Brulotti

Un’illusione: il dominio senza nessuno

 
Cosa significa dire qualcosa? Cosa significa esprimere le proprie idee? Quali sono le conseguenze, per noi stessi, per il nostro agire?
Facciamo un esempio: su un palco una donna politica di destra si pronuncia a favore dell’ordine di fare fuoco alle frontiere esterne. Indignazione, furia, scandalo. Ovviamente si vuole fermare il flusso di rifugiati, ma non certo così. Un’altra politica, avvantaggiata dal prestigio di ricoprire una più alta carica, famosa per le sue decisioni prosaiche e da esperta, firma un trattato che mira all’internamento, all’espulsione e alla ripartizione di migliaia di migranti. Qualche tempo dopo si viene a sapere che alcuni militari hanno sparato su persone che tentavano di passare la frontiera del paese con cui è stato concluso questo trattato. Una notizia a margine — che è anche la conseguenza diretta di una decisione politica. Una politica che pone il fatto di sparare in legame diretto con la sua politica è una provocazione; ma per quell’angelica innocente sparare non è che un danno collaterale mortale appena percepibile.
Quando un politico prende delle decisioni, queste vengono applicate — da altri. Quando un soldato spara, lo fa su ordine di qualcuno. Tuttavia responsabile della pallottola, della morte, è chi preme il grilletto. Una cosa è ciò che si dice e un’altra è ciò che si fa, ecco cosa ci viene ripetuto. Una linea di condivisione è tracciata fra l’atto e i pensieri che l’hanno preceduto. Nell’ambito delle opinioni è possibile sostenere qualsiasi punto di vista, è consentito dare il proprio parere. Sì, grazie alla possibilità offerta a tutti di esprimersi, ovvero confrontarsi — o fare una tavola rotonda — con posizioni «estreme», la politica mostra il funzionamento della democrazia. Le parole sono astrazioni e vengono tollerate in quanto tali. Ma quando implicano la possibilità dell’azione diretta, non sono più opinioni, allora diventano idee e portano in sé lo slancio verso la loro realizzazione. Chiunque agisca direttamente e metta in atto le proprie idee senza aver bisogno dell’accordo né del permesso, commette un crimine contro la democrazia. Contro la politica della maggioranza desiderosa di negoziare, di intrigare, di trovare compromessi. Contro la politica della separazione e della gerarchia, in cui solo gli specialisti e chi riceve ordini sono autorizzati ad agire. Un crimine contro la legge che permette solo di parlare di idee, non di metterle in pratica.
Coloro che non hanno legge si assumono la responsabilità delle proprie idee e le mettono in atto con dei complici e con i mezzi necessari. Superano la separazione fra la politica e la realtà perché possono parlare e discutere senza dover trovare parole erudite, senza dover convincere la maggioranza con norme da esperti o con petizioni. Per passare all’azione non hanno bisogno di eserciti docili, di lacchè e servitori, no, li disprezzano tanto quanto la loro sottomissione di gregge che affida costantemente l’onere di pensare ad altri. Essi mettono assieme le parole e l’azione. Non solo nel proprio pensiero e nel proprio agire, ma anche nella ricerca e nel fatto di collegare elementi e responsabilità che a prima vista non li riguardano.
Noi non abbiamo solo la responsabilità di ciò che pensiamo, facciamo e ordiniamo, ma anche di ciò che omettiamo, ciò che non facciamo e ciò che taciamo. Il giornalista per cui il salvataggio di un relitto con centinaia di cadaveri di migranti non merita che un trafiletto assume una posizione chiara, una posizione che ha come conseguenza il rifiuto di voler agire. L’esperto che afferma che il numero di rifugiati è diminuito sa che le statistiche non tengono conto di quanti migranti dell’Africa nera sono rinchiusi e perseguitati senza motivo nell’Africa del nord. Ciò denota un calcolo politico di cui si rende responsabile. Quanto ai cittadini degli Stati Uniti che nel corso degli ultimi anni sono venuti a sapere per 2640 volte dell’omicidio di neri da parte della polizia senza la minima reazione, essi sono responsabili anche del fatto che l’omicidio del 2641° nero appaia come del tutto normale e abituale. Una normalità che ci dà l’illusione di non avere la responsabilità di agire, che ci abitua ad essere degli incapaci, buoni solo a ricevere ogni giorno su un piatto d’argento il loro boccone di realtà ben premasticato con l’elenco di ciò che bisogna fare e il relativo conto.
Possiamo spezzare l’illusione secondo cui il dominio sarebbe mantenuto dal semplice corso delle cose, da un qualche Dio o dalle quotazioni in borsa, ovvero un dominio impersonale, assumendoci la responsabilità di sabotare permanentemente gli affari dei responsabili del suo funzionamento. Sia che la loro responsabilità consista nel dare l’ordine di sparare, nel giustificarlo, nel non parlarne, nel dissimularlo, o nel ricavarne profitto con la produzione o l’elaborazione di armi. Per non parlare della responsabilità di chi fa la guerra come l’esercito tedesco che, con la sua propaganda, tenta di soffocare ogni legame fra la realtà e le parole che la descrivono, spiegando per esempio sui loro manifesti pubblicitari in color mimetica di battersi per la libertà e contro dei folli in guerra. La responsabilità risiede nel fatto di mostrare, con la forza distruttrice delle parole e delle azioni, che la libertà può esistere solo qualora si tratti da nemico chi fa la guerra, sia essa di Dio o dello Stato. E nell’immediato, come risultato persistente di intense relazioni, la libertà può esistere solo laddove nessuno attende che altri si incarichino al proprio posto di mettere i suoi pensieri in atto per attaccare senza tregua chi fa la guerra, nel nome di Dio o dello Stato.
 
 
[Fernweh, n. 22, ottobre 2016]