Contropelo

«Per un piatto di lenticchie ministeriali...»

Nestor Romero
 
Nel calendario delle ricorrenze, il 4 novembre non è una data funesta solo perché i massacratori in divisa celebrano qui in Italia i loro eserciti. Se il 4 novembre 1918 entrò in vigore l’armistizio tra un governo italiano alleato della vittoriosa Intesa ed uno sconfitto impero austro-ungarico, il 4 novembre 1936 a Barcellona — in piena rivoluzione spagnola — vide l’ingresso di anarchici nel governo repubblicano. Proprio nel momento in cui gli acerrimi nemici dello Stato erano più vicini alla realizzazione delle loro idee, i più «autorevoli» fra loro le tradivano e le abbandonavano, capitolando davanti alle sempiterne esigenze strategiche del momento. Da allora questa tragedia si è ripetuta innumerevoli volte sotto forma di farsa, come se quella esperienza non avesse lasciato alcun insegnamento. All’esca del pubblico riconoscimento continuano ad abboccare molteplici schiere di sovversivi, oggi ancor più di ieri. 
 
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Ma già così, in questo raggruppamento informe di uomini e donne, unanimemente e ferocemente convinti della necessità di combattere il fascismo e trasformare il mondo attraverso l'abolizione di ogni autorità, di ogni istanza prefiguratrice di qualsiasi potere statale, si stabilisce una distanza fra i militanti responsabili e gli altri. Oh! distanza ben minima, ben insignificante e di cui nessuno, là a Sarriòn, in mezzo all'eccitazione e alla gioia, si accorge nemmeno. Ma ad ogni modo il primo fucilato dopo la nomina ponderata, al Comitato, dei militanti più noti, istituisce senza dubbio il fondamento di un nuovo rapporto di potere fra uomini la cui energia è indirizzata giustamente verso l'abolizione di ogni autorità.
Ma questo è nulla se si pensa che lo stesso rapporto di potere si è instaurato da molto tempo e si consolida ora gravemente anche sul piano dell'Organizzazione nel suo insieme. Se consideriamo la testimonianza di D.A. de Santillan quando affermava, ricordiamolo, che non esiste programma d'organizzazione, non esiste teoria superiore alla spontaneità del 20 luglio, bisogna pur constatare che l'Organizzazione, le organizzazioni hanno ripreso in fretta il sopravvento.
Così in fretta che, nel giro di poco tempo, militanti anarchici fino a ieri braccati si ritrovano ministri. Una rottura così brutale nei fatti con l'antistatalismo e l'azione diretta non si compie, nell'estate del 1936, senza qualche rimorso a tutti i livelli delle organizzazioni libertarie. Ma in realtà lo sconvolgimento è meno importante di quanto sarebbe stato ragionevole immaginare qualche mese prima. Tutto accade come se i militanti di base, troppo occupati a combattere al fronte ed a collettivizzare nelle retrovie, prestassero appena un'attenzione distratta ai fatti e agli atti dei leader. Ma anche qui la distanza che si viene a creare fra dirigenti e anonimi militanti è tanto più grande quanto, da una parte all'altra, ognuno agisce su livelli distinti della realtà sociale. Gli uni fanno politica negli uffici ministeriali, gli altri fanno la rivoluzione sulla terra e nelle fabbriche. Fra i due non può che esserci una comunicazione difficoltosa.
Prudenza. Sono trascorsi decenni e tuttavia la partecipazione dei libertari al potere dello Stato continua ad intrigare non solo gli specialisti ma anche tutti coloro che scoprono o riscoprono la Rivoluzione spagnola. Prudenza dunque, ma ad ogni modo i miliziani della Colonna sono per lo più anarchici, membri della CNT e sovente della FAI. Il loro comportamento viene invariabilmente evocato nel dibattito, tanto è vero che la Colonna di Ferro ha mantenuto e difeso con tutta la sua energia una posizione chiara davanti alle più prestigiose personalità dell'anarchismo spagnolo. Allora, vediamo.
Il periodo della guerra, i tre anni passati dai militanti al fronte, è stato poco propizio ad una riflessione che avrebbe potuto affinare l'analisi, ampliando la discussione sull'azione e sulla strategia dei «dirigenti» del movimento. Tale evidenza costituisce del resto uno dei principali argomenti di questi leader per giustificare questa o quella mancanza alla democrazia interna dell'Organizzazione, eterno sacrificio dei principi all'efficacia. Ma a guerra terminata, sospesa piuttosto nella mente di molti dei rifugiati sparpagliati nei due continenti, il dibattito viene lanciato pubblicamente, con estrema violenza, da D.A. de Santillan.
