Brecce

Memorie di un comunardo

Gustave Lefrançais
 
19 marzo 1871
Il sole s'è fatto comunardo.
Il tempo è splendido. Una brezza primaverile agita la bandiera rossa che sventola sull'Hôtel-de-Ville circondato da cannoni dall'aspetto, dopo tutto, abbastanza bonario.
Questi cannoni sono sorvegliati soltanto da poche sentinelle che vietano di avvicinarsi alle numerose persone che si soffermano sulla piazza.
I volti sono curiosi ma senza ansietà.
Ci si chiede che cosa succederà. Poiché, sebbene il governo di Thiers abbia lasciato Parigi nella notte, si suppone che non tutto sia finito.
Fedele al suo mandato di mantenere ad ogni costo la Repubblica e non di governarla, il Comitato Centrale ha già fatto affiggere un proclama nel quale spiega che ogni suo potere è scaduto e che desidera rimettersi al più presto a coloro che il popolo sarà subito chiamato ad eleggere.
Un provvedimento che si discute molto nei dintorni dell'Hôtel-de-Ville è la necessità di marciare senza indugio su Versailles per impedire che l'Assemblea di Bordeaux vi si riunisca domani.
È infatti d'estrema urgenza che Thiers e i suoi complici non trovino nessun appoggio nell'Assemblea per organizzare la contro-rivoluzione.
Del resto, questa Assemblea aveva il compito specifico di regolare le condizioni di pace con la Germania. Tale questione è ormai risolta e quindi il suo mandato è legalmente esaurito.
Opporsi a che si riunisca di nuovo è un diritto e insieme un atto di prudenza.
Mi sembra impossibile che ciò possa sfuggire alla chiaroveggenza degli uomini che sono all'Hôtel-de-Ville. La sicurezza di Parigi lo richiede perentoriamente.
Questo è il ragionamento dei partigiani di un attacco immediato su Versailles, e mi pare che siano nel vero.
Ma il Comitato Centrale è davvero così  padrone della situazione come fa supporre la sua presenza all'Hôtel-de-Ville?
Le municipalità elette dopo il 31 ottobre pretendono che il Comitato non abbia di meglio da fare che restituire loro la “Casa del popolo”. Questa stravagante pretesa è stata nettamente respinta; eppure si dice che taluni membri del Comitato abbiano avuto la debolezza di ammetterla a bella prima. Insomma, a qual titolo si sarebbe concesso a codesti signori questo segno di fiducia?
Forse che, tranne qualche rara eccezione, non si sono tutti prosternati dinanzi al governo della Difesa nazionale e non si sono prestati ai suoi molteplici tradimenti?
Abbandonando a costoro la situazione, il Comitato commetterebbe a sua volta la più indegna e la più ingiustificabile viltà. Ne è incapace.
Soltanto è chiaro che i respinti, codesti signori, sindaci e assessori, faranno ogni sforzo per metter bastoni tra le ruote, ciò che toglierà al Comitato Centrale la libertà di spirito e d'iniziativa di cui avrebbe tanto bisogno per dare al movimento quell'espansione senza cui non può trionfare.
C'era riunione oggi, alle due, da Chavagnat, il presidente della Società dei “Difensori della Repubblica”. Io sono persuaso che questi terribili difensori non difenderanno proprio nulla.
Quel titolo è troppo pesante per loro. Dovevano chiamarsi più semplicemente gli “Amici” della Repubblica. Ciò che non implica nessun obbligo.
Il loro grande argomento è che il Comitato Centrale non è composto che da ignoti!
Ignoti! Ecco detta la grande parola.
Anzitutto, mi pare che Flourens, Ranvier e Varlin non siano tanto ignoti — almeno a Parigi. E poi, quelli che nella notte del 10 agosto 1792 organizzarono la Comune, costringendo la Convenzione a proclamar decaduto Luigi XVI, non erano parimenti ignoti?
E allora perché gli storici d'oggi, tra cui Louis Blanc che, anche lui, parla «d'individui senza mandato», fanno tanto di cappello agli ignoti di quell'epoca?
Tra i noti dell'ora attuale, quanti ce ne sono nei quali il popolo di Parigi possa riporre una maggiore fiducia? La lista non sarebbe lunga!
E che importa, dopo tutto, che questi uomini siano più o meno noti? Essi non parlano affatto d'imporsi.
Parigi, sei mesi fa, ha commesso la sciocchezza di affidare i destini della Repubblica a traditori noti, anzi notissimi. Il Comitato Centrale, composto da delegati della Guardia nazionale di Parigi, ha costretto questi traditori ad abbandonare il loro posto. Si dichiara pronto a cederlo a sua volta a quelli che saranno di nuovo liberamente eletti. Che c'è dunque da temere?
Non si ripudieranno mai le tradizioni dinastiche che ossessionano i cervelli dei nostri repubblicani così come quelli dei monarchici!
Il Gaulois, che con il Figaro è a capo della reazione sulla stampa poliziesca, ha trovato un piccolo trucco per tentare, anch'esso, di diminuire l'importanza del Comitato Centrale.
La prova che questo Comitato non rappresenta niente, dice il giornale, è che è abbandonato non solo dai più sinceri repubblicani, ma anche dai socialisti, dei quali non uno tra i più noti figura all'Hôtel-de-Ville.
