Brecce

Quadro di Parigi

Villiers de l'Isle-Adam
 
Chi avrebbe mai pensato che, assieme a Vallès e a Verlaine, il solo scrittore francese a prendere le difese degli insorti parigini del 1871 sarebbe stato il cattolico e monarchico Villiers de l'Isle-Adam (sotto lo pseudonimo di Marius)? Nonostante i dubbi e le riserve di molti esperti in letteratura sulla reale paternità di tale scritto, è stato proprio lui a scrivere in quei giorni febbrili uno dei testi più dimenticati sulla Comune di Parigi. Apparso a puntate sul giornale fondato da Lissagaray, Le Tribun du peuple, si tratta di una rara testimonianza poetica di fronte ad una città in cui sia l'autorità terrena che quella divina facevano fatica a riconquistare il potere perduto, una città in cui l'impossibile era diventato possibile. Per circa settanta giorni, uomini e donne da sempre costretti ad obbedire hanno assaporato la propria libertà in un'atmosfera di gioia sfrenata, perfino pronti a morire col sorriso sulle labbra.
 
 
***
 
 
Parigi è sopravvissuta. Il sole brilla sulla Rivolta. L'indomabile Libertà si è rialzata, barcollante, ma appoggiata su tutte le bandiere rosse in sfida agli scettri assassini di Berlino e Versailles. In fondo all'orizzonte, l'Arco di Trionfo s’incurva sulla guerra civile. I lampi di ferro solcano le strade senza disturbare i giochi dei nuovi bambini, le bombe color porpora hanno sostituito i palloncini rossi, e quando mancano le biglie è con scoppi di risa che si corre a raccogliere le pallottole morte.
Maggio risplende sulle Tuileries, il Luxembourg e gli Champs-Élysées. Le messi di fiori ingombrano les Halles. Qui e là, nella luce, migliaia di baionette passano con musiche di vittoria ormai dimenticate. — In lontananza, il cannone.
A sera, i viali illuminati, le ragazze, i teatri, le discussioni finalmente libere, i caffè chiassosi e magici, aria di liberazione.
Attorno ai chioschi, i giornali attesi con ansia vengono strappati e letti sul posto.
«Che succede?
— Issy è stata presa!
— Che importa!
— Vanves è seriamente minacciata!
— Che importa!
— Versailles attacca questa notte!
— Che importa!
— Ci sono traditori nelle mura!
— Che importa!»
Chi chiede? Il passante. Chi risponde ciò?… La Libertà.
È così da marzo. Parigi è la città terribile. Il cannone le è familiare.
Parigi ha la propria idea ed è testarda, come se n'è accorto molte volte il mondo intero.
Alcuni negozi sono chiusi; alcuni fifoni sono scappati; alcuni agenti sono stati arrestati, alcuni borghesi indignati in preda al panico sono stati segnalati; alcuni profondi diplomatici sono riusciti a riconciliarsi abilmente col disprezzo universale. Ecco tutto.
All’improvviso, Parigi percorre nelle strade un momento di grande silenzio; — si sente sibilare attorno indistintamente lo spionaggio impossibile da debellare, simile alle mille teste dell'idra; poi il treno di Parigi prosegue, come se nulla fosse.
Poco attrezzati, d'altronde. I gruppi si voltano per veder passare al galoppo qualche ufficiale della Comune diretto agli avamposti, o qualche Rosacrociato della Massoneria di Francia, rivestito con le sue insegne misteriose, che cammina pensieroso verso i bastioni. Donne molto vecchie, vestite d’un lutto nuovo di zecca, stazionano davanti alle mense. Non ci si preoccupa granché dei cinquantamila versagliesi ammassati nel bosco di Boulogne, degli altri ventimila rintanati nel forte d'Issy, e degli altri ventimila che riempiono Asnières.
Agli incroci si incontrano neri funerali, con fanfare, cupi colpi di tamburo e lunghi stendardi color vendetta.
Così, né l'inverno, né l'assedio, né il tradimento, né la fame, né il vaiolo nero, né il bombardamento divenuto condizione normale, né i cuori stretti per la sconfitta, né la guerra civile, né le esecuzioni feroci, né le minacce dell'avvenire, nulla ha offuscato la serenità della vecchia Capitale.
Parigini, questo dirà la storia in modo che la posterità ricordi eroicamente, come voi.
