi non si distinguono molto da quelle dei gerarchi nazisti.
D'altronde la disfatta francese del giugno 1940 ispira a Heidegger il seguente commento (in Nietzsche e il nichilismo europeo): «In questi giorni, noi stessi siamo testimoni di una misteriosa legge della storia, per la quale arriva il giorno in cui un popolo non è più all'altezza della metafisica scaturita dalla sua storia». Contrariamente al popolo tedesco, suggerisce, la cui altezza metafisica era debitrice ad un certo Adolf Hitler. Alcuni mesi prima, durante la distruzione della Polonia, Heidegger teneva un analogo discorso sul popolo polacco, con la differenza — non da poco! — che quel popolo non poteva cadere dall'alto «perché gli manca l'altezza da cui poter ancora cadere». Un popolo slavo, ovviamente! Cosa che non ha affatto impedito a Heidegger, secondo la testimonianza diretta di Gadamer, di manifestare rumorosamente la sua soddisfazione all'annuncio del patto russo-tedesco dell'agosto 1939 («Per lui era un successo del grande gioco tattico di Hitler»). E poi, per illustrare ancor più la superiorità «metafisica» dei tedeschi sugli altri popoli messi in ginocchio, Heidegger si spingerà fino ad associare nel giugno 1940 la «motorizzazione della Wehrmacht» ad un «atto metafisico»! Alla fine del 1942, nel corso del quale parecchi tedeschi iniziarono a dubitare della vittoria finale del Reich, uno dei più vicini amici di Heidegger, Karl Bauch, gli scriverà: «Se dovessimo perdere, ognuno di noi invocherà tutti i giorni il ritorno dei nazisti». Non conosciamo la risposta di Heidegger, ma tenuto conto dei legami che univano i due corrispondenti non occorre fare uno sforzo per immaginarla.
 
All'indomani della disfatta tedesca del maggio 1945, Heidegger cercherà di giustificarsi minimizzando il suo passato nazista, o insistendo sul suo disimpegno dopo le dimissioni dal rettorato, presentandosi come oppositore del nazismo! Nel luglio 1945 Heidegger compare davanti ad una Commissione di epurazione che emetterà una sentenza clemente, certificando ovviamente l'impegno nazista del filosofo durante i dodici mesi di rettorato, ma discolpandolo dallo stesso impegno negli undici anni successivi. Il che significa che Heidegger avrebbe conservato il suo posto di professore: col diritto di insegnare, ma non di partecipare agli organi collegiali. Il senato dell'Università che aveva stabilito una serie di criteri per valutare il passato politico dei membri del corpo insegnanti rifiutò tale verdetto, argomentando a giusto titolo che tale clemenza verso un filosofo dalla fama di Heidegger rischiava di fare giurisprudenza e di incitare le altre commissioni di epurazione ad emettere verdetti altrettanto compiacenti. Fu quindi richiesta una indagine più approfondita su Heidegger. Curiosamente questi propose allora di fare appello a Jaspers per chiedergli di redigere un rapporto su di lui. Eppure i due amici avevano cessato ogni rapporto dal 1936 (Jaspers l'anno dopo sarà oggetto di una misura di proibizione all’insegnamento e alla pubblicazione). Heidegger aveva formulato la sua richiesta ignorando che Jaspers intendeva dedicare il suo corso per l'annata 1945-46 alla «necessità di affrontare la colpa» all'indomani della caduta del nazismo. È comprensibile la difficoltà di Jaspers nel redigere quel rapporto. Finirà col contemplare capre e cavoli. Senza insistere, come si sarebbe potuto pensare, sull'impegno del suo vecchio amico a favore del nazional-socialismo, preferirà soffermarsi sul modo di pensare di Heidegger che gli sembrava «sprovvisto di libertà, dittatoriale ed estraneo alla comunicazione». Aggiungendo che quel modo di pensare «poteva avere oggi effetti devastanti sugli studenti».
