Brulotti

La proprietà privata

Umberto Postiglione
 
A corroborare la nostra affermazione che l'origine viziosa della ricchezza privata sta nella malignità, nella forza, certo effimera, dei pochi, nella indolenza, nella ignavia dei molti, ci piace riportare il pensiero di coloro, non sospetti certo di soverchia tenerezza verso la classe lavoratrice, ma che furono i giannizzeri della classe padronale, cioè i cosiddetti padri della chiesa. La natura, diceva Sant'Ambrogio, fornisce i suoi beni a tutti gli uomini in comune. Egli è dunque la stessa natura che ha generato il diritto alla comunità, mentre la sola usurpazione è quella dessa che ha prodotto il diritto della proprietà.

San Basilio paragonava il ricco «a quel tale che essendosi per tempo recato al teatro, ed impossessatosi senza ostacolo dei posti destinati al rimanente pubblico, pretese di contrastare a quello l'entrata e l'opportuno posto, arrogandosi al solo uso proprio quello che era realmente destinato ad uso comune».
La terra, aggiunge Sant'Ambrogio, essendo stata data in comune a tutti gli uomini, veruno può dirsi proprietario di ciò che eccede i suoi bisogni naturali, e di quanto ha stornato al fondo comune, di quanto la sola violenza a lui conserva. E di questo passo potremmo riempire un intero volume. Peccato però, che così concordi con noi nelle premesse, i padri e più ancora i figli della chiesa, si allontanino poi, e di molto, dalle nostre logiche conclusioni.
 
I nostri progenitori, purtroppo, non si ribellarono alla sopraffazione patita, ma con la loro ignavia, saldarono essi stessi la ferrea catena della schiavitù secolare che trasciniamo ancor noi.
I pochi, fatti arditi dall'indolenza dei molti, pari a quel tale che avendo per una volta mangiato la carne di pollo, non volle saperne più di quella di pecora, vollero assicurarsi il definitivo e perpetuo possesso della ricchezza espropriata ai molti.
Intanto la loro espropriazione aveva segnato la fine della libertà dello stato di
natura, il principio dell'oppressione dell'uomo sull'uomo: alla pace, alla tranquillità era subentrata la guerra fra il diritto del più forte, e il diritto del primo occupante.
Da tale bellicosa situazione i pochi detentori della ricchezza avevano tutto da temere, sicché pensarono, e purtroppo riuscirono anche, a volgere le forze in
conflitto al consolidamento del loro imperio, per la sanzione della loro usurpazione.
E i pochi, gli usurpatori, scrive Rousseau, dissero ai molti, ai derubati: «Uniamoci per garantire dall'oppressione i deboli, contenere gli ambiziosi, assicurare ad ognuno il possesso di ciò che gli appartiene; istituiamo dei regolamenti di giustizia e di pace, ai quali tutti siano obbligati a conformarsi, che non facciano eccezione per nessuno, e che riparino in qualche modo ai capricci della fortuna, assoggettando ugualmente il potente ed il debole ai mutui doveri. In una parola, in luogo di rivoltare le nostre forze contro noi stessi, riuniamole in un potere supremo che ci governi con savie leggi, che protegga e difenda tutti i membri dell'associazione: respinga i nemici comuni e ci mantenga in perpetua concordia».
Ecco così sorgere l'embrione del governo, con l'evidente lampante attribuzione di salvaguardare gli interessi della classe detentrice della ricchezza; ecco sorgere il codice, la legge, col precipuo mandato di consacrare l'usurpazione perfida e violenta dei pochi; dichiarar sacra ed inviolabile la ricchezza sottratta con la forza, con l'inganno e con la frode ai molti.
 
Nella società primitiva da noi superficialmente esaminata, la ricchezza privata era rappresentata dalle terre, dalle capanne, dai pochi utensili in uso sin d'allora, e infine dalle persone vinte e fatte schiave, e da tutto ciò che tali persone andavano quotidianamente producendo. Ma una volta la società consolidatasi, e cresciuti i rapporti fra i membri di essa, gli uomini si trovano ad aver bisogno di oggetti che altri producono; sorge allora in forma rudimentale lo scambio dei prodotti, che si denominano, comunemente e con parola generica, merci.
Ora, con l'andar del tempo, per rendere più facilmente praticabili tali operazioni di scambio fra merci di qualsiasi qualità e quantità, si pensò di trovare un termine di rapporto fra il valore delle merci stesse, una merce cioè che fosse la base di misura del valore di tutte le merci poste in circolazione.
Questa merce speciale, presso le società primitive, era l'oggetto più comune e più frazionabile, come si usa ancor oggi fra i popoli che sogliono chiamarsi meno inciviliti. Ma, per ragioni che qui è inutile ricordare, fu scelto poi come misura del valore delle merci, l'oro, o un altro metallo prezioso, coniato sotto forma di moneta. Con l'introduzione della moneta, l'umanità sanzionava la sua terribile condanna alla vita affannosa e tormentata, fatta di strazi e di pianti, che trascina ancora oggidì.
La moneta, questa fata ammaliatrice, questa forza miracolosa che affascina e travolge, che suscita nell'animo umano i più bassi sentimenti del bruto, faceva esclamare al vate della Grecia antica: «Nulla al pari del denaro, ha suscitato, fra gli uomini cattive leggi e mal costume. È desso che pone la discordia nella città, e caccia gli abitanti dalle loro dimore; è desso che trascina le belle anime verso tutto ciò che esiste di più vergognoso e di più funesto all'umana famiglia e le spinge a cercare in ogni cosa il male e l'empietà».
 
 
[Cronaca Sovversiva, anno X, n. 28, 13/7/1912]