Così lo schiavo, marchiato in fronte dal segno dell'esilio, dai pontili, dai patiboli e dalle colonie lontane, lo schiavo-popolo ha decretato il suo diritto alla vita e al sole.
Il cuore degli antichi Spartaco ha battuto all'improvviso nei petti francesi e le fronti si sono risollevate, e le vecchie catene arrugginite sono state spezzate da pugni frementi, ed i pezzi sferzando l'aria hanno schiaffeggiato da tutti i lati i volti terrorizzati e sciocchi dei satolli, degli incapaci e dei traditori che governavano! Di qui la fuga; di qui la mischia e il sublime attentato! Adesso sta per scoccare l'ora dell'attacco.
Ricordate ora, figli della stoica Libertà, ricordate le spoglie che avete accompagnato ripiegando le armi fino ai vostri cimiteri stracolmi! Ricordate le vostre sorelle con le facce livide, che non potevano piangere su bare scoperte!... Andiamo, figli della patria, non è arrivato solo il giorno della gloria, ma il giorno della liberazione! Un colpo di tamburo! e che sugli ultimi bastioni di Parigi, le vivandiere dei vostri battaglioni vi versino da bere, nel bicchiere di stagno, per la liberazione del mondo!
Avete trionfato su tutte le sconfitte imbracciando le armi per l'umanità.
— Certo, se soccombete, o soldati!, pur cadendo saprete che la vostra causa è salva per sempre, essendo immortale, e dormirete nella memoria generosa degli uomini che verranno, siatene certi, perché il vostro sangue germoglierà! Vi abbiamo visti, in queste ultime sere, nelle feste che avete dato di fronte ai cannoni nemici, nel più splendido palazzo della terra! mentre le aquile panciute vi osservavano dal soffitto delle sale, come dal fondo di un cielo di vergogna, con le loro ridicole saette fra le zampe.
Ed era grandioso vedere, finalmente, donne abbigliate modestamente e uomini dagli occhi sinceri passare sotto le stesse volte in cui l'adulterio, l'ipocrisia, l'omicidio, l'estorsione e la tortura hanno passeggiato per tanti secoli, con un diadema sulla fronte ed il rispetto dell'universo ai piedi. Avete allestito questo spettacolo, col fucile in pugno, e con soddisfazione! E da lontano le vedove e le vecchie madri ed i bambini potevano guardare, per una volta, i giardini e le finestre illuminate delle Tuileries senza maledire la festa, poiché quel bagliore avrebbe dato loro il pane!
In fondo agli Champs-Élysées, di fronte al balcone reale, laggiù, nella notte, sotto il cielo violetto e scuro, la barricata di Courbevoie sparava i fuochi artificiali, pagati questa volta non a peso d'oro, ma a peso di sangue! A intervalli, l'applauso rauco e lontano delle mitragliatrici arrivava attraverso la finestra aperta, portato dalla brezza della primavera, mescolandosi al battito di mani che salutavano entusiasticamente, nella sala dei marescialli dell'impero, i versi degli Châtiments. Se Picard, al racconto di quella indimenticabile serata, ha sorriso di rabbia e di pietà, Danton avrà sussultato nella tomba. Compensazione sufficiente a rassicurare l'orgoglio del popolo.
Ah! da quando è stato accertato che: gloria, vittoria, guerrieri e allori dipendono dai cannoni a retrocarica, si ottengono con l'insidia e si consacrano grazie alla fame, invece di emergere nei combattimenti in campo aperto, il popolo non è più così fiero di quelle belle rime! Ha decretato, malgrado Béranger e malgrado i mucchi di abbrutiti protestanti all'angolo dei cabaret, malgrado le vecchie canzoni, che solo una colonna era gloriosa — la sua! E che l'altra non era in effetti che il ritornello di una vecchia canzone! Ecco perché «il monumento fuso con i cannoni nemici» sta per lasciare il suo zoccolo e le sue gialle corone.
Già l'uomo di Sedan aveva ritoccato la colonna. Toccata funesta — Wagram, sia! — ma la presa della Bastiglia prima di tutto! La Libertà innanzitutto! Senza l'89 non ci sarebbero state Wagram ed Austerlitz, non più di Lipsia e Waterloo. Dato che il nipote si è ricoperto coi raggi dello zio, è naturale che il sole insanguinato del 18 brumaio si corichi per sempre lungo piazza Vendôme su un letto che assomiglia all'ombra di Sedan!
 
