Miraggi

Spalline e Massacri

 

Georges Darien
 
 
Il colonnello Gabarrot raccontava belle storie.
Diceva che i Russi erano furfanti, che i Prussiani erano banditi, e che gli Inglesi valevano ancor meno. Talvolta mi mostrava la sua croce di ufficiale della Legion d'Onore, che aveva conquistato a forza di sciabolate e che conservava in una bella scatola nera; se ne avessi voluta una simile, da grande, non dovevo far altro che ammazzare molti Russi, molti Prussiani, e soprattutto molti Inglesi. — Disgraziatamente, diceva, non si ammazza più, oggigiorno la gente è diventata sentimentale.
E sogghignava.
Mio padre gli faceva osservare che si ammazzava ancora parecchio. La Crimea, per esempio. Il colonnello ammetteva che la Crimea andava benissimo. Ammazzare dei Russi, niente di meglio; non se ne sbudellano mai abbastanza. Ma perché allearsi con gli Inglesi? L'Imperatore avrà certo avuto le sue ragioni, e di quelle buone; quando si è un Napoleone, si ha del sale in zucca; ma insomma, non avrebbe dovuto dimenticare che gli Inglesi sono Inglesi, e che avevano avvelenato suo zio. Mio padre alzava le spalle; e il colonnello esplodeva.
— Tuoni e fulmini! comandante Maubart, non permetterò mai!... L'hanno avvelenato a Sant'Elena, le dico! Se no, sarebbe tornato, corpo di mille bombe! L'ho conosciuto, io, e fin dalla campagna d'Egitto, per di più!
E posso dirglielo, che sarebbe ritornato, che non ci avrebbe lasciati lì fermi, con le braccia a penzoloni, a mangiarci il fegato con mezza paga, sotto quei pezzenti dei Borboni che avevano visto il fuoco soltanto in cima ai ceri! Sarebbe tornato, sicuro, se gli Inglesi non lo avessero avvelenato!
Mio padre faceva finta di esserne convinto, e parlava della campagna d'Italia.
Il colonnello ammetteva che l'Italia andava benissimo. Ammazzare degli Austriaci, niente di meglio; non se ne sbudellano mai abbastanza.
— Sebbene, a essere onesti, non è poi la fine del mondo dare una menata agli Austriaci; gliene abbiamo appioppato una tale scarica a Wagram che da quel momento sono più smorti delle loro giubbe; ha visto, due anni fa, come si sono fatti battere dai Prussiani. Cosa vuole; quando un popolo si lascia battere dai Prussiani, dei vagabondi, dei cosacchi mancati, non resta altro che pronunciare il proprio de profundis.
Mio padre prendeva le difese dei Prussiani, molto di moda nel 1868; ma il colonnello teneva duro. Lui li conosceva i Prussiani, e molto bene.
— Non è mica per il re di Prussia che sono stato a Iena. Guardi, le dirò cosa sanno fare i Prussiani: sanno sparlarle alle spalle mentre carica la pipa. Tutto qui. E sui famosi fucili ad ago, ecco la mia opinione; con quel fucile non si deve strappare la cartuccia, ed è una bella comodità per dei tipi che non hanno mai potuto guardare il nemico senza battere i denti.
Volevamo molto bene al colonnello Gabarrot; era stato amico intimo di mio nonno, il colonnello Maubart; dopo aver fatto le ultime guerre della Repubblica e quelle dell'Impero, fino a Waterloo, avevano ripreso servizio, insieme, soltanto nel 1830, quando la bandiera tricolore prese il posto dello straccio bianco nel quale i traditori dell'Emigrazione avevano impacchettato i loro aspersori e i loro pugnali, prima di lasciare Coblenza. È vero che c'era un gallo invece di un'aquila sull'asta di quella bandiera; e a Gabarrot non piacevano, e nemmeno a mio nonno, «gli uccelli che si lasciano mangiare». Ma insomma, i colori c'erano; e sotto quei colori combatterono in Algeria per parecchi anni; poi, essendo morto mio nonno, colpito da una pallottola araba, il colonnello Gabarrot andò in pensione di lì a poco. Lo vedo ancora, molto distintamente. Un gran vecchio, secco e diritto nonostante i suoi ottantanove anni, con un naso