Brulotti

Per la vita, per tutta la vita!

 

Agricola [Enrico Arrigoni]
 
Ai qualificati a giudicare della sanità mentale o meno degli uomini, perché ne raccomandino alle cure di qualche psichiatra od al grandissimo diavolo!
Grassazioni, furti, rapine, assassini, ecco la cronaca abituale dei grandi quotidiani. C’è da preoccupare legislatori ed esecutori della legge, giuristi e sbirri, economisti, sociologi e tutta una pleiade di filosofetti che su per le colonne del giornale o della rivista fanno i primi esercizi per le più nobili ascensioni nelle gare del pensiero.
E ciascuno dal suo punto di vista o, meglio, dai promotori avanzati della propria tendenza e del proprio partito, recrimina, propone rimedi, capovolge, sovverte, secondo il fegato e le attitudini, valori e responsabilità. Il democratico purosangue, che il suo democraticismo ha alimentato ostentatamente nei comandamenti della legge di Cristo, vi dirà che manca nella massa lo spirito di relazione, il rispetto e l’ossequio per la roba d’altri, che è stato sempre il postulato più agitato dalla predicazione dell’uomo di Nazareth. Ricorrerà ai Billy Sunday perché aumentino le loro libidini di catechizzazione; invocherà le chiese rigurgitanti di popolo festosamente ansioso di farsi incretinire o illuminare dal ministro divino; e ricorderà con accorato senso di rammarico i beati sistemi della santa inquisizione salvatrice violenta di anime perdute.
Il socialista vi reclamerà una più equa spartizione del comune patrimonio o un accaparramento da parte della società di tutte le ricchezze della nazione. E vi soggiungerà, convinto, che spartita la proprietà privata cesseranno per incanto le grassazioni, i furti, le rapine, ecc. ecc. Logicamente, senza dubbio, perché rimosse le cause saranno rimossi gli effetti. Ma... espropriare bisogna collettivamente, né l’individuo s’attenti a pigliar per sé, esclusivamente per sé, quanto il diritto naturale gli ha accordato nascendo. Espropri la massa in tumulto, attacchi col ferro e col fuoco la proprietà privata nelle giornate calde della rivoluzione, ma non si provi l’uomo, individualmente, ad intaccare le sacre frontiere del mio e del tuo; aspetti egli il radioso sol dell’avvenire perché della vita e dei frutti della sua faticosa esistenza possa godere i benefici. In questa tendenza — e nelle scomuniche di cui essa è pregna — convengono le innumerevoli gradazioni iridescenti del socialismo, del sindacalismo e dell’anarchismo operaistico, per cui sono vanto i sette, i dieci, i quindici anni consumati senza interruzioni e con un senso d’orgoglio al servizio d’un solo padrone. Sono tutti — confessi o negatori — emanazione schietta del pensiero cristiano che reclama l’abnegazione e il sacrificio dell’uno per il tutto, dell’individuo per la società, incespicando nelle contraddizioni più assurde, come quella che vuole la libertà individuale ed impone l’ossequio alle esigenze della società che della libertà personale è la negazione, anche se sarà la società comunistica. Qualcuno dissente ed è un pazzo, un visionario, un asceta o un bruto, secondo le catalogazioni che saranno di preferenza a chi lo osserva; ma quel qualcuno in teoria diventa la totalità nella pratica. Non è certo facile convenire in questo che pur è un assioma per le menti spregiudicate. Tanto più che argomenti non mancano a velare le nudità scandalose del pensiero; tutte le opinioni sono buone e valide quando vi si sappia ricamare intorno orpelli letterari, ornamenti cavillosi, impalcature leggere di frasi eleganti o strutture tozze di parole grosse. Ma vi sono realtà amare contro cui cozzano invano cavilli e orpelli e che rimangono in piedi, accusatrici spietate di ipocrisia, piegatrici di ogni astuzia e di ogni contorcimento parolaio: prima fra tutte queste, l’uomo è eminentemente egoista. La distanza che separa la morale che scomunica e chi la imbraccia e lo scomunicato consiste tutta in una direi quasi feroce sincerità che caratterizza il ribelle in rotta di bando da tutte le morali chiesastiche o sovversive. E se nell’affannare di ideali pomposi sventolati a curare i mali sociali si deve far posto a due tendenze nette, recise e contrastanti, io penso che esse troveranno due soli esponenti: la società e i societari da una parte, i liberatori individualisti dall’altra. I