Non tanto per contraddire il Gaulois di cui non ci curiamo affatto, quanto per accentuare ancora la nostra precedente adesione al Comitato Centrale, cogliamo l'occasione del prossimo scrutinio al quale sono convocati gli elettori — malgrado l'opposizione dei giornali che si pretendono repubblicani — per rivolgere ai parigini un appello nel quale li scongiuriamo di stabilire col loro voto una rappresentanza municipale che renda a Parigi la sicurezza che non ha potuto procurarle nessuno dei governi autoritari che sinora l'hanno oppressa.
Questo appello è firmato: Ch. Beslay, Briosne, Baux, H. Bocquet, Bedouche, A. Breuillé, Chalvet, Camélinat, Ch. Dumont, P. Denis, Th. Fersé, Hamet, A. Lyas, G. Lefrançais, C. Martin, E. Pottier, Ch. Rochat, Régnier, Thélidon, Theisz, Vaillant e J. Valles.
Non sarà detto che quelli che dal 1868 hanno ripreso la campagna socialista rivoluzionaria, abbandonino i cittadini che tengono salda nel pugno, all'Hôtel-de-Ville, la bandiera del popolo, la bandiera della Rivoluzione sociale, con l'ipocrita pretesto che questi cittadini sono ignoti.
Successivamente eliminati dai loro uffici dai delegati del Comitato Centrale, i sindaci e gli assessori dei quartieri reazionari si sono riuniti intorno a Tirard, sindaco del secondo circondario, che s'è proclamato capo della resistenza alla Rivoluzione.
Codesto signore ha accumulato nel suo municipio mitragliatrici e munizioni.
Ha promosso a comandante in capo dei suoi battaglioni un certo De Quevauvilliers, camiciaio della via Richelieu, noto bonapartista. È coadiuvato dal suo assessore Cheron, membro della Società dei “Difensori della Repubblica” e da un Héligon, ex-membro dell'Internazionale, da tempo sospettato dai suoi antichi compagni di rapporti con la polizia sotto l'Impero.
Tali sono i luogotenenti di Tirard, questo moderno eroe dell'esercito dell'ordine.
Le pretese di questa gente diventano noiose, e il Comitato Centrale finisce per metterli a posto.
Dopo un proclama abbastanza secco dei cittadini Endes e Duval, incaricati di prender possesso dei municipi recalcitranti del primo e del secondo circondario, questi sono occupati senza la minima resistenza da parte dei millantatori che se n'eran fatti custodi.
Era l'ultima carta della reazione, dopo la ridicola scaramuccia dei soci del Jockey Club a piazza Vendôme.
Così Parigi è ora tutta della Rivoluzione.
Ma si è lasciato passare il momento di occupare Versailles.
L'Assemblea e il governo vi si sono riuniti e possono organizzarvi una resistenza più seria di quella dei Tirard e compagni.
È un gran male. Forse irreparabile.
Che tutta la responsabilità ricada sui sindaci di Parigi e sui deputati della Senna che, con la loro miserabile condotta durante una settimana, hanno fatto perdere tempo prezioso alle forze rivoluzionarie riunite all'Hôtel-de-Ville.
 
28 marzo 1871
La Comune viene proclamata sulla piazza dell'Hôtel-de-Ville, alle grida centomila e centomila volte ripetute di «Viva la Repubblica! Viva la Comune! Viva la Sociale!».
La piazza, la via Rivoli, i lungosenna sono gremiti di guardie nazionali federate, le cui baionette sono adorne di una piccola coccarda rossa che dà loro un aspetto indefinibile e sorprendente.
Grande e bella giornata per la nostra storia rivoluzionaria!
Ah! se la provincia potesse vedere quest'imponente scena, il suo cuore come batterebbe all'unisono con i nostri!
Il 28 marzo segna la data di una nuova era sociale.
Se la provincia lo comprende, siamo forse alla fine della miseria dei lavoratori.
Ma senza dubbio non ne saprà nulla. Il governo di Versailles farà tutto il possibile perché essa ignori quanto accade, o meglio per snaturarne il carattere. In questo caso avremo la guerra civile, mentre Parigi è ancora bloccata per metà dall'esercito tedesco.
Non posso fare a meno di pensarci, in mezzo agli allegri clamori e ai canti di trionfo che si elevano da ogni parte.
Anche i membri del Comitato Centrale partecipano a questa allegra ebbrezza del trionfo e ne hanno diritto.
In dieci giorni, attraverso una tremenda crisi, con un meraviglioso istinto e una calma costante, hanno risolto la situazione ch'era loro toccata e hanno compiuto il programma che s'eran tracciato.
Hanno mostrato questi ignoti — e ciò probabilmente i loro avversari non lo perdoneranno mai — che il popolo può ormai fare a meno della tutela di coloro che sinora s'erano dichiarati gli unici capaci di guidarlo verso i suoi destini.
Per di più, questi ignoranti, come vengono chiamati, hanno creato un'importante letteratura politica rivoluzionaria, tanto sono eccellenti i loro proclami per la chiarezza, la nobiltà e la semplicità dello stile.
Qualunque cosa accada, questo regime d'ignoti, d'ignoranti sarà un giorno la gloria della rivoluzione del 18 marzo, la prima rivoluzione veramente popolare.
