Brulotti

C'è da fare

Una volta, tanto e tanto tempo fa, in un'epoca ormai così lontana da sembrare mitica, la teoria e la pratica costituivano i due poli magnetici di una vita umana che si potrebbe definire responsabile. Non una esistenza trascinata nelle mutilazioni imposte da abitudini o eredità, ma una vita piena, lanciata verso una prospettiva scelta in maniera autonoma piuttosto che trovata già pronta e determinata. Qui teoria e pratica, pensiero e azione, andavano di pari passo tenendosi mano nella mano. Le riflessioni servivano ai riflessi tanto quanto i riflessi servivano alle riflessioni. Si alimentavano, si stimolavano e si correggevano reciprocamente. Pur avendo entrambi le loro esclusive esigenze — i loro tempi, i loro spazi, i loro strumenti — non venivano mai percepiti come contrapposti, ma come complementari.
All'inizio del terzo millennio infestato da cuori putridi, ciò appare come una favola per anime belle. Qualcosa da raccontare, un po' per ridere un po' per sognare, ma in cui non credere punto. Dopo che il significato è stato talmente offuscato da permettere che un missile possa venir chiamato «custode di pace», dopo che il linguaggio è stato talmente ridotto da accontentarsi di un cinguettio, non è strano se una dimensione della vita umana — quella legata alla teoria — sia stata marginalizzata per favorire l'espansione dell'altra — quella della pratica.
Ma cos'è un movimento privo di ogni riflessione, se non un riflesso condizionato, un tic corporale, un fare coatto? Se il culto del fatto a scapito del pensato è diventato oggi imperante, è perché rispecchia sia il pragmatismo della cultura anglosassone culla del capitalismo, sia la razionalità operativa pretesa ed imposta dalla tecnologia. È quando si lavora, è quando si funziona, che si va avanti senza pensare. 
Ecco perché è istruttivo confrontare due definizioni del termine praticismo, quella reperibile oggi nella rete e quella leggibile su un dizionario dello scorso millennio. L'enciclopedia Treccani.it definisce il praticismo come «Atteggiamento, comportamento, metodo fondato più sull’esperienza pratica che su principî teorici; si dice spesso con valore limitativo, riferito a sistemi, procedimenti empirici che non si avvalgono di validi fondamenti scientifici. Per estens., senso pratico, modo di condursi che cerca risultati concreti». Il praticismo denota quindi persone esperte, con i piedi ben piantati per terra, che non sanno che farsene delle astrazioni; anche qualora apparissero belle e giuste, non ne hanno nemmeno bisogno per raggiungere i fatti concreti. Invece se si consulta il dizionario Devoto-Oli (edizione del 1991) questo stesso praticismo diventa «atteggiamento o comportamento ispirato a dati banalmente empirici e impersonali». Più che una sana virtù, un rozzo difetto che denota mancanza di originalità e conoscenza.
Oggi chi ignora i principi teorici è considerato una persona concreta, mentre ieri era ritenuto una persona ottusa. Lo slittamento di senso intercorso nel tempo è evidente ed ha fatto i suoi danni all'interno di ogni ambito, giacché dappertutto si odono uomini e donne del fare che irridono chi si ostina a pensare. Ma l'assurdità di tale pretesa — che la squisita elevazione del braccio possa avvenire in un corpo senza mente — salta talmente agli occhi da costringere chi non vuole apparire un burattino a trovare una motivazione logica al proprio dinamismo. La principale è forse quella bizzarra convinzione secondo cui l'esperienza pratica costituisce quel momento in grado di dare senso ad una vita intera, vera e propria illuminazione capace di rendere superflua ogni ulteriore preoccupazione. Come se alla teoria venisse riconosciuto al massimo il ruolo preparatorio di spingere sulle barricate, scalate le quali essa può cessare di esistere, anzi, deve cessare di esistere se non vuole diventare un ostacolo. La luce del giorno è utile per individuare gli obiettivi e studiare le strade, ma poi scende la notte eterna dell'azione e le riflessioni devono tacere per lasciare corso ai riflessi?
Ecco, quando sentiamo questi ritornelli ci viene in mente Giovanni Nicotera. A vent'anni Nicotera combatté nei moti del 1848 a fianco di Mazzini e Garibaldi. Nel 1859 fu uno dei pochi sopravvissuti alla spedizione di Sapri, e si narra che Carlo Pisacane gli sia morto fra le braccia chiedendogli come ultimo desiderio quello di prendersi cura della figlia Silvia. Condannato prima a morte, poi all'ergastolo, Nicotera venne liberato da Garibaldi a cui si unì per combattere a favore della liberazione dell'Italia. Mantenne la parola data a Pisacane, accogliendo in casa e facendo da padre adottivo alla figlia del generoso rivoluzionario. Sfidare la morte in battaglia, uccidere il nemico e vedere morire i propri compagni, aspettare di salire sul patibolo e patire la prigione. Tutto questo furore dovrebbe bastare per evitare per sempre di salire sugli scranni, non è vero? Macché! Entrato in politica, Nicotera fu per due volte ministro degli Interni, dal 1876 al 1877 e dal 1891 al 1892, distinguendosi per il suo rigore. Nel 1877 era intenzionato a portare davanti al plotone di esecuzione Malatesta e gli altri anarchici della banda del Matese, e solo l'intervento di Silvia Pisacane scongiurò tale tragedia. Meno di venti anni erano bastati per trasformare l'insorto rivoluzionario in un boia di Stato. Forse che in gioventù non era mosso da buone intenzioni? Forse che era rimasto sempre chiuso in una torre d'avorio? 
No, decisamente l'esperienza pratica non è il compimento, o il surrogato, o il sostituto della progettualità teorica. Momenti complementari, non alternativi né subordinati. Le riflessioni senza riflessi sono accademia e rendono deboli, i riflessi senza riflessioni sono sport e rendono stupidi.
Oggi un po' tutti, nessuno escluso, siamo più deboli e più stupidi. Ma se non ci si vuole arrendere all'evidenza...
 
[2/6/17]