 
II
 
I club
Ecco cosa si è convenuto. Dalle cinque del mattino alla cinque della sera, le chiese sono del clero. Alle cinque il sagrestano riordina la preghiera, mette i vasi sacri nell'armadio, sistema il santuario ed invita i devoti a ritirarsi. Alle otto, entra la gente.
Nei primi giorni ci sono stati incontri spiacevoli. Non ci si era capiti affatto. La Comune e il cattolicesimo si scontravano sulle scale. Ne conseguivano dei tafferugli. La condivisione dava luogo a qualche lamentela. Il tribuno che vedeva il pulpito chiuso era costretto a sfondare la porta; il prete che il mattino dopo raccoglieva un mozzicone di sigaro nella navata, scriveva una lettera al Gaulois. Ecco che la buona intelligenza si è ristabilita; ciascuno si accontentava della sua parte, in attesa del meglio, ed il cielo come al solito si è dimostrato accomodante con le potenze del giorno.
 
Uno dei luoghi di incontro più curiosi è la chiesa Saint-Nicolas-des-Champs. Ogni sera vedrete una folla numerosa affrettarsi in via Saint-Martin e lungo Arts-et-Métiers; vi avverto che faticherete ad entrare in chiesa. Mai gli esercizi del mese di Maria hanno attirato tanti fedeli.
Tuttavia, lasciandovi trasportare dal flusso, non tarderete ad entrare nel tempio. Lo spettacolo è impressionante. Sotto quelle antiche volte stupefatte, che di solito risuonano di canti austeri, si ode il confuso brusio della folla.
Cittadini e cittadine, i primi col cappello in testa e il sigaro fra le labbra, le seconde appoggiate alle colonne, terminando la loro cena stanno ammassati in un rozzo disordine.
I lumi accesi non impediscono a quelle masse di perdersi lontano in un'ombra misteriosa. Le cappelle particolari sono invase, l'angelo delle fonti battesimali ha un'aria singolare e, se guardate bene, vedrete qua e là statue di vergini e di santi, simili a punti interrogativi, avanzare timorosamente il loro volto di marmo.
Il loro stupore è naturale. Sul pulpito, invece del prete in tonaca bianca o del cappuccino col saio, un uomo sta in piedi con la mano sull’elsa della sciabola, il kepì sulla fronte, la sciarpa rossa attorno ai fianchi, e indirizza alla moltitudine un nuovo tipo di sermone. A ben guardare, sono le stesse parole a uscirgli dalla bocca. Come il prete, quell’uomo parla di libertà e di fratellanza, ma non lo fa con la stessa enfasi, e si capisce che egli non vi attribuisce lo stesso significato. L’eco della chiesa risuona di accenti virili e audaci, dimenticati da secoli, ed il suono delle parole viene prolungato come se ogni angolo dei muri se le ripetesse a bassa voce.
Quando qualche frase sonora piace al pubblico, questo applaude. Quelle esclamazioni, quelle grida, quel tumulto, assai semplici altrove, conferiscono al luogo un non so che di solenne e di strano. Un credente sarebbe giustificato ad immaginare così il proprio inferno. Comunque, nulla che non sia onesto e leale. Gli astanti e l'oratore sono gravi e convinti. Così i valorosi pastori del deserto si recavano nei templi conquistati al nemico a predicare una nuova religione.
 
Siamo sinceri. Il primo aspetto stringe il cuore del poeta. È imbarazzato dai suoi ricordi. Per poco praticante che egli sia, crede di vedere mille ombre misteriose ergersi sui marmi, come a chiedere ragione agli uomini di scuoterle dal loro sonno secolare, loro che non sono più di questo mondo e che forse non lo sono mai state. Gli stessi increduli dicono che bisogna lasciare che i morti seppelliscano i morti. Chi ha permesso quindi alla vita di introdursi così rumorosamente nel regno della tomba?
L'oratore è là per il diritto della sua egida. Il Caino di Byron offendeva così gli ordini dell'Altissimo. Ben presto una solenne emozione s’impadronisce dell'anima. Questo rifugio di fede ingenua s’impregna di selvaggia grandezza; quegli uomini, quelli che parlano e quelli che ascoltano, sono forse apostoli? Chiunque essi siano, daranno il sangue per la loro causa. Sentite il cannone che rimbomba? Le porte del santuario possono aprirsi davanti ai martiri.
 