Alla fine il governo militare francese escluse Heidegger dall'insegnamento classificando il suo dossier sotto la rubrica «disponibile», intendendo che lasciava la porta aperta al suo reintegro nell'università. Heidegger dovrà attendere il 1951 per insegnare di nuovo filosofia all'università. Essendo stata cancellata la sua interdizione all’insegnamento due anni prima, durante quel lasso di tempo avrebbe tenuto conferenze in diverse città della Germania.
Nel corso della sua audizione davanti la Commissione di epurazione, la difesa di Heidegger si organizza attorno ai tre seguenti punti:
1) Innanzitutto egli mette in avanti gli aspetti «oggettivi». Gli antagonismi sociali erano tali nella Germania della Repubblica di Weimar da imporre il ricorso ai nazional-socialisti, soprattutto nell'intento di rifondare una «comunità nazionale» per ostacolare il comunismo.
2) Poi Heidegger riconosce di essersi impegnato nel movimento nazista perché questo gli sembrava partecipare ad una «rivoluzione metafisica». Confessa di essersi sbagliato ma che quell’episodio è stato di breve durata. Heidegger lo definirà una «grossa stupidaggine».
3) Infine, dopo la dimissione dal suo posto di rettore, Heidegger afferma di essersi ritirato dall'arena politica per dedicarsi interamente al suo lavoro filosofico. A suo avviso questi lavori si sono rivelati critici nei confronti del regime nazista, e più che critici dopo il 1938.
A leggere oggi nel dettaglio questa «autobiografia» vediamo quanto Heidegger aggiusti la realtà, mentendo, deformando dei fatti, interpretandone altri, e passando sotto silenzio il più riprovevole. Fino alla fine dei suoi giorni Heidegger non si allontanerà di molto da questa linea di difesa, da questo «romanzo» che generazioni di heideggeriani riprenderanno sull'attenti, compresi quelli più ostili al nazismo.
Torniamo indietro, al periodo (fra le dimissioni dal rettorato e la sconfitta del 1945) durante il quale è stato a lungo considerato oro colato ciò che ne diceva Heidegger. I corsi, i seminari e le conferenze degli anni 1934-1942 saranno in parte pubblicati dopo il 1950, prima di essere inclusi interamente nel corpus delle opere complete del filosofo. Occorre soffermarsi sull'esempio, fra gli altri, della «riscrittura» da parte di Heidegger di una conferenza del 1938: questa riscrittura comportava eufemisticamente soppressioni ed aggiunte significative dodici anni dopo al fine di dissimulare la verità o di renderla più accettabile alle generazioni del dopoguerra, ovvero di far passare tali affermazioni per atto di resistenza al nazismo. Il 9 giugno 1938 Heidegger fa una conferenza nell'ambito di un ciclo organizzato dalla Società delle scienze dell'arte, della natura e della medicina di Friburgo. Questa conferenza sarà pubblicata in Germania nel 1950, e comparirà in Francia nel 1962 col titolo «L'epoca dell'immagine del mondo», prima di ritrovarsi inclusa nell'opera Sentieri interrotti [tradotto e pubblicato in Italia nel 1968]. Dobbiamo a Sidonie Kelleler (che ha avuto l'eccellente idea di consultare la trascrizione della conferenza del 1938 e di confrontarla con la pubblicazione del 1950) la dimostrazione che segue.