Anche Vermoral è stato eletto a Montmartre, benché assente, con 13.400 voti. Ciò dimostra che i rivoluzionari non hanno tenuto nessun conto delle calunnie con cui i pretesi repubblicani, del Siècle o dell'Avenir National, lo hanno sommerso.
Ma, pensavo tra me, sarà un seggio vuoto. Vermoral è partito da otto giorni per andare dalla madre, nei dintorni di Lione, e non tornerà davvero nella fornace, quando proprio nessuno può accusarlo di aver contribuito anche in minima parte ad accenderla.
Egli si trova sotto quest'aspetto in un'assoluta indipendenza morale e può, senza timore, declinare il mandato di cui è stato investito senza neppure esser consultato.
Quale non è stata la mia sorpresa nell'incontrarlo, l'indomani, mentre salivo la scala che conduce alla sala del Consiglio.
— «Voi qui?».
— «Proprio. Mi dispiace soltanto di non essere arrivato in tempo per la prima seduta. Ma, per tornare, ho dovuto lanciare sopra una falsa pista degli agenti che mi seguivano da Lione. Ciò mi ha procurato un ritardo di circa dieci ore».
— «Come vi siete deciso a venirvi a gettare nella mischia?».
— «Dove probabilmente resteremo tutti, lo so. Ma che importa... Ho saputo lunedì della mia elezione e ho riflettuto tutto un giorno su quel che dovevo fare. Come voi e molti altri, suppongo, io non credo al successo dell'impresa nelle terribili complicazioni in cui si verrà a trovare. Ma sarebbe davvero troppo comodo mettersi al riparo di questo pessimismo per restare a braccia conserte in questo momento. Il problema è posto in cattivi termini, è vero; ma nondimeno bisogna tentare di risolverlo. Questa è la risposta che mi sono dato... ed eccomi qui».
È proprio l'uomo che mi hanno fatto conoscere le nostre lunghe conversazioni alla prigione della Conciergerie. Gli stringo la mano per tutta risposta.
La sua entrata produce una certa meraviglia.
Certo nessuno s'aspettava di vederlo venire a prender possesso del suo seggio alla Comune.
Quale differenza tra un Tirard e quest'uomo che accetta, dopo matura riflessione, la conseguenza — forse tremenda — di un mandato che non ha sollecitato, e neppure desiderato!
Varlin, un rilegatore; Jourdé, un semplice contabile, hanno saputo riorganizzare perfettamente il servizio delle finanze.
La Zecca, sotto la direzione del bronzista Camélinat, conia di nuovo per la Comune e a condizioni più economiche, in virtù di una scoperta del nuovo direttore sulla lega che vien fatta con criteri più rigorosamente scientifici. Theisz, un cesellatore in bronzo — come il suo ex-amico Telain, il transfuga — aiutato dal cittadino Massen, un professore, e soprattutto per lo zelo dei postini dei quali pochissimi hanno disertato insieme al loro direttore Rampont, fanno funzionare benissimo il servizio postale per Parigi.
Se le relazioni di Parigi con la provincia sono di nuovo interrotte, bisogna prendersela con Thiers che non ha esitato a sospenderle, malgrado le offerte che gli avevamo fatto trasmettere dai delegati del commercio parigino per neutralizzare questo servizio pubblico.
Le offerte erano le seguenti:
La Direzione generale delle Poste e dei telegrafi si comporrà di tre rappresentanti, uno nominato dalla Comune, un altro da Versailles e il terzo dai commercianti e industriali di Parigi, di modo che siano tutelati i diritti finanziari dello Stato e quelli della Comune. Il rappresentante del commercio e dell'industria parigina avrà le funzioni di controllore e anche d'arbitro in caso di conflitto.
Thiers ha recisamente rifiutato.
 
2 aprile1871
Tutta Parigi — borghesi e proletari — è furibonda d'indignazione.
Versailles ha preso l'iniziativa della guerra civile e senza nessuna provocazione ha fatto tirare sui nostri agli avamposti di Courbevoie.
Il più ignobile pretoriano dell'Impero, Gallifet, ha aperto il fuoco e, quel che è peggio, ha fatto fucilare dei prigionieri, spingendo il cinismo sino a vantarsene in un proclama!
Questo solo atto avrebbe dovuto provocarne l'immediata sostituzione, se non fosse stato evidentemente d'accordo con Versailles.
Così Thiers ha voluto dimostrare alla Provincia che è «finalmente riuscito a organizzare uno dei più begli eserciti che la Francia abbia mai avuto».
Dinanzi a questo atto abominevole, la coscienza pubblica è insorta. Io stesso ho parlato con dei commercianti, sinora indecisi, che si dichiarano apertamente per la Comune.
 
3 aprile 1871
Il massacro dei prigionieri è elevato a sistema da Versailles.
Incoraggiati dalla nostra prima sconfitta, i generali di Thiers si sono affrettati ad imitare Gallifet.
Duval e i suoi millecinquecento compagni hanno dovuto arrendersi la sera del 4 aprile — con promessa d'aver salva la vita — ed ecco che panduro Vinoy, il firmatario della piazza Pigalle nella mattinata del 18 marzo, ha voluto lavare la sua onta nel sangue del nostro valoroso amico e di due suoi ufficiali di stato maggiore, che ha fatto vilmente fucilare.