Si entra, si esce, si circola, ci si assembra. Le risa del monello di Parigi interrompono le discussioni politiche. Avvicinatevi ai gruppi, ascoltate. Un popolo intero parla di cose serie, per la prima volta si odono operai scambiarsi pareri su problemi fino a quel momento affrontati solo dai filosofi. Di controllori non c’è traccia; nessun agente di polizia ostruisce la via ed infastidisce i passanti. La sicurezza è perfetta.
Una volta, quando quello stesso popolo usciva avvinazzato dalle bettole, il borghese si faceva da parte dicendo a bassa voce: «Se costoro fossero liberi, cosa diventeremmo noi? Cosa diventerebbero loro stessi?».
Sono liberi, e non ballano più. Sono liberi, e lavorano. Sono liberi, e combattono.
Quando un uomo in buona fede passa loro accanto oggi, capisce che un nuovo secolo è appena sbocciato e al più scettico par di sognare.
 
 
III
 
I bassorilievi della colonna Vendôme
Oggi non sono più che un ricordo. Domani la scopa ne avrà disperso gli ultimi resti. Gli antiquari dell'avvenire ricercheranno avidamente i minimi dettagli sul monumento svanito al soffio del popolo. — D’altra parte, crediamo che la descrizione dei bassorilievi possa interessare i nostri contemporanei e racconteremo l'immensa spirale.
Era proprio la colonna dell'imperatore, non una delle vittorie della Repubblica vi figurava.
L'iscrizione del piedistallo:
Neapoleo. Imp. Aug.
Monumentum. Belli. Germanici.
Anno. M.D.C.C.C.V.
Trimestri. Spatio. Ductu.Suo.Profligati.
Ex.Aere.Capto.
Gloriae.Exercitus.Maximi.Dicavit.
 
è stata così tradotta da A. Dumas:
Polione, Generale d'Augusto,
Ha eretto questo monumento della guerra di Germanicus
Da lui sconfitto in tre mesi.
Con il denaro del vinto
Alla gloria del suo immenso esercito
 