«... Non ci siamo mossi, abbiamo obbedito e siamo rimasti zitti, abbandonando i destini di milioni di proletari spagnoli alla gioiosa indifferenza del dottor Negrin. Non era saggezza, non era buon senso, era vigliaccheria burocratica ed era il tradimento del nostro popolo. Non saremo accusati di aver disturbato i piani del governo repubblicano-comunista, ma possiamo venir accusati di non averli disturbati e, dinnanzi al futuro, questa accusa sarà molto più pesante.
Non abbiamo il coraggio di giustificare davanti al mondo il nostro comportamento. Abbiamo venduto il popolo per un piatto di lenticchie ministeriali...».
Il che equivale a dire che il processo che conduce le organizzazioni anarchiche alla partecipazione al potere statale non è affare da poco. Poiché, più precisamente e al di là della congiuntura spagnola, esso interroga nella maniera più vigorosa il concetto fondamentale della teoria anarchica: l'antistatalismo. Difatti la discussione non è mancata, articolandosi attorno a due tesi inconciliabili.
Ha avuto tuttavia il pregio di stimolare due opere importanti e antagoniste: Gli insegnamenti della Rivoluzione spagnola di Vernon Richards e Gli anarchici spagnoli ed il potere di C. Martinez Lorenzo.
Prendendo spunto essenzialmente da de Santillan e da Peirats, V. Richards difende il punto di vista anarchico ortodosso con la ferma condanna della partecipazione della CNT-FAI al potere di Stato. Viceversa Lorenzo sostiene la tesi di Horacio Prieto, militante «destacado» della CNT, secondo cui quella partecipazione avrebbe dovuto essere più energica, più decisa, in una parola più politica. Il dibattito è ben lungi dall'essere chiuso. Ed è solo apparentemente che per un attimo abbandoniamo gli uomini della «Columna de Hierro» sul loro desolato altipiano di Sarriòn per immischiarci furtivamente nello spazio della controversia. Ad ogni modo, è solo per meglio ritrovarli e seguirli sulla strada di Teruel, magari più consapevoli del significato dei loro gesti. Erano folli divagazioni le affermazioni di Culata e Roman*?
«Voi e noi, anche se vinciamo ed abbiamo contribuito più di chiunque altro alla vittoria, siamo condannati...».
Come mai?
«Voi sapete, sospettate che in ogni caso la Rivoluzione non risponderà alle vostre speranze».
Pazzi?
«Vedrete, guardate già gli arrivisti mescolarsi ovunque e prepararsi ad amministrare la vittoria...».
Pazzi o particolarmente lucidi per proferire simili riserve ad appena pochi mesi dall'inizio della lotta? Pochi mesi, sì, ma già dappertutto, al governo centrale, a Barcellona, nel Levante, ministri, sottoministri, funzionari, persino sbirri... Anarchici! Dappertutto, dappertutto. Come è possibile?
«E tuttavia il 4 novembre 1936 gli anarchici spagnoli si integravano nello Stato. Come e perché avvenne questo avvenimento straordinario» (C.M. Lorenzo).
Sì, straordinario veramente per uomini e donne il cui antistatalismo, l'apoliticismo, il radicalismo, l'anarchismo infine, non avevano bisogno d'essere dimostrati. Straordinario anche perché il sindacalismo libertario che essi rappresentavano aveva osservato una notevole permanenza nell'affermazione delle sue aspirazioni ultime, nella sua strategia, nei suoi principi, nella sua intransigenza che escludeva ogni compromesso con lo Stato che poteva essere solo distrutto, e dunque non riconosciuto. [...]
