Brulotti

Il medico e il denaro

Jean Reverzy
 
La visita, dialogo del malato e del dottore, assomiglia a una tragedia in quattro atti. Atto primo: due esseri sono uno di fronte all'altro e cercano di riconoscersi. Atto secondo: il malato si sveste, esibisce il corpo nudo a una persona che conosce da dieci minuti e che lo tasta e lo ausculta. Atto terzo: il malato si riveste. Dalle due parti la simpatia e la fiducia sono evidenti o sottintese. Il dottore spiega, consiglia, placa le paure; ma il dramma non è finito: sta per cominciare il quarto e ultimo atto, brevissimo; bisogna pagare la visita. Momento temibile. Ed ecco che il dialogo si turba; il paziente, per quanta fretta abbia di versare il suo obolo, tarda a tendere i biglietti o lo fa con troppa sollecitudine. E il medico, più ancora di lui, è imbarazzato: il tono si abbassa o si alza, le parole vengono male. Questo impaccio nel chiedere denaro onora il professionista: se si sente a disagio, è perché improvvisamente la sua parte è cambiata; e quella di commerciante non gli si adatta punto. Il negoziante ignora questi pudori nel reclamare ciò che gli è dovuto; ma il medico ne soffre. Prima di dire: «Lei mi deve tanto...» egli passa attraverso un conflitto segreto, un dolore di vendere la simpatia, la fiducia, la serietà professionale.
Un tale quadro sintetico della visita, con la sua conclusione sempre stonata, getta un po' di luce sulla psicologia e sulla condotta dei medici, che a volte si potrebbero paragonare a quei compagni di Ulisse trasformati in porci da una maga, i quali però, nella loro condizione animale, conservavano ancora il riflesso spirituale della originaria condizione umana. E se il denaro malefico, necessario ai medici come a tutti gli altri uomini, non li ha ancora trasformati, sembra però averli singolarmente immeschiniti.
Queste riflessioni non vogliono esser polemiche; il loro autore, che è medico, è sottoposto alla legge comune e ne parla perciò in tutta libertà. Contro questa legge che regola il mondo medico, la legge del guadagno, nessuno si è ancora ribellato: nei suoi confronti c'è solo un disagio che si acutizza quando si tratta di chieder denaro ai malati.
 
Medico si diventa per vocazione, cioè spinti da amore o desiderio di conoscenza; considerazioni di denaro sono quasi sempre estranee alla scelta di una professione che, dopo studi facili, ma  lunghi e costosi, pone colui che la eserciterà al di sopra degli altri uomini, senza liberarlo dalle condizioni materiali della vita. Tra i venticinque anni e i trenta si cerca una casa; si comprano alcuni• apparecchi; si avvita alla porta una targa di ottone e si aspetta il malato. E da quel giorno, quello in cui si è aperta bottega, compare una nuova preoccupazione: bisogna vivere, pagare le fatture; c'è bisogno di denaro. Oltre la medicina, si comincia a intravedere il commercio, inevitabile; una parte dell'antico ideale si è già dileguata. A trentacinque anni, piccolo o grande medico che si possa essere, si è il più delle volte un uomo «arrivato»; a questo punto è possibile un calcolo approssimativo della fortuna del medico. Un buon professionista di grande città ha un «volume d'affari» dai quattro ai cinque milioni; il grande medico, il chirurgo noto ne guadagnano, facendo una media tra annate buone e cattive, dai dieci ai quindici. La differenza dei redditi è comprensibile quando si pensa che il prezzo di una visita varia da cinquecento franchi a diecimila. Le tariffe sono stabilite, non secondo l'efficacia delle cure, ma in base ai titoli, all'età, alla fama; ci sono medici per tutte le borse. Fatto degno di nota: le preoccupazioni finanziarie, pur quando incalzano il dottore, non turbano mai la sua coscienza professionale; solo eccezionalmente si vedono cattivi medici.
L'imborghesimento si fa peraltro più evidente via via che si sale nella gerarchia. Sopra al dottore di quartiere o di campagna, modesto risparmiatore che muore sul lavoro dopo una vita di fatica, il grande medico, schiacciato dalla stessa stanchezza del suo umile collega, è quel che si può ben chiamare un grosso borghese. E questa condizione appare come una macchia stridente nella professione. Il figlio del grande medico, spesso, succede al padre: una cattedra, un reparto in ospedale, si ereditano come capitali commerciali. E questo sorprende perché, a giudicare dalle lettere e dalle scienze, sembra molto raro che il talento si trasmetta ereditariamente. Ma la medicina non è una scienza, o lo diventerà solo domani.
Certo, il denaro non ha ancora assorbito il medico al punto da farlo deviare dal suo vero destino. Mille atti caritatevoli riempiono la vita del più avido di denaro; nessuno mai rifiutò le sue cure a un paziente perché era povero. Alcuni, dopo una lunga e sfibrante carriera, muoiono nel bisogno. Ma la gratuità, peraltro resa sempre più difficile da nuove leggi che codificano e ratificano ogni azione, non manca generalmente di suscitare qualche esitazione.
Il fatto è che il medico si è definitivamente sistemato nella condizione borghese che gli assicura benessere materiale e intellettuale. La monotonia del suo mestiere, il più estenuante di tutti, minaccia d'altronde la sua intelligenza. L'automatismo di parole e gesti continuamente ripetuti l'ha ridotto alla situazione paradossale di uomo attaccato ai valori borghesi della fama e del denaro, il quale però, nell'esercizio della sua professione, constata a ogni istante l'irrimediabile fuga della vita.
 
[1955]