critica fortemente spirituale e giusta di tutte le iscrizioni provenienti dalla stupidità dei membri dell'Accademia di iscrizioni e belle lettere.
I bassorilievi erano alti un metro e settanta e avviluppavano la colonna per ventidue volte, su una lunghezza di duecentottanta metri. Si componevano di sessantasette soggetti ispirati dalla campagna di Austerlitz. Napoleone li aveva scelti di persona. Le iscrizioni che erano sotto i bassorilievi erano del sapiente Denon e del principe di Wagram.
Inizialmente Napoleone voleva mettere in cima alla colonna non la sua statua, ma quella di Carlo Magno. Fu dopo Jena, Eylau e Friedland che, convinto dai suoi adulatori, cambiò idea.
La sua prima statua, scolpita da Chaudet, venne sostituita nel 1844 con un'altra scolpita da Seurre. Essa rappresentava l'imperatore in costume da battaglia, su un piedistallo di palle da cannone. Cappello, stivali, redingote sulle spalle, binocolo, spada, erano la copia fedele dell'equipaggiamento di Napoleone ad Austerlitz. L'ultima statua era stata innalzata nel 1863.
L'arruolamento nel campo di Boulogne, questo è il soggetto dei primi bassorilievi. Sul primo, l'imperatore passa in rassegna le sue truppe, e la flotta del Havre doppia il capo di Alpreck. La leggenda spiega la coincidenza tra il momento di questa rassegna e l'arrivo dei vascelli con una delicata attenzione dell'Oceano, desideroso di compiacere l'imperatore. Poi c'è la partenza dei diversi corpi d'armata, di Boulogne, di Brest e di Utrecht. Si vedono in successione le truppe dedicarsi a tutti gli esercizi possibili: marciare in colonna, a passo ginnico, superare fiumi, attraversare città, fare infine tutto ciò che riguarda il loro stato di grande esercito. Artiglieria, cavalleria, fanteria, c'è di tutto in quell’inestricabile miscuglio di uomini, di cannoni, cavalli, fucili e berretti piumati.
Nel sesto quadro, l'imperatore si presenta al senato ed annuncia l'inizio della guerra contro la terza coalizione.
La serie di episodi continua: i soldati sono ancora in marcia; eccoli attraversare il Reno a Magonza, Mannheim, Spira, Durlach e Strasburgo, in cinque punti contemporaneamente. Poi ecco l'imperatore superare in pompa magna, con la sua immancabile redingote, il ponte di Kehl. Attorno a lui caracolla un numeroso stato-maggiore, i cui costumi ricordano, confondendosi, l'aspetto del defunto ballo dell'Opera la notte del Martedì Grasso.
Più in là, gli elettori di Baden e Württemberg ricevono l'illustre redingote, sempre appollaiata sul suo cavallo: graziosa scena di appiattimento principesco. La sfilata delle truppe ricomincia. Riporta a Donauwörth; il quinto quadro rappresenta la battaglia in questione. Poi è la volta della battaglia di Wertingen, combattuta da Murat, e del passaggio del Danubio a Bratislava da parte del secondo e terzo corpo d'armata.
La situazione si fa tesa: l'imperatore è entrato ad Augusta ed arringa le sue truppe sul campo di battaglia, alla maniera degli imperatori romani: lo dice la leggenda. Il grand'uomo è in una posa olimpica, ma che deve infastidire alquanto il suo stare a cavallo. Eloquenza ed alta scuola riunite.
Ventiquattresimo quadro: Vittoria di Soult a Memmingen. Una filacciosa iscrizione spiega al pubblico — che dal basso non può già più leggerla, nemmeno col binocolo migliore — come Ney abbia forzato il passaggio del ponte di Elchingen, operazione grazie alla quale uno dei grandi uomini di guerra che mangiano con Napoleone III il pane amaro di Chislehurst porta il titolo di duca di Elchingen.
Nel trentunesimo quadro, Berthier, circondato dal suo stato-maggiore, sempre adornato con gli stessi inverosimili piumaggi, ha un incontro col generale Mack costretto ad arrendersi.
La panoramica continua, la guarnigione di Ulm esce dalla città e abbassa le armi: nel quadro trentatré, l'imperatore riceve il generale Mack; e arriva ciò che la leggenda chiama «una ingegnosa e superba allegoria». Questa allegoria superba e ingegnosa è di una schiacciante semplicità, come vedrete. Si compone soltanto di una Vittoria ornata con un paio di ali d'aquila, ed armata di una matita con cui scrive su un registro molto ben rilegato: Capitolazione di Ulm.
Poi segue l'ingresso a Monaco e Braunau ed il passaggio dell'Inn. Un po' più lontano, il 76° reggimento rientra in possesso della sua bandiera, persa in una precedente campagna e ritrovata nell'arsenale d'Innsbruck.
Segue qualche altra scena di massacri: la battaglia disperata di Krems, vicino a Durnstein, battaglia in cui francesi e russi lottarono quasi esclusivamente all'arma bianca.
Più oltre, l'ingresso a Vienna. Napoleone riceve le chiavi della capitale. Una delegazione, mandata da Parigi, gli tributa rispettosamente l'assicurazione della sua distinta considerazione. Un po' più in là, l'imperatore lascia Vienna e si mette in marcia per Brann, scortato da un gran numero di generali.
Il colpo grosso della campagna è imminente, una ricognizione viene fatta fino a Olmütz, e le alture di Santon sono occupate dall'artiglieria.
Ancora qualche bassorilievo e siamo in pieno inverno. È la notte del 31 dicembre. Il grand’uomo, avvolto nel suo cappotto, visita con aria gelida i suoi avamposti. I soldati hanno acceso delle torce e tutto il campo è illuminato a giorno. Il grand’uomo viene adulato, ma poco riscaldato. Si percepisce che, senza il decoro, soffierebbe sulle sue dita imperiali.
Verso la cima della colonna, Napoleone trionfa su tutta la linea. Il sole di Austerlitz esce per la prima volta dal magazzino di accessori del guardaroba. Vediamo l'imperatore a cavallo che dà ordini ai suoi marescialli. Una furiosa carica di cavalleria sfonda le colonne mentre i fanti di Oudinot lanciano un corpo d'armata russo nel lago Auger gelato.
L'imperatore d'Austria, sconfitto, nella scena seguente chiede un armistizio al buon fratello. I soldati francesi spostano dall'arsenale di Vienna i cannoni con cui sarà fatta la colonna. Talleyrand arriva a Bratislava per negoziare il trattato che Napoleone firmerà il giorno dopo Natale. Si prova un singolare stupore nel veder comparire di colpo il leone di San Marco, circondato da una flotta di gondole. Questa scena, veneziana quanto inattesa, annuncia la cessione della Venezia.
È il grande momento in cui tutti si abbracciano. Gli elettori della Baviera e di Württemberg ricevono corone, la guardia imperiale ritorna in Francia, Napoleone arriva a Parigi e passa sotto l'Arco di Trionfo, seguito da spoglie opime, accolto come il primo Cesare.
Infine, nell'ultimo bassorilievo, la Fala dalle cento voci proclama, al suono della sua tromba, i grandi avvenimenti della campagna del 1805. Malinconicamente appoggiata sulla sua urna, la Senna lo ascolta con aria annoiata.
Questa è la colonna «trofeo»
Bronzo, che volteggia sulla sua base immobile
Sembra portare al cielo la sua gloria e il suo nulla...
ed il cui nulla resta solo mentre la gloria è assai lontana.
 