Ma esiste un altro modo di riportare la storia delle caste dirigenti, siano esse quelle degli Stati, di partiti o sindacati, pur restando con la coscienza in pace. Le responsabilità della sconfitta non vengono più imputate ai cafoni ignoranti che privarono di ogni mezzo l'élite chiaroveggente e letterata, ma al contrario la base, le masse, il popolo appaiono ripuliti da ogni macchia e la loro sventura non è dovuta che all'incapacità, alla perversione o anche al tradimento di qualche capo. Così, quando V. Richards si dà da fare nel dimostrare le deviazioni, anzi no, i tradimenti dei leader della CNT, il tradimento dei principi fondamentali dell'Organizzazione e dei militanti di base, parrebbe che nei fatti abbia qualche ragione di farlo. Nondimeno la sua critica rimane situata sul piano della casta dirigente, del giudizio oggettivo sul comportamento di questo o quel capo in rapporto ad un certo numero di principi, nello specifico anarchici, considerati intangibili. E per via di ciò, la questione centrale, la causa di una così intollerabile deviazione dei principi anarchici come la partecipazione al potere di Stato, resta senza una risposta soddisfacente. A parte l'emissione di un criterio di valore che risolve il problema come per magia: non erano anarchici, quelli che furono ministri! Tuttavia V. Richards sembra essere poco soddisfatto intellettualmente dei risultati della sua analisi personalista, forse rasserenato dal salutare esercizio di sbullonamento di idoli sfiora un po' troppo rapidamente quello che avrebbe potuto essere l'oggetto di studio spassionato per chi prova un qualche interesse in questa storia recente della Spagna. Il dilemma, dice, sarebbe questo:
«Se una organizzazione di lavoratori vuole perseguire lo scopo immediato di migliorare le condizioni economiche dei suoi membri, deve rappresentarne il maggior numero possibile, cioè mirare ad essere una organizzazione di massa. Se con ciò si pretende che i lavoratori, al momento della loro iscrizione, accettino gli obiettivi ideologici dell'organizzazione stessa, questo significa assoggettarli ad un test che potrà anche assicurare l'omogeneità politica dell'organizzazione, ma la condanna comunque a non essere seguita dalla massa».
Il sindacalismo, questa grande idea, le dure lotte per il suo riconoscimento: il suo romanticismo, lo Sciopero generale... Proletari di tutto il mondo unitevi... Guerra alla guerra!... Fernand Pelloutier e C.M. Lorenzo; la leva, maneggiata da innumerevoli mani callose strette al di là delle frontiere, che doveva sollevare il mondo... Il sindacalismo si trova messo in discussione radicalmente e molto più di quanto non appaia davanti al dilemma posto da Richards. In effetti mette semplicemente in luce la contraddizione fondamentale, essenziale, del sindacalismo che si può trovare formulata in maniera esplicita nei testi ufficiali della CNT come in quelli della CGT francese:
«Gli obiettivi della CNT sono il raggruppamento di tutti gli sfruttati attorno a rivendicazioni immediate e a favore della distruzione del capitalismo e dello Stato» (Peirats).
«Nell'opera rivendicativa quotidiana, il sindacalismo persegue il coordinamento degli sforzi operai, l'accrescimento del benessere dei lavoratori attraverso la realizzazione di miglioramenti immediati... Ma questo bisogno non è che una parte dell'opera del sindacalismo; esso prepara l'emancipazione integrale che può realizzarsi solo attraverso l'espropriazione del capitalismo».
Contraddizione costitutiva, che è il sindacalismo i cui termini sono da una parte l'oggetto affermato dell'abolizione del capitalismo, e dall'altra i mezzi, la pratica immediata da mettere in atto, soprattutto il miglioramento delle condizioni economiche dei lavoratori. È ormai chiaro che, al termine di una evoluzione oggi riscontrabile, l'obiettivo finale rivoluzionario si ritrova estromesso ed i mezzi diventano obiettivo permanente. A quel punto non si contesta più che il capitalismo abbia integrato il sindacalismo rafforzandosi considerevolmente. In quanto interlocutore privilegiato il sindacalismo costituisce, è, uno degli ingranaggi essenziali del capitalismo, proibendo con la sua stessa esistenza ogni contestazione non istituzionalizzata al sistema. È vero che i sindacalisti anarchici spagnoli avevano paventato il pericolo di integrazione del sindacalismo, come aveva avvertito e formulato Malatesta. L'Azione diretta che preconizzavano come strumento d'azione privilegiato, escludendo ogni mediazione statale nei conflitti di lavoro, poteva allora apparire l'antidoto assoluto.
Azione diretta: lotta diretta contro il padronato attraverso lo sciopero ma anche, precisava la dichiarazione di principio della CNT, attraverso il sabotaggio utilizzato con discernimento. Esclusione d'altronde di ogni intermediario nello scontro sindacato-padronato, il che è innegabilmente, oltre ad un rifiuto anarchico dello Stato, una precauzione di cui è possibile giudicare l'esemplarità ammonitrice di fronte al processo che conduce in ogni paese i rappresentanti sindacali a sedere nelle diverse commissioni statali di pianificazione della società capitalista.