A Rueil, ieri, il disgraziato ed eroico Flourens è stato assassinato dal capitano dei gendarmi Desmarest che, freddamente, gli ha letteralmente spaccato la testa con un colpo di sciabola.
Legittimamente esasperati dal racconto di queste atrocità, i federati reclamano energici provvedimenti contro i reazionari ancora rimasti a Parigi e che già trionfano rumorosamente della nostra disfatta.
Questa esasperazione troppo giustificata potrebbe pure produrre spaventose rappresaglie, di cui Thiers e compagni sarebbero in verità gli unici responsabili.
Ma che importa questa responsabilità per l'avvenire? Bisogna anzitutto provvedere ad altre eventualità.
A tale scopo il Consiglio della Comune ha pensato che l'unico partito da prendere fosse di dare maggiore sicurezza ai difensori della Comune e di garantirli dai tradimenti dei reazionari procedendo all'arresto di questi — a titolo di ostaggi — ogni volta che con i loro atti si dimostrassero avversari della Comune.
Si decreta quindi che ogni individuo imputato di complicità con Versailles sarà messo in stato d'arresto provvisorio e, nelle ventiquattro ore, sarà tradotto dinanzi a una giuria che deciderà della sua liberazione o del mantenimento del suo arresto.
In quest'ultimo caso sarà allora considerato come ostaggio.
Il decreto stabilisce in più che ogni esecuzione sommaria di un prigioniero di guerra appartenente alla Comune sarà seguita da una triplice esecuzione d'ostaggi designati dalla sorte.
Che le anime sensibili si uniscano pure ai nostri ipocriti e feroci avversari, e gridino finché vorranno al disprezzo dell'Umanità. Parlino pure di ritorno alla barbarie. Non saranno altro che stupidaggini.
Chi dunque è responsabile di questo provvedimento di legittima difesa, barbaro se si resta nella pura astrazione, assolutamente giustificato in questo caso?
Come! Non solo si dà, da Versailles, l'ordine di aprire il fuoco contro Parigi, ma si procede sin dal principio dell'azione al massacro dei prigionieri, massacro di cui ci si vanta in un proclama speciale!
Questo sistema, inaugurato a Courbevoie il 2 aprile, è continuato a Rueil il 3, a Châtillon il 4, e si vorrebbe che gli amici delle vittime, esposti a subire ad ogni momento la stessa sorte, aspettassero freddamente d'essere massacrati a loro volta, senza rendere colpo su colpo.
Quelli che trovano odioso il nostro decreto se la prendano con quelli che l'hanno reso inevitabile.
L'unico suo torto è d'essere illusorio, poiché la qualità e la quantità degli ostaggi di cui noi ci potremo impadronire è minima a paragone di quelli dei nostri contro cui Versailles infierirà.
Questo decreto renderà soltanto più cauti Thiers e compagni, d'ora innanzi assassineranno senza dir parola.
La tregua d'armi ottenuta dai massoni ha avuto una ripercussione del tutto inaspettata.
Ignorando le condizioni della tregua, limitata alla parte compresa tra Astières e il Point-de-jour, i comandanti dei forti di Vanves e d'Issy si son lasciati sorprendere sino al punto che i Versigliesi hanno potuto avanzare a meno di duecento metri dal forte d'Issy, già quasi inabitabile.
Il comandante Mégy, perdendo la testa, credette bene di abbandonarlo immediatamente, dopo aver fatto inchiodare i cannoni.
Per quasi quattro ore il forte restò in balìa dei Versigliesi, che tuttavia non poterono occuparlo.
V'era rimasto un solo difensore, il piccolo Dufour, di appena quindici anni. Egli se ne stava all'entrata, vicino a un barile di polvere, pronto a far saltare il ponte non appena i nemici vi si fossero avventurati.
Per fortuna capitò che il comandante d'un battaglione appostato al Point-de-jour, il cittadino Lavaud, dirigendo il suo binocolo su Issy, s'accorgesse di quanto accadeva.
Immediatamente partecipa la scoperta ai suoi uomini che, in numero di un centinaio, attraversano rapidamente il viadotto, arrivano al forte e ne riprendono tranquillamente possesso in barba al nemico.
I cannoni, inchiodati saldamente con cunei di legno, furono immediatamente rimessi in opera e poco dopo Vermorel conduceva i rinforzi sufficienti per difendere la posizione.
 
22 maggio 1871
Parigi rivoluzionaria ha ripreso il suo aspetto di due mesi fa, quando la sera del 18 marzo si temeva un ritorno offensivo delle forze reazionarie.
La faremo dunque finita con questo incubo dell'interminabile assedio, che dura dalla metà di settembre scorso quasi senza interruzione.
Finalmente si lotterà faccia a faccia. E poi, questo esercito che sta per entrare parla la nostra lingua, sono compatrioti, figli di proletari. Chi sa che, ricordando che abbiamo combattuto insieme i prussiani e insieme abbiamo difeso l'integrità del territorio di Parigi, questi soldati di Versailles non sentano l'ignominia della funzione che si è loro imposta?
Infine meglio per tutti questo faccia a faccia definitivo anziché il prolungamento indefinito di una lotta a distanza e senza via d'uscita.
Mi pare che questi siano i pensieri che ispirano in questo momento gli animi.
Le donne in special modo sono piene di slancio e lavorano senza posa alla costruzione delle barricate che gli uomini sapranno difendere.