 
IV
 
I caffè-concerto
Parigi è la città prodigio.
È stato detto, è stato scritto cento volte. Per cantare le sue meravigliose trasformazioni, poeti e romanzieri hanno esaurito i tesori della loro immaginazione e le risorse della lingua.
Eppure c'è sempre qualcosa da dire su questa città dei miracoli. Che inesauribile soggetto è questo: raccontare Parigi; compito sovrumano quello di contemplare Parigi.
Osservatela, infatti, questa città guerriera artistica e mercantile, partorire nel contempo sublimi poeti, stupefacenti inventori, intrepidi soldati e inimitabili saltimbanchi. Perché, in questa città unica, tutto è mirabile. Nelle sue vie, ad ogni passo si viene a contatto con qualcosa di grande, ogni minuto trascorso nelle sue mura inviolabili genera l'imprevisto; l'imprevisto di volta in volta grottesco e ridicolo, terrificante e grandioso.
Così, mentre la notte placida copre la città turbolenta, non ci si stupisce nel sentire risuonare contemporaneamente nelle strade gli scoppi di una granata perduta e le risate argentine delle coppie innamorate che ritornano felici a casa canticchiando qualche delizioso ritornello dei caffè-concerto.
 
Perché nella nostra città si canta perfino adesso. Viene comunque mitragliata. I mortai e gli obici infuriano nella lontana campagna insanguinata diventata campo di battaglia. I proiettili sibilano nelle vie, sbriciolando qua e là pezzi di muro.
Ovunque si odono rumori di guerra: in mezzo alla notte trombe e tamburi riecheggiano all’improvviso, invitando eroi sconosciuti alle terribili feste del bastione e della trincea. In alto, nella bruma, rimbomba Montmartre, la cittadella suprema. In basso, si canta.
 
Osservate piuttosto: la sala è ampia e alta. Sfavilla di luci. Sulla scena banale si dimena un pagliaccio, buono o cattivo, che importa! In quei teatri ambulanti c'è qualcuno che fa ridere il popolo che lotta e che soffre. È un bene. Qual è il pubblico? Operai che hanno lasciato prima del tempo il reparto — il reparto in cui si fabbricano bombe, cartucce e siluri —, cittadini che la notte prima hanno vegliato sulle mura minacciate con l’arma in braccio, e poi vecchi e donne.
Tutta questa gente vuole ridere per qualche istante, dimenticare i lavori del giorno ed i pericoli del domani. Fanno male? Hanno torto? Chi oserebbe dirlo? Colui che, chinandosi sul suo vicino, ripete felice il ritornello appena sentito, domani potrebbe essere steso, freddo e rigido, in un’ambulanza stracolma di ritorno dagli avamposti. Egli non ci misura il suo coraggio, non misurategli la sua gioia.
 
Che c’è? Parigi combatte e canta! Parigi è alla vigilia d’essere assalita da un esercito implacabile e furioso, e ride. Parigi erige fortezze, terrapieni, parapetti e, al tempo stesso, nella sua temibile cinta conserva luoghi in cui si ride.
Parigi ha soldati ed ha cantanti! Ha cannoni e violini! Fabbrica contemporaneamente bombe orsiniane e strofe di fattura; il motivetto spezza l'intervallo terribile delle bordate d’artiglieria e gli allegri rondò si mescolano ai ritornelli stridenti delle mitragliatrici americane!
È così. Non lo sappiamo che è la città prodigio?
 