sottile e ricurvo come la lama di uno yatagan, con due lunghi baffi bianchi e pendenti, e due occhi color nocciola. Ah, sì, che racconta delle belle storie! Conosce tutte le guerre di Napoleone, tutte le sue battaglie e tutti i suoi generali, e molte altre cose ancora che non saranno mai scritte nei libri, perché ci vorrebbe troppo posto per scrivere tutto; o forse, anche, perché farebbero troppo paura alle signore. Mia madre si è spaventata più volte, udendo i racconti del colonnello; una volta è svenuta. Cosicché Gabarrot viene invitato molto di rado, adesso.
— Le sue abitudini sono talmente fuori del comune! dice mia madre. Potrebbe rinunciarvi quando cena in casa d'altri.
Ma il colonnello non vuol rinunciare a nulla; ha il suo modo di mangiare, e mangia a modo suo, in casa e fuori; che lo si inviti o no, per lui è lo stesso; ma che non ci si aspetti mai di vederlo usare un piatto, un bicchiere, una forchetta. Il suo pasto gli va portato in una scodella di terra grezza: una zuppa di verdura in cui galleggia un pezzo di bollito; prima mangia la zuppa con un cucchiaio di stagno, poi la carne con un coltello. Vuotata la scodella, ci versa dentro una bottiglia di vino, che manda giù in due o tre sorsate. L'estrema semplicità del sistema dispiace molto a mia madre; non a me. Faccio in modo da farmi tenere a pranzo o a cena, tutte le volte che mi portano a trovare il colonnello, o che il colonnello viene a prendermi per una passeggiata. Ho la mia scodella, una scodellaccia di terra bruna, così bellina (proibito parlarne a casa), e quando ho finito la zuppa, Gabarrot ci versa dentro un bicchiere di vino, decisamente sufficiente per i miei sette anni. Avrò diritto alla bottiglia solo più tardi.
— Fra tredici o quattordici anni, dice il colonnello, quando porterai la prima spallina, maledetto furbacchione, e io non ci sarò più, furbacchione d'un furbacchione!
Purtroppo no, non ci sarà più.
— Quel povero vecchio declina rapidamente, diceva mio padre, l'altra sera.
Il fatto è che Gabarrot sembra indebolirsi di giorno in giorno; il corpo intozzisce, s'incurva; le gambe irrigidite non assecondano più il colpo di tacco, secco, autoritario. Il vigore del colonnello era ben diverso, l'anno passato, quando mi ha condotto a portare una corona alla Colonna, il 5 maggio; era dritto come una i, nella sua lunga redingote; lo salutavano per il nastrino all'occhiello, metà rosso e metà verde, Legion d'Onore e medaglia di Sant'Elena; e come la sua mano stringeva la mia! Come tonava la sua voce, alla sfilata degli Ex-Combattenti nelle loro uniformi di Austerlitz.
— Viva la Francia! Viva l'Imperatore!
Sembrava ugualmente forte, indistruttibile, il giorno della grande parata di Longchamp, alla quale assistettero i regnanti stranieri; e al tempo delle nostre numerose visite all'Esposizione in cui, mai stanco, mi dava tutte le spiegazioni che gli chiedessi, e anche di più. Ma è soprattutto verso la fine dell'ultimo inverno, due o tre giorni prima di Natale, che mi apparve come un essere dotato di potenza ed energia sovrumane, fatto per durare in eterno. Eravamo nel nostro salotto, dopo cena; qualcuno si mise a parlare di un discorso pronunciato alla Camera, nel pomeriggio, da Jules Simon. Il colonnello Gabarrot, poco al corrente delle faccende politiche, chiese informazioni. Gli fu letta la parte di un giornale che riportava il discorso. Allora si alzò.
— È in una cella di Mont-Valérien o in una segreta di Vincennes che hanno messo il suddetto Jules Simon? domandò con un tono di voce che fece sobbalzare mio padre nel pieno di una conversazione con la Signora de Lahaye-Marmenteau, e il generale De Rahoul indaffaratissimo intorno a mia madre.