Uno studio comparato del testo originale della conferenza e di quella che porta il titolo di «L'epoca dell'immagine del mondo» permette infatti di dimostrare che Heidegger, contrariamente alle sue dichiarazioni, non era meno nazista nel 1938 rispetto al 1933. Ciò che egli presenterà nel dopoguerra come una prova cardine in sua difesa, la suddetta conferenza, è in realtà un documento falsificato. Una prima volta Heidegger la menziona in una lettera indirizzata il 15 dicembre 1945 a Constantin von Dietze, presidente della Commissione d'epurazione. Egli la presenta come la risposta indiretta a una serie di avvertimenti e di attacchi da parte di un quotidiano nazional-socialista di Friburgo: Heidegger non vi aveva risposto ritenendo che «non c'era nulla da fare in quel genere di situazioni contro il potere delle istanze di partito». In realtà Heidegger, contrariamente a quanto sostenne, aveva protestato energicamente contro quell'articolo (che nei confronti del filosofo appariva più ironico che critico), protesta estesasi alla federazione tedesca nazional-socialista degli insegnanti e al servizio stampa dell'università di Friburgo, i quali domandarono che non si ripetesse quell’attacco contro «un compagno di partito e un combattente di prima linea del nazional-socialismo».
Il testo pubblicato nel 1950 («L'epoca dell'immagine del mondo») figura fra quelli che in seguito avranno più risonanza nel mondo heideggeriano, e la sua influenza ancora attuale necessita il lungo sviluppo seguente. Fra le altre ragioni, ma questa si rivela determinante, perché il proposito sostenuto qui sulla tecnica, prima in data di un «pensiero della tecnica» che assumerà maggiore importanza nel corso degli anni 50, costituisce secondo Heidegger e i suoi epigoni l'elemento centrale di una «resistenza segreta» del filosofo al nazismo dovendo a questo titolo, sostengono alcuni, servire da strumento filosofico per comprendere il totalitarismo. Quindi, per riassumere, questa conferenza del 1938 per numerosi heideggeriani è una critica filosofica del regime nazista. Un avvertimento al lettore. Va da sé che il pensiero di un filosofo evolve nel corso della sua esistenza, e che appare preferibile tenere conto di questa evoluzione per analizzare l'opera nella sua globalità. Una evoluzione che significa all'occorrenza la presenza di correzioni da un'opera all'altra. Non c'è motivo di escludere Heidegger da questa regola, valida per tutti. In compenso qui c'è assai più dell'abuso, in quanto ciò che egli ci presenta come se fosse stato il suo pensiero nel 1938 non corrisponde a una realtà che ha volontariamente corretto ed emendato dodici anni più tardi, da un lato sopprimendo dal testo gli aspetti più nazional-socialisti, dall'altro dotandolo di un contenuto «critico» prima assente nella conferenza.
Confrontando dunque il testo della conferenza e quello della pubblicazione dodici anni più tardi, si impone una prima distinzione fra le soppressioni e le aggiunte. Nelle prime figura un «quarto complemento» che inscrive esplicitamente questa conferenza nel prolungamento del Discorso di rettorato («La meditazione della scienza messa in opera non è contraddittoria con ciò che dice ed esige. L'affermazione di sé dell'Università tedesca, 1933»). Questo complemento si ritroverà miracolosamente cinquanta anni dopo nel volume 16 delle opere complete di Heidegger sotto la rubrica «Meditazione della scienza, 1938». Vi sono aggiunte due righe assenti nel 1938 che non mancano di contraddire le venti righe precedenti! La soppressione di certe frasi e di certi termini sostituiti con altri dà al testo del 1950 un tono «più neutro e distaccato». In particolare Heidegger, che nel 1938 voleva che la Germania nazional-socialista giocasse pienamente il proprio ruolo per riconfigurare i tempi moderni contro l'americanismo (descritto come un mondo «gigantesco» privo della «essenza metafisica piena e riunita dei tempi moderni») si accontenta nel 1950 di segnalare che «l'americanismo è qualche cosa di europeo» (cosa che permette di occultare il nazismo).