All'assedio di Lerida, i gentiluomini dell'esercito del gran Condé ebbero la fantasia di ordinare dei violini che, paralizzati per la paura, suonarono al loro meglio un motivo di moda, mentre si dava l'assalto. Menestrelli e gentiluomini fecero il loro dovere: il motivo venne suonato fino alla fine e Lerida presa e saccheggiata da cima a fondo.
La storia ha registrato quel fatto e reso giustizia ai due coraggi. Oggi i gentiluomini e i violinisti di Lerida non sono superati e di molto?
Infatti si ride e si canta dopo essere sfuggiti il giorno prima ad una morte immanente, ben sapendo che l'indomani ci si troverà esposti a nuovi pericoli; ciò non impedisce di approfittare dell'attimo di tregua offerto. Non si può essere sempre eroici; fa bene scendere di tanto in tanto dalle altezze epiche. Il cittadino di Parigi può, come il vecchio Omero, riposarsi dall'Iliade con la Batracomiomachia.
Parigi deve essere certo un curioso spettacolo per qualcuno estraneo alle nostre lotte e alle nostre aspirazioni che, piombando d’un tratto in mezzo a noi, osservi con occhio imparziale la nostra città diventata, per un empio assedio, misteriosa e impenetrabile.
Ad ogni passo potrebbe imbattersi in qualche quadro impressionante ed inatteso. Laddove si aspettava di trovare un popolo in lutto, percorrere in preda a convulsioni di disperazione le strade vuote e le piazze deserte della sua città spopolata, vedrà una popolazione tranquillamente affaccendata a recarsi, in base all’ora e alla diversità di carattere, dove la chiamano il piacere o il dovere.
I caffè-concerto soprattutto lo faranno piombare in un profondo stupore. Tuttavia, se rifletterà un istante e in buona fede, capirà che è un bene che il riso popolare scoppi a momenti, come un raggio di sole in mezzo a un fosco temporale, attraverso le tempeste della guerra civile.
L'atmosfera che respiriamo è carica di odio; il cielo che si stende sopra di noi non è più blu, il suo azzurro è intorbidito dal fumo dei villaggi incendiati; il sole stesso ci manda i suoi raggi attraversati dai rossi bagliori delle granate e della mitragliatrice. Soltanto il riso, il riso, questa eterna prerogativa umana, sopravvive ancora, abbagliante, invincibile, in mezzo alle rovine di ogni cosa. È questa la nostra consolazione ed è questa la nostra forza.
Il giorno in cui dovessimo perdere questo potente elisir che ravviva il calore delle nostre vene e moltiplica la forza dei nostri muscoli, saremmo sminuiti, sconvolti, sfiniti. Parigi è la città dell'eroismo e la città del riso. Vi sono nati Pantagruel e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Lasciatelo perciò ridere a pieni polmoni, questo gigante che amava Rabelais e che temeva Robespierre!
D'altronde, non è uno dei segni più eclatanti della nostra forza il fatto che questi scoppi di risa rispondano agli scoppi di granate che piombano su di noi da tutte le parti, e minacciano senza sosta di inghiottirci vivi sotto le macerie fumanti delle nostre case? Non è un'arma suprema e irresistibile che nessuno può strapparci?
Come astuzia di guerra approntata al fine di depistare le strategie del nemico, di ingannarlo e dargli una profonda stanchezza che gli faccia comprendere l'inutilità del suo lavoro distruttivo, cosa può esserci di più proficuo e più efficace di quella risata pubblica, splendida e sonora, che scaturisce dalle folle tenebrose come uno zampillo di lampi in mezzo ad un'orrida tempesta?
E quale migliore risposta alle incessanti cannonate dei nostri accaniti nemici di quel ritornello che mille voci ripetono, ogni sera, nei venti caffè-concerto di Parigi:
I popoli sono per noi fratelli,
Ma i versagliesi sono nemici...
 