primi ripongono la causa — o il fine come meglio piace denominarlo ai sacrestani pullulati sulla predicazione del dovere — dell’attività umana unicamente nell’insieme, cioè nell’umanità, stabilendo un’interpretazione cervellotica, per cui i generi, le specie, le razze, le famiglie non rappresenterebbero il perfezionamento degli individui ereditato dagli individui, ma la trasformazione di loro stesse che hanno adattato i membri per rispondere ad un fine, il quale, come tale, non può essere nella natura, e deve risiedere in una mente reggitrice fuori dalla natura stessa. Ma l’ipotesi Dio, la mens ex re, è ipotesi trascurabile; la natura non ha fine e conseguentemente reagisce in ogni suo frammento con successioni di reazione all’azione dell’ambiente circostante. È il sistema monistico che si accampa trionfatore con Haeckel nelle scienze naturali contro le dualistiche dissertazioni dei padri e dei professori della chiesa. La protoameba, generatasi per combinazioni chimiche favorevoli nell’acqua, in cui ha avuto la possibilità di movimenti, è andata cambiando forma e sostanza sino a divenire mollusco e poi, attraverso tutti i passaggi di cui rimangono specie e generi, rettile, quadrupede, quadrumane, uomo. Come? L’individuo, in cui la trasformazione s’incomincia, riceve dall’esterno le sensazioni, prepara secondo lo stimolo la reazione e adatta il suo organismo a conservare le impressioni spiacevoli o a respingere gli stimolanti che gli rechino dolore; e tramanda nei suoi nati i perfezionamenti e la trasformazione che l’esperienza e l’esercizio han determinato nel suo organismo.
È una logica concatenazione di effetto a causa, un puro fenomeno di azione e di reazione che crea nell’individuo nuovi stati e ne costituisce le resistenze fisiche e le agilità necessarie a fronteggiare gli stimoli dell’ambiente. È, più che un accordo tra individuo ed ambiente, una lotta continua di quello contro le asperità di questo. E — sarebbe superfluo dirlo — dalle trasformazioni dell’individuo provengono unicamente le trasformazioni dell’insieme. Nel regno animale, come nel regno vegetale, come in quello minerale. L’umanità è episodio innegabile per quanto vasto della natura. Come tale ne segue tutti i fenomeni. L’uomo perciò rimane la ragione e la causa dell’attività di se stesso. Accetta leggi finché gli convengono e fa reazione ad esse secondo che le crede dannose a sé. E poiché vi sono gradazioni infinite di comprensibilità, e cervelli tardivi, lenti — i cervelli, per esempio, della massa attaccata alla tradizione, al passato, conservatrice come nessuna altra forza — e cervelli agili, ansiosi del nuovo e comprensivi di tutto il bello, di tutto il piacevole, è naturale che questi alle leggi di difesa degli altri, che sono i più, si ribellino, cercando di rovesciare dalle sue fondamenta tutta quanta la società.
— Ma la resistenza a tutte le forze contrastanti della natura — obiettano i contemplatori appassionati della società — è solo possibile colla massa. L’individuo isolato non avrebbe fatto la storia e non avrebbe resistito e non avrebbe dato neppure la possibilità delle sue aberrazioni. — D’accordo; ma la storia non è mai entrata nei calcoli dell’individuo se non per esercitazione dialettica a far trionfare una tesi anziché un’altra e la dialettica trionfa quanto più è musicale, e la musica è arte primitiva comune anche alle bestie. Nessun uomo ha lavorato e prodotto per far della storia, se non qualche esaltato apostolo di missioni fantastiche e apocalittiche come Mazzini. Napoleone fu imperatore per il solo gusto di esserlo e per soddisfare la sua incommensurabile ambizione. L’individuo è trascurato nello studio della storia, perché nella considerazione dell’insieme egli sparisce per far posto alla gente ed alla nazione che fomentano le tradizioni, inzaccherano e zavorrano il presente di tutti i detriti del passato. Ma fu appunto l’individuo che diede la grande varietà della natura, la quale, se avesse dovuto rispondere ad una esigenza dell’ambiente o della società, sarebbe stata d’una monotonia seccante e noiosa.
L’uomo si muove per sé, per il suo piccolo mondo. Il resto è suo nemico. Individuo e società sono termini antagonistici, irreconciliabili, sino a quando almeno questa non possa togliere le sue unghie adunche di sopra a quello.
