Brulotti

Cose da dire

A. N.
 
Zdena osservava quell'avvicinamento. E non le piaceva affatto. Più di tutto la irritava pensare che lui, una nullità che lei poteva schiacciare in qualsiasi momento mandandolo anche a morte se le andava, aveva il potere più grande di tutti: quello di piacere – non sapeva fino a che punto – all'oggetto della sua ossessione.
Zdena fu tentata di trascinare EPJ 327 nella fila dei condannati: perché non eliminare semplicemente il suo rivale? La dissuase rendersi conto che non era affatto il suo rivale: lei non era in lizza con lui. Indubbiamente, sarebbe stato più intelligente studiare la metodologia dell'uomo. Ahimé, aveva notato che era di quelli che seducono con la parola.
E su quello, Zdena si sentiva in una posizione di inferiorità. Un'unica volta in vita sua aveva creduto di essere stata eloquente: davanti alle telecamere di Concentramento, quando si era dovuta presentare al pubblico, e si era visto il risultato.
Come qualunque fallito, disprezzava chi eccelleva dove lei non era riuscita. «I grandi oratori» – solo così li definiva: bella razza! Perché mai Pannonique era attratta dal loro blabla, dalle loro manfrine? L'idea che una conversazione potesse avere un contenuto non la sfiorava affatto. In gioventù ne aveva conosciuta di gente che discuteva, e aveva ascoltato la vacuità dei loro monologhi alternati – non si sarebbe fatta fregare, lei. D'altronde, Pannonique l'aveva soggiogata senza neanche aprire bocca.
La sua malafede non arrivava però a negare il turbamento provato scoprendo la voce della giovane e l'impatto delle sue parole.
«È diverso» si diceva la kapò. «Mica discute, lei. Quando uno parla per dire qualcosa, è bello».
Ma improvvisamente le sorse un dubbio: che EPJ 327 parlasse a Pannonique per dirle qualcosa. Ecco perché era rimasta conquistata. Dunque aveva delle cose da dire, lo schifoso!
Frugò dentro di sé alla ricerca di «cose da dire». Alla luce delle parole sconvolgenti di Pannonique, aveva capito la regola: una «cosa da dire» era un enunciato che non aveva nulla di superfluo e consentiva uno scambio di informazioni così essenziali da marchiare a vita l'interlocutore.
Zdena, costernata, non trovò nulla in sé che corrispondesse a quelle caratteristiche.
«Sono vuota» pensò.
Pannonique ed EPJ 327 non erano esseri vuoti, lo si capiva. La kapò soffrì come un cane quando si rese conto di questa differenza, dell'abisso che la separava da loro. Si consolò pensando che gli altri kapò, gli organizzatori, gli spettatori e parecchi prigionieri fossero vuoti, anche loro. Era sorprendente: c'era molta più gente vuota che piena. Perché?
Lo ignorava, ma il problema che la assillava era scoprire come smettere di essere vuota.
 
 
[Acido solforico, 2008 ]