Brulotti

Pezzi di guerra

Si chiamano hot spot e sono l'ultima trovata, in ordine di tempo, per il contenimento degli stranieri poveri. Rispondendo ai richiami dell'Unione Europea per arginare quella che la propaganda definisce “emergenza sbarchi”, cinque centri del genere sono stati allestiti d'urgenza. Circondati da recinzioni e controllati a vista da organi militari e polizieschi, questi luoghi altro non sono che campi di detenzione provvisori nei quali gli immigrati che arrivano in Italia vengono trasferiti per essere censiti, schedati, incasellati. Dalle foto segnaletiche al prelievo forzato delle impronte digitali, l'iter è identico a quello che compie chi varca le porte di una prigione. Nel silenzio generale, l'equiparazione “immigrato uguale a criminale” si manifesta in tutta la sua cruda realtà, a compimento di un percorso ideologico e mediatico ormai ventennale.

 

Ma gli hot spot non sono delle carceri, sono molto di più. Rappresentano un pezzo di quel mondo in guerra che appare così distante da noi, ma che nella realtà è sempre più vicino. Se in altre zone del mondo i fuggiaschi si ammassano nei campi profughi, per fuggire da guerre, carestie, fame, quando provano a lasciarsi alle spalle tutto ciò ecco che vengono predisposti per loro nuovi campi, in cui un burocrate governativo decide chi può restare e chi invece non ne ha il diritto, aprendo per questi ultimi le porte dei centri di detenzione veri e propri – i CIE – in attesa di un volo di sola andata verso la terra da cui erano fuggiti; in alternativa li si rilascia con un decreto di espulsione dal territorio nazionale, rendendoli clandestini, quindi illegali e, come tali, costretti a nascondersi. Dichiarata per legge la loro inesistenza giuridica, se ne decreta anche l'inesistenza sociale. Il clandestino semplicemente non esiste, e quindi che scompaia inghiottito dalle acque che cerca di attraversare, o da un CIE con un rimpatrio o tra lo sfruttamento salariale in virtù della sua condizione di ricattabilità, non fa molta differenza.

 

Uno dei cinque hot spot istituiti in Italia, unico a non trovarsi su di un'isola (Lampedusa o Sicilia) è sorto a Taranto, nell'area del porto mercantile. La scelta della città ionica non appare per nulla casuale, anzi. Quello tra Taranto e la guerra è un rapporto di lunga durata e ormai consolidato, e l'istituzione dell'hot spot sembra confermare un vincolo sempre più stretto; se in passato le navi militari hanno salpato dal suo porto per andare a combattere in Afghanistan o Iraq, ora vi attraccano per sbarcare gli immigrati rastrellati in giro per il Mediterraneo. Uomini, donne e bambini che sbarcano e rinchiudono, rappresentano il bottino della stessa guerra, i prigionieri, l'effetto secondario della loro prima missione. Ecco perché gli hot spot rappresentano un pezzo di guerra; chi governa ne è cosciente, e tratta coloro che cattura in mare come sempre gli Stati hanno trattato i propri nemici. Internandoli.

 

Ma se per migliaia di esseri umani che fuggono e vengono intercettati e rastrellati l'Italia e l'Occidente si trasformano in un campo di internamento, per altri, che vivono già da questa parte del mondo, può tramutarsi in un campo di battaglia. Sebbene i primi siano vittime del complesso sistema di sfruttamento, ed i secondi si facciano carnefici massacrando indiscriminatamente, le cause che agiscono su entrambi sono le stesse: le guerre che l'Occidente scatena in giro per il mondo, per accaparrarsi risorse e trarre profitto. Tutti i recenti attentati, da Parigi a Berlino passando per Bruxelles e Nizza, sono anch'essi, come i rastrellamenti nel Mediterraneo, un effetto secondario, un effetto di ritorno delle guerre occidentali. Ecco cosa lega un CIE, un hot spot e gli attentati; opporsi ad un hot spot, contrastare la costruzione di un muro, attaccare le frontiere in qualunque modo si manifestino, significa opporsi, nello stesso modo e nello stesso momento, alla guerra santa del Capitale e alla guerra Santa della Religione.

 

[Brecce n°7, Giornale murale aperiodico, dicembre 2016]