Che cosa è la società? È il trionfo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo; è la forza della legge che deprime l’energia dell’individuo; è la catechizzazione della morale che invigliacchisce l’uomo; è la gloria della pubblica opinione e del senso comune sul deperimento dell’iniziativa individuale; è la morte della libertà dell’individuo per opera del bene comune; è insomma la catena al collo di ogni energetico che sappia aprirsi la strada fra i contrasti della vita a furia d’intrepidezza e d’audacia; è la morta gora della mediocrità pestilenziale contro il volo superbo dell’aquila.
Osservate la massa onesta dei lavoratori che della società costituisce la cura maggiore e la preoccupazione dei sociali Epicuro! Tentate l’azione energica catastrofica della rappresaglia contro uno che vi ha offeso — e con voi ha offeso tutti i vostri compagni di galera — e nella violenza della vostra azione affogate nel sangue, col ventre squarciato dalla dinamite, un padre di famiglia che era un padrone protervo? Vi grideranno assassino e si sforzeranno di togliere l’arte al boia anticipando l’esecuzione legale con una esecuzione sommaria di piazza. Piangeranno come vitelli, i lavoratori onesti, nobilitati dal basto, sulla sorte del povero marmocchio milionario che il vostro atto indemoniato ha orbato del padre; imprecheranno all’anarchico, al delinquente, al fannullone. Piangon miseria da tutti i pori, nel fondo stracciato dei pantaloni e nella manica unta e spelata della giacca, e allibiranno se un audace, che chiaman ladro o rapinatore, al canto della via avrà aggredito un fannullone panciuto carico di ciondoli e di oreficeria alleggerendogli le tasche del portafoglio rigonfio; e l’audace sarà sommerso sotto gli improperi della gente onesta.  Intravedete per la massa amorfa una possibilità d’evasione alla sua miseria permanente? Le additate le turbolenze sovvertitrici e la incoraggiate ad imitarne l’esempio? Vi denunzierà al primo sbirro che si ferma al cantone, se non vi piglierà essa stessa per il colletto e in un momento di furibondo civismo non vi farà grandinar come magli pugni sonori e poi non vi condurrà in guardina a riflettere sulla imbecillità vostra che vi ha fatto sperare un attimo di resistenza e di scatto da parte della folla.
Che se poi, in una riunione di antesignani della società... socialistica, azzardate un solo sorriso di diffidenza che scenda come acqua gelida sugli entusiasmi massimalisti correte lo stesso rischio che, per motivi diametralmente opposti, avete corso fra la massa amorfa. E piglierete le busse in nome del sole dell’avvenire. — Ma non è possibile il progresso e non sono possibili le rivoluzioni che del progresso accelerano il ritmo se non vi dan dentro col vigore delle loro braccia le folle. — Ma le folle non si muovono se non per miseria e per fame; e l’individuo deve aspettare che abbian fame le folle per soddisfare la propria; sbadigli intanto, pazienti. Verrà l’Eden a furia di patimenti quando di fronte ad una condizione di vita insopportabile le folle ripiglieranno inconsapevolmente il proprio diritto sulle loro braccia e riusciranno a farlo trionfare. Ciò sarà bene e logico per lo studioso e per le generazioni; intanto questa massa continuerà a tenervi attaccati a sé, a non permettervi il godimento della vita come le vostre facoltà vi consentirebbero.
Dissero uomini di governo e filosofi accreditati: «i popoli hanno i governi che si meritano» e dissero bene. Perché quando i popoli un governo non lo vogliono lo rovesciano ed hanno ad ogni momento la possibilità di rovesciarlo. Io difendo la borghesia. La difendo a modo mio, cioè... legandole una fune al collo e buttandola in acqua. La borghesia è arrogante perché il suo schiavo le permette di essere arrogante, esiste perché il proletariato le permette di esistere e le avalla tutte le ciurmerie.
Che cosa vi dicono gli eventi della grande guerra? Sapeva il popolo che la guerra per la libertà e per la giustizia era una turlupinatura in cui s’ingrassavano le casseforti di lor signori? E allora è stato imbelle a non imporre il suo basta. Non lo sapeva? E allora è ancora il popolo che vi perseguita con la sua ignoranza, dà con la sua incoscienza autorità e forza alla legge che perseguita l’individuo ribelle; in ogni occasione l’individuo ha il suo nemico nella società.