Si attendono quasi con impazienza gli invasori, che si trattengono ancora sulle alture di Passy e del Trocadero di cui si sono impadroniti nella notte.
Andare incontro a loro per i larghi viali dei Champs-Elysées e di Cours-la-Reine, significherebbe esporsi a una sicura sconfitta. Soltanto al di qua di Piazza della Concordia, nelle strette e lunghe vie di Rivoli e di Saint-Honoré, la lotta offrirà eguali possibilità per i federati.
Sulla riva sinistra, e benché i Versigliesi siano già padroni del Campo di Marte che si sarebbe potuto difendere vantaggiosamente, la situazione è la stessa.
Soltanto al di qua del boulevard Montparnasse e degli Invalidi, s'impegnerà seriamente il combattimento.
I servizi della Guerra e della Sussistenza sono già installati all'Hôtel-de-Ville, donde ora partiranno gli ordini, e che diventerà il centro della resistenza, la tomba della Comune, se questa deve perire.
Maggioranza e minoranza — nelle persone di Ferré e di Vermorel — si danno la mano sulla grande scalinata della "Casa del popolo" e giurano di morire per la Rivoluzione.
 
Ora che possono senza rischio calpestare i vinti, i nemici della Comune vi si abbandonano a sazietà.
La loro infamia supera quella che mostrarono dopo il giugno 1848.
Parigi non è più che un immenso macello dove persino il re del Dahomey diventerebbe pazzo di terrore.
Scannare ogni tanto qualche centinaio di negri, bell'affare davvero! E del resto le braccia del reale massacratore e dei suoi aiutanti si stancano presto in quelle sanguinose feste!
Ma parlatemi della mitragliatrice — il «macinino da caffè» come lo chiamano cinicamente gli assassini inciviliti.
A centinaia alla volta questo strumento scientifico abbatte mutilandoli, uomini, donne e fanciulli; giacché anche i fanciulli partecipano alla «festa», mio caro amico.
Vengono colti — poetica e spiritosa immagine inventata da intelligenti giornalisti —, queste donne, questi fanciulli, o nelle loro povere abitazioni o quando vanno, piangendo, alla ricerca del marito, del padre; son condotti in qualche giardino pubblico o in una piazza, e crac! crac! tutto è finito. Senza fatica, come vedi, barbaro ingenuo...
Ah! se tu sapessi leggere il francese, ignorante monarca africano, come ti divertiresti ai racconti che di queste belle cose fanno i signori in abito nero che difendono l'ordine e le istituzioni!
Tagliar delle teste a colpi di sciabola è stupido, mio caro! È troppo primitivo.
Ma veder agonizzare sotto i propri occhi centinaia d'esseri umani; contemplare le loro spaventose contorsioni; divertirsi alle sofferenze di queste «femmine», come le chiama l'onesto e morale Dumas figlio — un tuo ex-fratello, per l'appunto — allora sì che si può esser fieri di essere uomini civili!
Tu non sai, stupido bruto, quali e quante ignominie possa contenere il cervello d'un moralista come Dumas figlio o come Jules Simon. Tu non sei mai stato socio di una società per la protezione degli animali.
Ebbene, se un giorno i tuoi sudditi ti cacceranno via, manda loro uno di questi uomini: sarà la tua vendetta!
Ah! questi bravi giornalisti come sono contenti d'aver trovato le espressioni di petrolieri e petroliere per designare i federati e le loro «femmine».
Il Figaro — saluta, o re del Dahomey, quando si nomina questo giornale che lo stesso Thiers definisce «immondo» — il Figaro dunque, tra le altre storie di petroliere, ne racconta una meravigliosa.
Afferma che sono state arrestate, nel quartiere di Montmartre, una donna e la sua bambina che, per un'ora, avevano gettato petrolio nelle cantine. Esse tentarono di negare, ma il recipiente da latte di cui s'erano servite era ancora pieno di petrolio!
Che grande idea dà di sé la stampa francese in questo momento al mondo intero!
Ma la sua fertilità d'immaginazione è la stessa del giugno 1848.
Tuttavia un giornale ha posto una nota di gravità in mezzo a quest'orgia di ferocia.
Il Temps, giornale serio e morale — il suo protestantesimo ve l'obbliga — pur riconoscendo che la strage ha del buono e che è talvolta necessario che la Parigi della gente onesta si diverta, il Temps consiglia di non prolungare oltre misura gli assassini perché col caldo che fa e coi temporali in vista, i cadaveri ammucchiati nei giardini potrebbero con la loro rapida decomposizione provocare qualche epidemia pestilenziale.
Uccidiamo, scanniamo, salassiamo donne e fanciulli dinanzi al mondo civile; dichiariamo che per i federati e le loro «femmine» la giustizia non è che una fiaba ad uso degli ingenui come Millière, va bene. Però pensiamo alla peste, amici miei, esclama il Temps.
Che bel gesto, degno di figurare negli annali del protestantesimo!
Orsù! si smetterà per contentarsi delle stragi di Satory.
Sì, almeno, i cadaveri marciranno in pieno bosco. E gli alberi saranno più belli l'anno venturo.
 
Dai giornali vengo a sapere della morte del nobile e veramente grande Delescluze, che s'è fatto uccidere non volendo sopravvivere alla disfatta.