Una rude lotta ha contrapposto, all'interno della CNT, partigiani e avversari di un sindacalismo radicale, rivoluzionario e intransigente. E di fatto non è falso affermare che, fino al sollevamento del 18 luglio 1936, l'Organizzazione sia rimasta ferma sui suoi principi e abbia respinto ogni compromesso. Certo, ci furono qua e là dei contatti, qua e là dei compromessi e poi l'atteggiamento ambiguo nel febbraio 1936 quando i leader, invischiati in un rigido antielettoralismo e nella pressante realtà, restarono silenziosi, e da quel silenzio nacque il «Fronte popolare». Ma sostanzialmente l'obiettivo rivoluzionario della CNT prevaleva ancora il 19 luglio nello spirito di tutti i militanti. Quindi le conseguenze ineluttabili della massificazione di una organizzazione, ancorché libertaria, i germi della burocratizzazione e del centralismo autoritario, erano presenti al punto da emergere brutalmente alla prima messa in pratica reale ed importante delle tesi libertarie. Il fatto è che, per quanto le precauzioni anti-burocratiche come il decentramento federalista, l'assenza di rappresentanti permanenti retribuiti, l'autonomia ad ogni livello di strutturazione, funzionassero come principi inviolabili, erano comunque incapaci di evitare da una parte l'emergere di personalità più o meno notevoli, e dall'altra di combattere l'ideologia dominante la cui morale non è esagerato dire che impregnava profondamente il movimento anarchico spagnolo. Le personalità più in vista, immutate da anni, sebbene non beneficiassero di alcun privilegio materiale, benché contestate talvolta con violenza, come sottolinea Lorenzo, erano nondimeno investite di autorità, forse morale, ma incontestabile e la cui continuità nel corso degli anni aveva conferito loro lo status di dirigenti. E, come tutti i dirigenti, esercitavano un potere. Gli strumenti di questo potere erano costituiti dalle loro parole, dai loro scritti, dai loro atti, talvolta fuori dal comune. «Influenza» sarebbe un termine più corretto di potere, ma il confine fra l'una e l'altro risulta alquanto sfumato. A tal punto che, nelle circostanze critiche della Rivoluzione, lo esercitarono davvero quel potere. Come avrebbero potuto questi leader non sentirsi responsabili, non solo di se stessi, ma di tutti i loro compagni, di tutta l'Organizzazione e della Rivoluzione, quando la loro posizione dominante per anni aveva loro conferito una visione totalizzante dei problemi, in realtà uno sguardo «politico» della lotta sociale fatto di strategie e di tattiche? Come potevano non sentirsi responsabili dei loro compagni, quando questi ultimi, lodandone le qualità e soprattutto il valore morale, li avevano posti nel ruolo di responsabili moralmente inamovibili? Giunsero senza dubbio a persuadersi della loro indispensabile presenza alla testa dell'organizzazione confermando così, se ce ne fosse stato bisogno, la lungimiranza del loro padre comune, Michail Bakunin:
«Uno degli effetti più nefasti dell'esercizio del potere è quello di persuadere gli uomini, anche i più intelligenti e i più disinteressati, di essere necessari e di dover continuare ad esercitarlo per il bene di tutti».
Le qualità morali di questi «militantes destacados» unanimemente riconosciute — perfino dai loro avversari — fondamento della loro autorità, riunivano in sé tutto l'umanesimo dell'anarchismo spagnolo, nel senso in cui la sua etica veicolava l'immagine dell'essere umano anarchico compiuto, immagine precisa e giustamente incarnata da questi militanti d'eccezione. D.A. de Santillan ci comunica tutta l'importanza di questo umanesimo e della sua messa in pratica quotidiana da parte del militante libertario spagnolo:
«Io non sono arrivato al movimento anarchico dopo aver letto opuscoli o libri di Kropotkin e di qualcun altro. Vi sono giunto per la qualità morale degli operai che avevo conosciuto e frequentato. Questa qualità morale è stata il nostro tesoro, e noi saremmo nulla se essa cessasse d'esistere».
