Brulotti

La salute è in noi

Corfinio [Umberto Postiglione]
 

Chi s'avventura su per l'erta d'un monte per toccare la vetta più alta, allorché il sentiero si biforca o le nebbie l'avvolgono subitamente o le raffiche della tormenta lo investono, è costretto ad arrestarsi per scrutare l'orizzonte, per riandare il cammino che ha fatto, per misurare le sue forze e la distanza che ancora lo separa dalla meta.

V'è allora chi scorato e sfinito s'accascia in attesa che la tormenta s'acquieti e il sole fughi la nebbia; v'è chi prende la via del ritorno, v'è chi invece il pericolo non paventa ma sfida, nella bufera sente il pungolo che lo stimola e lo sprona, sente una voce arcana che dice: cammina o perisci, e lo conquide e gli infonde nuova lena e nuovo ardore, e indomito si lancia alla conquista del monte.

Così, v'hanno nella vita dei popoli, dei partiti e degli individui ore fosche e perigliose in cui maturano e precipitano le latenti crisi, in cui si decidono le sorti dell'avvenire, in cui gli uomini oscillano titubanti dinnanzi alle molte vie che ad essi si schiudono.
Il proletariato attraversa oggi una di quelle ore.

Fermenta dappertutto il malcontento, e in ogni contrada s'accendono le dispute e le zuffe fra salariati e padroni.

Le contese si susseguono l'una all'altra, ma sfumano come fuochi fatui. Non sono folgori che scoppiano improvvisamente solcando il cielo, illuminando l'orizzonte; ma nuvolaglie che s'addensano e s'accavallano e veleggiano come barche randagie e poi dileguan al primo strider della bufera.

Il vecchio titano ignaro scuote le membra intorpidite e si stropiccia gli occhi alla luce che d'un tratto l'abbaglia.

Ma non osa levarsi.

Che a lui non tocchi la triste sorte dei viandanti di cui parlano le vecchie istorie, che sulle nevi del San Bernardo s'assopivano per riprendere forza, ma non si svegliavano più mai, sepolti dalla valanga, inghiottiti dal vortice della tormenta o assiderati dal gelo.

Se questo tempo dovesse durare, le moltitudini or ora svegliatesi potrebbero, disilluse dagli sforzi infruttuosi, cadere in una nera diffidenza di uomini ed idee, sommergersi nuovamente nel letargo neghittoso ed imbelle, per rassegnarsi alle loro pene e concludere amaramente: il nostro regno non è di questa terra.

 
L'emancipazione e la rigenerazione del proletariato, non possono essere opera di agenti estranei e dell'altrui forze.

Verità questa, detta e decantata le mille volte, ma pur sempre dimenticata quando più era necessario tenerla presente, quando, nei momenti decisivi per i nostri destini futuri, doveva informare i nostri atti, illuminare la nostra via.

Le moltitudini non ci seguono, si dice.

Ma cosa abbiamo fatto noi per persuaderle che in noi e in esse è forza abbastanza per vincere? Cosa abbiamo fatto noi per sedurle o trascinarle all'azione con la virtù dell'esempio?

Basta soltanto promettere loro un migliore avvenire: il benessere, la giustizia, la libertà?

Promettere!?

Oh! non v'è governo, non v'è tiranno, non v'è usurpatore che non abbia un giorno chiamato il popolo a combattere per la giustizia e per la libertà. E il popolo accorse ieri e purtroppo accorre ancor oggi a combattere sotto le variopinte bandiere, per la vittoria di queste due dee superstiti: giustizia e libertà.

Ma per rivedersi all'indomani più oppresso sfruttato frustrato e ingannato di prima.

E anche nelle lotte per il suo risorgimento, il popolo lavoratore fu mille volte illuso, deluso, tradito.

Volendo riandare alle ragioni che mandarono a vuoto, e resero sterili e vane le agitazioni operaie, rosse dei bagliori della rivolta in sul nascere, inceppate, sviate, soffocate di poi, noi dobbiamo confessare che quelle ragioni, se ricercate spassionatamente, le troviamo in noi, nelle nostre esitanze, nelle nostre incertezze, nelle nostre contraddizioni e... perché non dirlo?... nella nostra codardia.

No. Non le moltitudini, mancarono. Mancarono i pochi. Mancarono le minoranze audaci, decise a tutto, al sacrificio estremo, alla morte, che si lanciassero con un grido nella mischia, con un ruggito di leone che fugasse i brividi delle codarde paure nelle plebi ammutinate e infondesse nelle loro vene i fremiti e l'ardore della battaglia, che mettesse lo sgomento e lo scompiglio tra le orde mercenarie del nemico.

Ma gli uomini come sogliono alle volte aspettarsi da un agente estraneo — qual è ad esempio il governo — una luce ed una forza che essi stessi gli danno, così all'inverso sogliono accollare ad altri le responsabilità di un malanno di cui essi stessi sono la causa.

In noi è la radice del male e in noi deve essere la forza medicatrice.

Sì: la salute è in noi, in niun altro che in noi.

È nella rigidezza dei nostri principi, nella tenacia dei nostri propositi, nell'audacia delle nostre azioni, nell'indissolubilità del patto giurato a noi stessi dinnanzi all'altare della nostra coscienza di spezzarci sì, ma piegarci mai.

Ma — disse Machiavelli — gli uomini prendono certe vie del mezzo che sono dannosissime, perché non sanno essere né tutti buoni, né tutti cattivi.


 
L'ora che volge è decisiva per noi; si può dire che abbia il valore di un’epoca.

Non parlo dell'America soltanto, badate. E, del resto, non bisogna dimenticare che l'atteggiamento baldanzoso e combattivo bruscamente assunto dalle consorterie della grande repubblica, è in stretta e diretta relazione con l'attuale momento politico in Europa.

Le plebi possono in quest'ora imparare più che non attraverso decenni di apostolato e di propaganda evangelica, o nella lettura di mille volumi di teoriche. E nel precipitare improvviso di tanti avvenimenti inattesi potrebbe scoccare l'ora nostra. Corre per noi debito di vigilare. Addormentandoci in quest'ora, forse non ci sveglieremmo mai più.

Come il viandante sulle nevi delle Alpi.

Ammonisce la sapienza latina: L'occasione ha i capelli sulla fronte, di dietro al capo è calva; se l'afferrate pel ciuffo, potete tenerla; ma se ve la lasciate scappare, Giove stesso non potrebbe raggiungerla.

 
 
[Cronaca Sovversiva, 7 ottobre 1916]