Eroico suicidio di un uomo stanco, non già della lotta, ma del vergognoso spettacolo dei tradimenti dei suoi antichi amici e presago di tutte le viltà con cui avrebbero ancora insozzato la repubblica.
Al racconto di questa gloriosa morte segue quello della vergognosa esecuzione del nostro bravo Varlin. Lo hanno massacrato dopo averlo per due ore trascinato in giro per le strade tra gli urli di una banda di miserabili ben degni di fare scorta ai suoi carnefici, il cui capo gli ha rubato persino l'orologio; sono degli operai ginevrini.
E poi la morte di Millière, assassinato al Pantheon.
Ah! mi rammento. Ha pubblicato le illustri imprese di Jules Favre, questo spudorato falsario che da molti anni dovrebbe trovarsi ai lavori forzati — anche secondo la morale borghese.
Il celebre mentore repubblicano ha trovato questo facile mezzo di far tacere il suo accusatore.
E dire che non uno dei suoi colleghi dell'Assemblea versigliese gli ha domandato conto di questo assassinio, che nessun pretesto, neppur minimo, può giustificare!
Veramente, i deputati di Parigi sono una triste genìa.
Ahimè! Anche Vermorel è morto, a Versailles, per le conseguenze d'una atroce ferita. È morto di tetano, tra le braccia della madre che non ha neppure riconosciuta, a quanto si dice.
E si trova un «letterato» — un Daudet — «quello che non ha ingegno» si dice ordinariamente per distinguerlo dal fratello Alfonso — che ha avuto il coraggio di dare il suo calcio dell'asino a questo coraggioso giovane, chiedendo che il nome di Vermorel fosse radiato dalla Società dei letterati.
Bravo, signor mio! Avete ben meritato dalla nullità umana.
 
La tremenda, irreparabile colpa del Consiglio della Comune — il suo delitto, direi volentieri — la cui responsabilità ricade intera su tutti i suoi membri, senza eccezione, è di non essersi impossessato della banca di Francia, questa formidabile Bastiglia della società capitalista che la Comune doveva distruggere.
Quando si aveva tanto bisogno di danaro per pagare e sostenere largamente l'esercito rivoluzionario, ridotto a trenta soldi al giorno, come sotto la Difesa nazionale, ci si accontentava — in due mesi — di strappare alla banca qualche milione, di cui del resto la metà apparteneva alla città di Parigi.
Frattanto i padroni e la casa, comprendendo bene che non bisognava lesinare per salvare la loro situazione, concedevano duecentocinquantotto milioni al governo versigliese, disposti a recuperarli più tardi a spese dei proletari risparmiati dal piombo borghese.
Indipendentemente da queste risorse in numerario, la Banca aveva in portafoglio trecentoventotto milioni di titoli negoziabili.
E infine disponeva dei biglietti.
Se ci si fosse impadroniti di questo onorevole istituto — che sostiene il lavoro «come la corda sostiene l'impiccato» — la situazione poteva cambiare radicalmente.
La Comune avrebbe potuto ricompensare seriamente i suoi difensori, provvedere alle loro vedove e ai loro orfani assai meglio che con i decreti.
Non ci sarebbe stato più bisogno di arruolamenti obbligatori, che non davano nessun effettivo veramente utile e crescevano nuovi pericoli di tradimento.
Le braccia non sarebbero più mancate poiché ognuno avrebbe compreso che, se avesse dovuto soccombere nella lotta, il pane sarebbe stato assicurato ai vecchi e ai piccini.
Poi la minaccia di distruggere i titoli al portafoglio e di emettere tale quantità di biglietti da svalutarli come gli antichi assegnati, poteva ispirare tanta paura agli sfruttatori del lavoro da persuaderli a supplicare Versailles di capitolare.
Le conseguenze di quell'atto potevano avere un'incalcolabile portata.
Perché non se ne fece nulla?
Probabilmente perché nessuno nel Consiglio ne comprese sul momento la estrema importanza.
Non posso quindi trattenermi dallo scrollar le spalle quando leggo nei giornali che il nostro vecchio Beslay ha «salvato la Banca» — del che non pare che gli si sia tanto riconoscenti, se ha dovuto rifugiarsi in Svizzera per sottrarsi alle pallottole dei massacratori che certo non l'avrebbero risparmiato più di cento altri.
La verità è che il nostro collega — di cui mi onoro d'esser amico — non ha avuto occasione di compiere questo salvataggio, perché nessuno di noi ha mai pensato a impadronirsi della Banca.
Che il cittadino Beslay sarebbe stato ostile a ogni tentativo di questo genere, non c'è da dubitarne.
Il vecchio proudhoniano era ancora tropo imbevuto di pregiudizi borghesi per associarsi a un simile atto. Per quanto devoto alla Rivoluzione sociale, egli crede ancora alla possibilità per i proletari d'ottenere il credito gratuito per mezzo del quale potranno organizzarsi in associazione. — Buon pro gli faccia!
Ma proprio perché noi tutti conoscevamo le sue idee in materia, il fatto solo di averlo nominato rappresentante della Comune presso la Banca, e di avervelo mantenuto supplicandolo persino di restarvi quando, per due volte, volle dimettersi, questo fatto, dico, prova incontestabilmente la cecità della Comune.