Con le aggiunte del 1950, la falsificazione diventa ancora più manifesta. Citiamo la frase seguente: «La tecnica meccanica è il primo frutto dell'essenza della tecnica moderna, che è tutt'uno con l'essenza della metafisica moderna». È proprio perché la tecnica può essere qui interpretata come uno strumento di potere dei tempi moderni, identificata all'ultimo stadio della metafisica, che questa spiegazione ha potuto essere percepita nel 1950, e soprattutto molto dopo, come una critica del nazional-socialismo. Una lunga nota, la 9 (assente nel 1938), inaugura questa «seconda maniera» del filosofo nel dopoguerra: Heidegger vi pone abilmente la questione della responsabilità del nazismo, dei suoi disastri, per imputarla, o almeno far pesare il sospetto, sulla filosofia dei Lumi («L'uomo, quale essere razionale in senso illuministico, è non meno soggetto dell'uomo che si concepisce come nazione, si vuole come popolo, si coltiva come razza e infine si erige a padrone dell'orbe terracqueo»). Come scrive Emmanuel Faye: «Questo imperialismo planetario, questo livellamento generale vengono ormai presentati come il compimento della modernità, in modo tale che in questa prospettiva la volontà völkisch e l'allevamento delle razze non appaiono che elementi fra tanti altri, preparando questo avvenimento allo stesso titolo della corrente di pensiero più fondamentalmente opposta a questo essenzialismo völkisch, ovvero il razionalismo illuminista».
 
E l'antisemitismo, in tutto ciò? Il soggetto non è stato ancora affrontato perché nel 1945 non se ne accennò nel corso dell'audizione di Heidegger davanti alla Commissione di epurazione. E questo per parecchio tempo. Rüdiger Safranski, che nel 1994 non ci nascose nulla del nazismo di Heidegger, sostiene ancora una volta che quest'ultimo non era antisemita «nel senso ossessivo dei nazional-socialisti». Secondo lui l'antisemitismo non compariva negli scritti filosofici, nei corsi e nelle conferenze di Heidegger, neanche durante il periodo di rettorato. Safranski ammette tuttavia che Heidegger praticava «l'antisemitismo di competizione» assai diffuso negli ambienti universitari. Il che significa che «egli avvertiva la presenza degli ebrei all'Università come importuna». Ma senza andare oltre, secondo il suo biografo che ci tiene a precisare che Heidegger avrebbe difeso Spinoza in un corso degli anni 30.
Lasciamo le arguzie di Safranski per tornare indietro. Nel 1916, anno in cui la reputazione del caporale Hitler non superava i limiti della sua compagnia, Heidegger scriveva alla sua fidanzata Elfride che «la giudaizzazione della nostra cultura e delle università è in effetti spaventosa e ritengo che la razza tedesca dovrebbe trovare sufficienti energie interiori per emergere». Heidegger aveva solo alcuni anni di anticipo su Hitler che evocava allo stesso modo in Mein Kampf le «università giudaizzate». Un antisemitismo che si ritrova nelle lettere inviate da Martin a Elfride («gli ebrei e i profittatori sono ormai un'invasione», scrive nell'agosto del 1920). Alcuni commentatori non hanno mancato di osservare che si tratta di affermazioni private. Cosa che è rigorosamente vera. Continuiamo. Heidegger non scrive alla sua cara Elfride nel 1929 ma a Viktor Schwoerer, direttore dell'ufficio delle università della regione di Baden, una lettera in cui afferma che l'Università tedesca si trova a confronto con la seguente alternativa: dotare «di nuovo la vita spirituale tedesca di forze e di educatori autentici, provenienti dal territorio», oppure consegnare «definitivamente questa stessa vita spirituale alla crescente giudaizzazione, nel senso ampio e stretto del termine». Non è vano precisare che Heidegger, a partire dal 1916, non parla in termini diciamo eleganti di «ebraizzazione» ma usa la parola più volgare, più esplicitamente antisemita, di «giudaizzazione» (proprio come Hitler in Mein Kampf).