— Ma tu non consideri i benefici che dalla società ti provengono. — E che cosa mi domanda codesta società in cambio dei benefici che mi regala? La mia libertà, la limitazione dei miei atti, il confinamento in certi dogmi e in certe leggi. Il selvaggio è più felice dell’uomo civile, perché almeno può levarsi con i suoi comodi e se non ha la lampada elettrica nella capanna, ha la sterminata pianura e tutto un dominio illimitato di sensazioni, cui nessuno contrasta con le barriere della morale.
La società mi dà le ferrovie, mi dà i marciapiedi e l’automobile, ma mi impone di uniformarmi alle sue utilità. Mi dà il teatro e il cinematografo ma mi spreme sino alle ultime stille della mia energia. Tutto mi concede con molta limitazione come premio alla mia duttilità di servo e d’invertebrato. Sono a mia portata i tram, per me stazionano le vetture, per me sono aperti il Metropolitan e l’Hippodrome, a patto che paghi il pedaggio; altrimenti... vade retro! pena la conoscenza col randello dello sgherro. In quanto allo stomaco e alle appetitose vetrine che lo solleticano sarà meglio non parlarne; è discorso che stomaca!
Verrà tempo certo in cui, tutto trasformato godrete anche voi senza dover metter mano all’anemica tasca. Intanto bisogna andare a spremersi. Bisogna aspettare il turno per le proprie rivendicazioni quando la rivoluzione avrà maturato la panacea. Voi soffrite? I preti come ricompensa al vostro dolore promettevano il paradiso dopo morte. Noi, più moderni, educati alle razionali deduzioni del pensiero, vi promettiamo... il solito sol dell’avvenire. Oggi rimanete bestie da soma. Levatevi tutte le mattine prima che il gallo canti, e se a letto vi ferma un’attrazione bilanciante la vostra volontà ricordatevi che ad ottenere il bene occorre dominare sul male e dominare sul male significa trionfare sui bisogni del vostro organismo, sui vostri piaceri. Dar l’esempio bisogna — anche quando ne abbiate l’intima ripugnanza — che non vi è lavoro grave e penoso che non vi attragga ammaliatore nel suo tetro ingranaggio. Altrimenti sarete un degenerato, indegno della società dei vostri fratelli di pena e di dolore. Terribile, anatemizzatrice l’imposizione! Siete uno e proseguite la vostra via? Incontrerete il disprezzo dei vostri amici e avrete il vuoto intorno a voi. Siete un mollusco? E chinerete la testa all’anatema e umile rimarrete nel gregge. Ma voi siete un debole, non potete resistere e combattere contro la società. Pigliate la nobile abitudine del lavoro e pur imprecando al padrone che vi sfrutta, alla società che vi costringe nelle sue spire insidiose, vi adattate ad ogni sfruttamento e sorridete di compiacimento e di orgoglio se vi guizzi nel cervello il pensiero che eran schiavi come voi quelli che eressero il Colosseo e piantaron in mezzo al deserto le piramidi colossali che sfidano il tempo e destano l’ammirazione dei milionari vagabondi. Inorgoglite ancora se le intatte strade romane mostrino la loro resistenza al tempo perché fu l’opera dei vostri lontani fratelli di schiavitù che eresse quella secolare affermazione della potenza delle braccia. E vivete nelle nubi. Ma che cosa dà a voi, alla vostra famiglia, in cui si racchiude il vostro piccolo mondo, quest’orgoglio di godimento reale, effettivo? Non potete neppure bearvi della vista di quelle opere d’arte, perché la società ha tassato i mezzi di locomozione come il vostro pane e la bellezza della natura come la creazione del genio, l’acqua che bevete come l’aria che respirate. Sempre la società. Voi non cercate niente a codesta società. E pure essa domanda tutto a voi. Il sudanese non ha domandato neppure i calzoni alla civiltà ed alla società, e pur questa ha ipotecato la sua gagliardia per difendersi... dalla tracotanza del Kaiser.
Tutto è relativo nella vita: l’inerzia come il moto, la ragione come il torto, la verità come il falso. Unico giudice l’individuo, il quale non può con la relatività delle sue facoltà e delle sue attribuzioni giudicare inappellabilmente un altro individuo. Delle due una: o giudica secondo il proprio temperamento ed è arbitrario il voler sul terreno delle attività altrui portare il proprio sistema di considerare gli avvenimenti; o giudica secondo le norme che gli hanno instillato coll’educazione e in nome della morale e della tradizione, ed il suo giudizio è inquinato di tutti i bacilli micidiali della superstizione e del pregiudizio.