Una sola azione dimostrativa fu fatta per ordine di Cluseret, allora delegato alla guerra; ma essa non aveva altro scopo che di porre alla Banca una guardia di federati — semplice questione di servizio d'ordine. E non ebbe nessun seguito.
Quindi, accettando — come membro del Consiglio della Comune — la mia parte di responsabilità, io non esito a dichiarare: ecco l'antico, il vero delitto della Comune.
 
In conclusione
Per la seconda volta, in ventitré anni, i repubblicani borghesi, tradendo le loro promesse, non hanno trovato di meglio che affogare nel sangue le giuste rivendicazioni dei lavoratori.
Giugno 1848 e Maggio 1871 avranno ormai insegnato ai proletari che cosa debbano attendersi dalla fratellanza borghese.
Si conosce ora l'esatta misura dell'affetto che questi «amici del popolo», questi «figli della Rivoluzione» sentono per quelli che lavorano, soffrono e muoiono di stenti.
Per due volte hanno avuto in mano il potere. Per due volte, soltanto da loro è dipeso di fare della Repubblica la liberatrice degli oppressi, dei miserabili, per due volte li hanno fatti massacrare senza pietà né scrupoli.
Sotto questo aspetto, bisogna pure riconoscere che hanno fatto di meglio dei loro concorrenti politici.
Neppure lo zar di tutte le Russie avrebbe osato far scannare così a migliaia i suoi sudditi di Pietroburgo.
Nessuno potrà mai superare i repubblicani classici in ferocia conservatrice.
Bisogna allora dire che i proletari, quelli su cui pesano le decime di ogni natura prelevate dai padroni dell'ordine sociale attuale, disperando della Repubblica, non debbano fare altro che gettarsi in qualche nuova restaurazione monarchica per ottenerne ciò che non hanno saputo né voluto dare i repubblicani... ciò che questi non daranno mai, come si può pure affermare?
Significherebbe cadere in un'altra aberrazione.
Tra repubblicani e monarchici non è sorto dissenso che sui mezzi di tosare il gregge, poiché questo per loro esiste soltanto per essere tosato.
I monarchici, in generale ricchi, e quindi meno sollecitati, mettono talvolta minore asprezza nella forma.
Ma l'accordo si stabilisce in special modo tra bonapartisti e repubblicani — veri fratelli siamesi — poiché per loro la politica non è altro che un mestiere adatto ad arricchirsi più rapidamente di altre professioni nelle quali sarebbero incapaci di arrivare alla ricchezza, che è il loro unico scopo.
Tuttavia, il partito repubblicano che, dal 1848, in special modo, ha dato lo spettacolo d'infamia superiore alle più fosche previsioni, questo partito conta alcuni uomini che avrebbero dovuto, a quanto pare, essere sottratti al contagio dalla loro situazione sociale, in parte dovuta ai loro sforzi personali o nelle arti o nelle scienze.
Come mai costoro, apparentemente liberi da ogni meschina e vile preoccupazione d'interessi egoistici, non solo non hanno reagito contro l'avvilimento dei loro amici politici, ma, non appena arrivati al potere, anch'essi hanno dimostrato d'essere i nostri più feroci avversari?
Questo è ciò che più importa di spiegare e che darà forse ai «ricordi» che ho tracciato la loro vera portata; l'unica che del resto io abbia in considerazione pubblicandoli.
Ormai quasi da un secolo, il partito repubblicano — che fortunatamente non ha nulla in comune né con la Repubblica né con la Rivoluzione — ha certo dato sufficienti prove di bassezza e di avidità; i suoi tradimenti politici e le sue truffe finanziarie non hanno proprio nulla da invidiare alle ignominie del partito bonapartista.
Ma la disonestà del primo non basta da sola a spiegare le sue infamie verso il proletariato.
Queste dipendono da una parte da un errore di concezione e dall'altra dal fatto che, riconoscendo la propria impotenza a risolvere le difficoltà economiche nelle quali si dibatte, esso trova più semplice di negarle... e di approfittarne per pescare nel torbido.
Imbevuti di tradizioni classiche, coloro che da un secolo rappresentano ufficialmente la Repubblica l'hanno sempre considerata come una qualsiasi forma di funzionamento del principio d'autorità, che per loro è tanto sacro quanto lo è per il despota più assoluto.
Che l'autorità venga loro da Dio o dal Popolo, è tutt'uno per questa brava gente. Quando i rappresentanti di questo famoso principio — eletti o no — hanno parlato, ai sudditi, ai governati, non resta che ubbidire.
Ora, che cosa intendono monarchici e repubblicani per Autorità?
Niente altro, se non vi dispiace, che la rivelazione di ciò che è giusto e vero; di ciò che deve diventare per tutti la legge, la regola di condotta dei cittadini nei rapporti con i loro governanti — consacrati da Dio e emananti da un suffragio più o meno universale e più o meno cosciente.
«Dio mi ha dato missione», dicono gli uni.
«Il Popolo mi ha dato mandato», dicono gli altri.
— Missione? Mandato, di che?
— Ma di discernere il vero dal falso, l'utile dal nocivo, il bene dal male. Vale a dire che d'ora innanzi e per nostra decisione sarà dichiarato vero, utile e buono soltanto ciò che in virtù della nostra missione o del nostro mandato noi avremo qualificato come tale per garantire la nostra potenza; e tutto ciò che tenderà a menomarla sarà considerato come delittuoso e quindi punibile.