Tuttavia, ancora nel 1929, Heidegger non si autorizza a dire ciò che pensa della «giudaizzazione» al di fuori dell'ambito di una corrispondenza privata (la lettera a Schwoerer era già meno «privata» di quelle indirizzate a Elfride) poiché, come precisa nella missiva a questo stesso interlocutore, non aveva potuto esprimersi prima chiaramente sulla questione con un documento ufficiale. Un esempio che non manca di rendere sfumata la distinzione fra pubblico e privato. Nel 1933 più nulla tratteneva Heidegger nelle sue espressioni. Il 25 novembre, nel corso della «cerimonia di immatricolazione degli studenti», il suo discorso si sarebbe concluso così: «Io reclamo da voi coraggio di sacrificio ed esemplarità di comportamento verso tutti i Volksgenosse tedeschi. Viva Hitler!». Il termine «Volkgenosse» può essere tradotto con «compagni di razza» (in qualche modo il contrario di Genosse, il compagno delle tradizioni marxiste e socialiste). Il che significa chiaramente che nessun ebreo poteva essere Volksgenosse. Per passare dalla teoria alla pratica, lo stesso mese il rettore Heidegger ordinava di non concedere più borse di studio agli «studenti ebrei o marxisti».
Ci sovviene che nella lettera indirizzata a Viktor Schwoerer, Heidegger anteponeva la necessità di difendere i valori tedeschi radicati nel territorio. Due anni prima, in Essere e tempo, il filosofo evocava in diverse occasioni «l'assenza di suolo» e lo «sradicamento» («lo sradicamento di tutto è fuori dall'essere», scriveva) associato al cosmopolitismo apatride pronto alla giudaizzazione dell'universo. Nei suoi Contributi alla filosofia Heidegger tornerà su questa «lotta contro lo sradicamento».
Altra assenza (a fianco della «assenza di suolo»), quella di «mondo» qualifica ugualmente gli ebrei e il giudaismo. Se nel gergo heideggeriano la capacità di avere un mondo («l'autentico Essere al mondo») distingue l'uomo dall'animale («povero di mondo»), gli ebrei non sono collocati nemmeno a livello degli animali poiché ogni «mondo» è loro rifiutato. Anche ammettendo che Heidegger spiega simile assenza con la «vuota razionalità», il «dono particolarmente accentuato per il calcolo», il «traffico», la «preparazione della birra» ed altre piacevolezze che attribuisce agli ebrei (in opposizione, va da sé, ad un pensiero «meditante» corollario della possibilità di un «abitare»), non si vede in cosa questo antisemitismo si distinguesse dalla vulgata nazional-socialista. Né quando Heidegger riprende la nota antifona dell'ebreo fautore di disordini, che getta i popoli in una guerra senza tuttavia prenderne parte. Per estensione ciò assumeva la forma di un «giudaismo internazionale» (una «macchinazione» incarnata dall'America, la Francia e l'Inghilterra) il cui compito, secondo il filosofo Heidegger, era «lo sradicamento dell'Essere» o «lo sradicamento completo» dei popoli. Per rimanere ai Quaderni neri, Heidegger arrivava a domandarsi «su cosa si fonda la particolare predisposizione della comunità ebraica per il crimine planetario?». Domanda che si è ben guardato dal porre a Hannah Arendt nel corso dei loro incontri.
Citiamo quest'altro eloquente passaggio dai Quaderni neri («Il giudaismo è, nello spazio-tempo dell'Occidente cristiano, vale a dire della metafisica, il principio di distruzione. Esso è ciò che distrugge nel rovesciamento della realizzazione della metafisica, vale a dire della metafisica di Hegel ad opera di Marx»). Insomma: distruggiamo quelli che vogliono distruggerci. Il concetto di «nemico interno» in Heidegger risale al 1933. Nei suoi corsi di fine anno invocava «lo sterminio totale» del nemico interno, riprendendo la parola d'ordine degli studenti nazisti di Friburgo che due giorni prima del primo autodafé del 24 giugno 1933 reclamavano «lo sterminio totale del giudeo-bolscevismo». Ricordiamo che nel corso di questo autodafé Heidegger ebbe a pronunciare il suo «Discorso alla cerimonia del solstizio d'estate», un breve pezzo di ardimento nel quale figuravano queste forti parole: «Fiamma, annunciaci, illuminaci, mostraci il sentiero da cui non vi è più ritorno». E non si dica che in Heidegger i sentieri non portavano da nessuna parte! Alcuni, come vedremo meno di dieci anni dopo, portarono effettivamente a ben altri autodafé nient’affatto simbolici, con una semplice andata, senza ritorno.