Se non c’è niente d’assoluto che serva da guida e da norma alla società, ma tutto si riscontra mutevole, per cui l’assassino di ieri è l’eroe dell’oggi, e viceversa, non si concepisce come possa essa arrogarsi il diritto di costringere l’individuo ad agire a secondo le sue utilità e a dettargli norme di esistenza e rispetti ed ossequi.
È opinione confessata tra le pareti delle proprie intimità intellettuali che la legge è fatta per gli imbecilli. Ma in pubblico la legge si ama svisceratamente e si adora! Ancora: molte leggi non rispondono più ai bisogni nuovi ai nuovi postulati della vita. Ciò anche agli occhi del più ortodosso dei legislatori. Questo sa che è necessario trasformare quella legge; ma non vi dà mano; lo tiene il passato. Non si sente da tutte le parti ricantare la saggezza del diritto romano? E al diritto romano non si ascende per una elegante dimostrazione giuridica? La barba veneranda come la polvere accumulata sui codici illustri e i papiri le cui origini si nascondono nella caligine dei tempi sono argomenti indistruttibili contro cui cozzano pensieri nuovi e nuovi adattamenti. La società vuole imporre questi ritorni, pena la gogna. Ma l’individuo si muove ugualmente; si trascina per quanto può il fardello delle superstizioni e dei pregiudizi e lotta verso il suo miglioramento, che è tutto nel suo io soddisfatto. Giudicate nell’insieme, nella sua storia, nel tempo in cui fu costruito un monumento ed a voi lontani ammiratori non arriverà l’eco dei lamenti, né l’impressione delle sofferenze di quelli che vi diedero mano. Ammirate, indifferenti degli altrui dolori, tanto quanto quelli erano inconsapevoli della vostra ammirazione?
Dissi al principio: «quel qualcuno in teoria diventa la totalità». E s’intende: perché l’ipocrisia, il camouflage è la norma costante della vita, la divisa dell’uomo navigato che sa adattare e guidare la propria barca in mezzo ai marosi. Alle schiette nudità si preferiscono i veli eleganti che nascondono le parti meno simpatiche, secondo le pretensioni morali, del carattere individuale. Il re vi mentirà il suo amore sviscerato pei suoi sudditi, di cui si proclama primo servitore, come il presidente vi glorificherà il suo rispetto alla volontà del paese, come il tribuno vi sventolerà il suo disinteresse, i suoi sacrifici, la sua abnegazione pur di vedere trionfare i diritti proletari. Ma in ogni atto domina la cura di se stesso, sia che tenda ad una soddisfazione che riempia lo stomaco o solleciti l’ambizioso amor proprio, sia che concluda ad una rappresaglia e ad una vendetta lungamente accarezzata. D’altronde, nelle relazioni tra individuo e società, non si può essere contemporaneamente per l’uno e per l’altro. Non è possibile l’affermazione dell’individuo se non a danno della società e viceversa.
O l’individuo è tutto ed è centro a se stesso ed ha diritto ed interesse a battere in breccia contro la società che lo limita ed hanno ugualmente diritto alla considerazione simpatica da parte dello spregiudicato tanto Vaillant, che la vendetta esercita fra un branco di annoiati legislatori, quanto Ravachol che accoppa il Monaco schiamazzante; ed è più efficace il gesto di Callemin, che il crapulone attacca nelle sue più sacre cinte, che le sonorità inutili di innocui petardieri. Ed è il trionfo di tutti i piaceri necessari, utili, e di lusso, in chiunque ne reclama il soddisfacimento su tutte le morali decrepite del passato o quelle avveniristiche dei messia cristianeggianti e faciloni.
O l’individuo è niente e la società è il tutto. Allora non han diritto neppure i preconizzatori della società futura di lamentarsi se questa si difende oggi con lo stesso accanimento e con gli stessi sistemi violenti con cui si difenderà la società comunistica del domani. Io sto per l’individuo. Perciò: Viva il ladro! viva l’audace che sa balzare tra i marasmi ammorbanti della volgarità stupida e piagnona all’affermazione della vita in tutta la sua pienezza con la spensieratezza incurante del Satana ribelle e col sarcasmo del Mefistofele goethiano, lanciando il suo grido di guerra ai Creso esterrefatti e sulle plebi allibite!
 
 
[Eresia, n. 5, settembre 1928]