Può darsi che sinceramente i repubblicani abbiano pensato che, traendo l'autorità dal consenso stesso dei governati, questa autorità diventasse così veramente legittima. Ciò era conforme al famoso assioma: Vox Populi Vox Dei, che ora fortunatamente è relegato allo stesso livello dell'infallibilità papale, di cui non era che il travisamento.
Così il suffragio universale, semplice mezzo per constatare l'accordo più o meno completo degli interessati su questa o quella questione d'interesse pubblico, fu trasformato dai repubblicani in un principio di tale potenza da conculcare il diritto in quelli che se ne servono come strumento della loro pretesa sovranità.
Perciò, per merito di quest'amena concezione, il popolo sovrano, peggio ancora dei re fannulloni, non è in realtà che lo schiavo dei maestri di Palazzo che, sotto il nome più moderno di deputati, di ministri, ecc. si proclamano suoi padroni sino al punto che essi stessi regolano l'esercito e delimitano gli atti del sovrano illusorio, privo persino del diritto di fissare l'ora in cui gli convenga agire.
Ma c'è di meglio: soltanto i mandatari hanno il diritto di precisare le clausole e di fissare la durata del loro mandato!
Insomma, la sovranità del popolo consiste semplicemente nel sanzionare col suo voto, nel legalizzare, nella forma e nel momento che scelgono i suoi mandatari, tutte le ingiustizie, le vessazioni e le estorsioni abominevoli di cui — «in altri tempi» — era oggetto da parte dei monarchi.
In Repubblica, come in monarchia, l'unica legge è l'autorità, cioè la volontà e gli interessi dei governanti.
Al popolo, al sovrano, come vien chiamato ipocritamente, l'unico diritto di emettere dei voti.
L'organo e la musica restano gli stessi sotto ambedue i regimi.
Tutta la discussione tra monarchici e repubblicani consiste nel sapere chi dei due girerà la manovella... e intascherà il guadagno.
È facile quindi comprendere come su tali basi — dette filosofiche e persino giuridiche — i popoli siano sempre rimasti liberi di farsi tosare.
Supponiamo tuttavia che, per combinazione, avendo trovato una serie di uomini onesti desiderosi di mantenere lealmente le loro promesse, il popolo sovrano abbia eletto dei deputati unanimemente incorruttibili.
Eccolo il possesso di tutto un governo deciso a ripartire equamente l'imposta; a sopprimere gli impieghi inutili; a liberare lo Stato da tutti i parassiti che lo divorano; a costringere le compagnie industriali e finanziarie alla rigida esecuzione dei contratti che regolano i loro rapporti con lo Stato e i privati; deciso insomma a far cessare tutto ciò che, anche da un punto di vista strettamente borghese, costituisca un privilegio qualsiasi, un monopolio oneroso e per ciò stesso funesto.
Questo governo — pur praticando ciò che si è convenuto di chiamare il «rispetto della legalità e delle posizioni acquisite» — non avrebbe neppure un mese di durata.
Finanzieri e poliziotti — gli unici dirigenti in sostanza, come dimostra perentoriamente e coi documenti alla mano Georges Duchêne nel suo Empire Industriel — prima di quel tempo l'avrebbero di già interdetto, colpito con la scomunica veramente maggiore questa volta, negandogli ogni credito e quindi impedendogli di funzionare... legalmente s'intende.
E invano farebbe appello a una rivoluzione politica, ipotesi del resto assurda quando si tratta del governo.
A che servirebbe? La Rivoluzione alla quale questo governo avrebbe fatto appello non lascerebbe le cose come stanno?
Quante rivoluzioni politiche perfettamente sterili, anche dal punto di vista puramente amministrativo, da ormai quasi un secolo!
Più si cambia e peggio si va a finire. Un governo di repubblicani onesti — ipotesi assurda — non avrebbe altra via d'uscita che di ritirarsi... oppure di decidersi a tagliarsi la propria fetta nella torta — pronto ad annegare i suoi rimorsi nel sangue degli «incorreggibili nemici dell'ordine sociale», cioè degli sfruttati.
Sicché oggi la Repubblica non vale che in quanto sia la negazione di ogni supremazia, di ogni privilegio, non solo d'ordine amministrativo, ma anche e specialmente d'ordine economico.
La vera superiorità della concezione repubblicana moderna sta nel sopprimere ciò che una qualunque frazione pretende d'aver acquisito oppure usurpato a detrimento della collettività o delle generazioni future, e nel far sì che ogni nuovo avventore trovi posto al «banchetto della vita».
Insomma, la Repubblica moderna è la sociale, che non ha nulla in comune con le antiche repubbliche di schiavi, tanto care ai signori che hanno fatto gli studi classici.
Il grande merito della Comune di Parigi del 1871 è d'averlo compreso.
Perciò, malgrado gli errori che i lavoratori vi possono rivelare, essa segnerà nella storia — come vera rivoluzione popolare — il punto di partenza della rottura definitiva tra il proletariato e i suoi sfruttatori monarchici assolutisti o costituzionali, repubblicani più o meno radicali o magari intransigenti.
E non dimentichino, i proletari, che questi ultimi non sono i meno pericolosi tra i loro implacabili nemici.
 
[Souvenirs d'un révolutionnaire, 1902]