Bisogna associare qui la nozione di «nemico interno» a quella di «guerra invisibile». Heidegger vi si riferisce una prima volta nella lettera indirizzata nel novembre 1939 a Doris Bauch: «Credo che siamo appena all'inizio di ciò che questa guerra invisibile ci porterà». Questa affermazione risulterà meno oscura sapendo, come indica Sidonie Kellerer, che un «testo di formazione pubblicato qualche mese prima, nel maggio 1939», diffuso dalla lega nazional-socialista dei soldati del Reich, si intitolava: «La guerra invisibile e la sua sfilata per il soldato tedesco». In quel documento si parlava di «forze nascoste» che conducevano una politica estera e mondiale «segreta», una «guerra subdola» contro ovviamente gli interessi nazionali tedeschi. Vi si apprende rapidamente senza troppe sorprese che quel «nemico interno» altri non era che il «giudaismo mondiale». Di conseguenza, combattere quel «nemico invisibile» necessitava di una guerra non meno invisibile e totale. Da qui il principio del silenzio («Tedesco, impara a tacere!») formulato nel Mein Kampf. Heidegger, in questa corrispondenza, non fece che anticipare la «soluzione finale», presa, bisogna ricordarlo, nel più gran segreto da Hitler e dai suoi. Un'altra lettera indirizzata nell'agosto 1941 a Kurt Bauch («Adesso la guerra russa è là; ma il suo significato la trascende. Non è necessario che mi dilunghi, perché tu ne sai più di me. Ma io ne so abbastanza») è carica di sottintesi. Sappiamo bene il genere di «trascendenza» cui alludeva Heidegger.
Coloro che vorrebbero relativizzare o minimizzare l'importanza di questi estratti di corrispondenza, sostenendo ancora una volta che si tratta di affermazioni private, possono fare riferimento a quanto scriveva il professor Heidegger nei suoi corsi nel periodo 1939-1941. Heidegger scriveva qui («Il pensiero della razza, questo significa, che il fatto di tener conto della razza scaturisce dall'esperienza dell'essere come soggettività e non attiene alla "politica". L'allevamento-della-razza è una via all'autoaffermazione in vista della dominazione. A questo pensiero viene incontro la spiegazione dell'essere come "vita", cioè come "dinamica"») e là («Ma esiste una differenza abissale tra l'appartenere a una razza e lo stabilire motu proprio ed espressamente una razza, come "principio, come punto di partenza e meta dell'esser-uomo; soprattutto quando la selezione razziale è propriamente condotta non solo come una condizione dell'esser-uomo, ma quando questo esser-razza e il dominio di questa razza sono eretti a fine ultimo»).
Queste righe tanto nauseanti quanto astruse provano quanto Heidegger facesse della selezione razziale l'espressione ultima della metafisica. Il secondo estratto si rivela ancora più compromettente poiché questa apologia della selezione razziale era precisamente contemporanea, lo sottolineo, alla messa in atto della «soluzione finale», giustificata in qualche modo nella lingua stessa del filosofo. 
Non è stato solo l'individuo Heidegger a garantire la politica razziale e sterminatrice dei nazisti, ma tutta la sua filosofia!
 
[aprile 2015]
 
 
 
 
 
 

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Nel 1946 Günther Anders ricorda
una cartolina venduta a Friburgo negli anni 30
– ritrovata nella Biblioteca nazionale d'Austria –
raffigurante Heidegger (il piccoletto baffuto al centro),
rettore dell’Università, che sfila con le Squadre d’Assalto