Rettitudine? È così che si può rendere il significato profondo della parola spagnola «Honra»? Questo insieme di scrupolosa onestà, di senso della giustizia e della verità, di coscienza della prevalenza del comportamento escludeva ogni bassezza. In ogni caso si tratta di caratteri marcati del militante libertario e confederale spagnolo. Quanto a determinare cosa in tutto ciò appartenga all'anarchismo o derivi dalla tradizione, basta ricordare il celebre proclama della rivoluzione liberale del 1868: «Viva España con Honra». E ancora un altro sostantivo s'impone imperiosamente: puritanesimo. A tutti i livelli, su tutti i piani, il puritanesimo domina, conduce i più puri fra gli anarchici, quelli che si definivano «individualisti» e molti altri, alla pratica del vegetarianesimo, del naturismo, spesso di uno stretto ascetismo.
E naturalmente questo puritanesimo s'impone pesantemente soprattutto su ciò che concerne la sessualità. Ma di questo ne riparleremo.
«Honrados» e puritani, così sono gli anarchici spagnoli. E da tempo! Un uomo come Anselmo Lorenzo per esempio, fondatore della sezione spagnola dell'AIT, assumerà, a scapito di considerazioni bassamente tattiche e politicarde, una posizione del tutto personale e indipendente nella furiosa e spesso sporca battaglia che si diedero Marx e Bakunin negli anni attorno al 1870.
Si sa, se Marx riprendeva un certo numero di calunnie sul «russo Bakunin» questi replicava all'«ebreo tedesco» Marx. Ebbene, A. Lorenzo, timido delegato spagnolo alla conferenza di Londra, lui, bakuninista convinto, abbagliato da quel vecchio uomo il cui volto «sembrava essere la figura venerabile d'un patriarca prodotto dall'ispirazione di un eminente artista» — Karl Marx — che lo ricevette a casa, con cui parlò una notte intera sugli argomenti più disparati, dall'Internazionale a Don Chisciotte, espresse il proprio giudizio su questi due giganti:
«Se quel che Marx ha detto di Bakunin è vero, allora questi è un infame; ma se è falso, allora è quell'altro ad esserlo. Non ci possono essere mezzi termini, talmente gravi sono i rimproveri e le accuse che ho udito».
Poi, a proposito di una lettera di Bakunin che tentava di difendere il suo punto di vista:
«Quel che bisogna notare in questo documento, secondo l'impressione che ne conservo, è che fra le accuse dirette contro Marx da Bakunin quella che concentra più odio è legata al fatto che Marx sia ebreo. Questo, all'opposto dei nostri principi che impongono la fratellanza senza distinzioni di razza o di credenze, mi provocava un effetto disastroso. E devo alla verità il dirlo malgrado il rispetto e la considerazione che merita per molti titoli la memoria di Bakunin».
Honra, puritanesimo politico e morale dei primi internazionalisti: ciò si può constatare anche nel 1936 per numerosi militanti anarchici. Ed è meno azzardato di quanto possa sembrare l'affermare che quella virtù abbia ricoperto una varietà di comportamenti, di pregiudizi che spesso, al di là delle parole che li indicavano, costituiscono l'esacerbazione e forse il tentativo di trascendere i valori costitutivi dell'ideologia borghese dominante. [...]. Ma già, quando voltando una pagina d'illustrazioni della monumentale opera-documentario di J. Peirats, vediamo la foto dei ministri anarchici, di Federica Montseny in elegante abito lungo, di Garcia Oliver in un non meno elegante completo da ministro, per quanto puerile possa sembrare, viene immancabilmente in mente che una delle motivazioni profonde dei loro atti sia stato di sicuro il desiderio profondo di essere finalmente riconosciuti. Da chi? Dall'insieme della società, certo, da tutti gli altri, ma soprattutto dalla «classe politica» in cui facevano il loro ingresso. Di sicuro era un profondo bisogno di rispettabilità che li animava, loro che si erano visti negare nella loro esistenza stessa in quanto asociali. Del resto, era loro desiderio che la struttura antinomica del sindacalismo proibisse ogni rottura ideologica, essendo il conformismo in questo ambito, vale a dire l'adesione ai valori dominanti, una delle condizioni strettamente necessarie alla costituzione di una organizzazione di massa. E tutta la storia del sindacalismo mondiale ben lo dimostra.
 
 
[Los Incontrolados. Chronique de la “Columna de hierro”, 1997]
 
*   Si tratta dei due protagonisti del testo “I condannati”, apparso in origine sul mensile Nosotros nell'ottobre 1937, che apre il libro di Romero e che è compreso anche nel libro di Abel Paz sulla Colonna di Ferro.