 
V
 
La caccia ai refrattari
Sarà uno dei ricordi al tempo stesso più tristi e più curiosi di questa guerra, quello della caccia ai refrattari che la Comune si vede di tanto in tanto costretta ad ordinare in alcuni dipartimenti. Cacce troppo produttive, per sfortuna, soprattutto qualche settimana fa. Oggi il numero di refrattari è diminuito di molto.
I più numerosi erano nel quinto e nel nono dipartimento (arrondissement). Passeggiavano tranquillamente per le strade, mescolandosi ai gruppi, sbeffeggiando piacevolmente i battaglioni che partivano per gli avamposti e ridacchiando ad ogni lutto e ad ogni miseria.
Talvolta i vicini indignati, donne i cui figli combattevano in trincea, ne denunciavano alcuni che venivano subito incorporati, armati e mandati sul fronte. In un giorno ne abbiamo visti arrestare tre, che ridevano e alzavano le spalle al passaggio di un carro funebre adornato di bandiere rosse.
Ma quelle troppo rare esecuzioni non bastavano... Si è dovuto ricorrere al mezzo già impiegato con le donne di malaffare, alle «retate» contemporanee di un intero quartiere. Solitamente la caccia iniziava alle nove del mattino. All'estremità di tutte le strade che limitano il teatro della “razzia”, picchetti di guardie nazionali proibivano il passaggio. In un quarto d'ora il dipartimento veniva completamente circondato.
Si poteva entrare liberamente, ma tanto peggio per chi voleva uscire senza essere munito di una carta d'identità comprovante di essere incorporato in un battaglione, o di essere esentato dal servizio di guerra per via dell'età. Era allora che avvenivano scene penose e cialtronesche. Uno tentava di persuadere i picchetti di essere totalmente invalido e incapace di essere utile. L'altro invocava la necessità di andare a trovare la zia morente. Alcuni affermavano con sicumera di aver bisogno di recarsi, per una questione di grande interesse per la Comune, al municipio o a questo o quel ministero. Sventurati: un picchetto di quattro uomini li avrebbe condotti subito nel luogo in cui sostenevano di essere attesi, e tanto peggio per i simulatori.
Non uno che avesse il coraggio di dire che rifiutava di battersi perché le sue idee politiche glielo vietavano. La maggior parte non insisteva, si allontanava dalle sentinelle e ripiegava verso un'altra strada altrettanto presidiata. Allora, per il fuggitivo iniziava la corsa, corsa a passo ginnico, corsa disperata sbuffando, perdendo il berretto, urtando i passanti. Simile ad un maggiolino prigioniero in una palla di vetro, sbatteva dappertutto contro un insuperabile cordone di sentinelle. Parigi gli sembrava irta di baionette di Damocle. Non una stradina laterale in cui non cercasse di forzare il passaggio, non un vicolo cieco malfamato in cui non si precipitasse, sempre senza risultato. Nulla veniva tralasciato, a nord, a sud, a est, a ovest, ma tutto era circondato!
A quel punto, nella mente agitata montava la marea di oscure riflessioni e di folli collere contro la Comune che lo costringeva a fare il suo dovere di cittadino. Avrebbe voluto essere in qualsiasi altro luogo, in cima al Pantheon o in fondo ad una grande rete fognaria; rimpiangeva il tempo delle fate che potevano trasportarlo in un batter d'occhio da un luogo ad un altro, e l'anello di Gige che l’avrebbe reso invisibile. Sopraggiungeva lo sconforto. Alcuni, affettando un'aria indifferente, restavano in mezzo alla strada, il più lontano possibile dai picchetti.
Precauzione inutile: arrivava una guardia nazionale, che bisognava seguire al comando. Altri salivano sul piano alto di un omnibus, sperando di passare inosservati. Errore assoluto... davanti al cordone delle sentinelle, l'omnibus si fermava. Bisognava scendere, facendo finta di cercare in mezzo a sguardi beffardi dei documenti che non si avevano, giurando di aver perduto il portafoglio e, alla fine, raggiungendo al municipio coloro che si erano fatti prendere a piedi.
A nulla sarebbe servito tornare a casa e far scivolare cinque franchi nella mano del portiere affinché rispondesse a chiunque che si era fuori. Desideroso di guadagnare il suo denaro, il portinaio si affrettava ad avvisare la prima guardia nazionale che si presentava che c’era un refrattario al tale piano, la porta a destra. Tutti, o quasi tutti, ci passavano, tranne quelli che il caso teneva per tutta la giornata fuori dal loro quartiere. Alle cinque era tutto finito e la circolazione tornava libera. Oltre ai refrattari si cercavano armi nascoste, ed era raro che la perquisizione non producesse risultati di rilievo.
In rue de Rome — per citarne una — sono stati trovati la stessa sera ottanta fucili, divisi in tre o quattro fra diverse persone. Non passava giorno in cui la Comune non rientrava in possesso, con la stessa modalità, di un gran numero di sciabole e rivoltelle, all’inizio distribuite ad ufficiali che in seguito avevano dato le dimissioni e conservato le armi «come ricordo».
Abbiamo accennato che nel quinto e nel nono dipartimento le perquisizioni e le cacce ai refrattari sono state più frequenti. In alcuni quartieri, dove la municipalità si dimostrava più attenta agli interessi della Comune, queste misure erano inutili. Nel diciottesimo, in particolare, non esistevano cosiddetti refrattari. Il municipio aveva saputo rendere loro l'esistenza così perfettamente insopportabile che si erano tutti arruolati oppure trasferiti.
Prima di concludere questo saggio constatiamo una cosa che può sembrare singolare di primo acchito. Tutte quelle persone, una volta incorporate e mandate al fronte, combattevano bene quanto gli altri. È solo il primo passo quello che costa.
Sarà forse per non smentire il proverbio «Il primo passo si fa senza pensarci» che la Comune li acciuffava di solito nel momento in cui ci pensavano di meno.
 
 
[Le Tribun du peuple, 17-20 maggio 1871]