Mio padre, ridendo, rispose che nelle segrete di Vincennes si rinchiudevano ormai solo i ragni e che i procedimenti cui il colonnello alludeva non erano molto compatibili con la clemenza dell'Imperatore.
— L'Imperatore ha torto ad essere clemente, riprese Gabarrot con voce vibrante. Ha torto. Se mi permetto di giudicare Sua Maestà, non è alla leggera, mi creda. Ma sono convinto, profondamente convinto, che sia un gran male per la Francia che opinioni come quelle citate or ora possano essere esposte dalla tribuna. Come! Arriva un tizio e osa dichiarare che abbiamo bisogno di un esercito che non sia a nessun grado un esercito di soldati, che non sia imbevuto, ad alcun prezzo, di spirito militare, che non sia in condizione di portare la guerra all'esterno, in una parola un esercito che non sia un esercito! che reclama senza indugio l'abolizione dell'esercito permanente! E lo si lascia dire!... Ma è come permettere a questo mariuolo di imbavagliare la Francia, di legarla mani e piedi e offrirla alla mannaia dello straniero. Veda! ci sono cose che non andrebbero dimenticate: innanzitutto, che per una nazione non c'è niente di più pericoloso delle utopie sentimentali, delle insulsaggini umanitarie; è libero solo chi è rispettato, ed è rispettato soltanto chi è forte. Inoltre, che c'è sempre, anche nel popolo più coraggioso, un gran fondo di vigliaccheria; non lo si deve tollerare; altrimenti, non si sa dove si andrà a finire. Quando non si mette il berretto verde a un furfante che merita d'essere spedito in galera, è molto probabile che la pubblica rilassatezza, dopo un cataclisma, lo chiami per farne un ministro. La Francia non è invincibile, dopo tutto, e non è bene che sia vinta; perché... L'ho vista dopo Waterloo. Da più in alto si cade, più ci si appiattisce. Non mi fa piacere dirlo, ma è la verità. Sopprimendo il suono dell'acciaio negli accampamenti, si sente troppo il suono dell'oro nei retrobottega — in tutti i retrobottega. Per non perdere il sentimento della propria dignità, un uomo deve saper maneggiare una spada; una nazione deve avere un esercito e usarlo. L'umanità! un pretesto per tutti i cedimenti che si preparano. Anche noi della vecchia guardia abbiamo lavorato per l'umanità, con le nostre sciabole; non ne facevamo parola; ma gli Inglesi capivano cosa voleva dire quando gridavamo: «Viva l'Imperatore!». Del resto, è per me inammissibile l'opposizione che ci si compiace di stabilire fra la penna e la spada; sono il complemento l'una dell'altra. Il pensatore va a inchiodare l'infamia della sua epoca, come un gufo, sulle porte del Futuro; ma non si aprono, queste porte; e bisogna che venga il soldato, e le sfondi a colpi di cannone!
 
Mi ricordavo di quella sera, l'altro ieri, mentre mi stupivo della lentezza con cui Gabarrot saliva rue du Bac, dove abita, e dove abitano anche i miei genitori, per condurmi alle Tuileries. Non mi ha sgridato come al solito, quando mi sono fermato, prima all'angolo di Pont-Royal per ammirare la Fregata, poi sull'altra banchina, per guardare se arrivassero dei soldati dalla parte della piazza della Concorde. Ma è di mattina che i soldati passano, verso le dieci, per dare il cambio alla guardia del castello; che arrivano, con i guastatori, così terribili, in testa, l'enorme ascia scintillante sulla spalla, nel guscio dei loro grembiuli di cuoio bianco, i berretti pelosi come orsi, alti come torri e fioriti di piume scarlatte; allora, il bastone meraviglioso del tamburo maggiore si slancia verso il cielo, strana freccia d'oro, volteggia, sembra planare, ricade nella mano del colosso che segue i guastatori e la cui testa impennacchiata domina i loro berretti di pelo; allora, il bastone descrive mulinelli epici, il suo gran pomo scintilla come un globo di fuoco; vibra, freme, par vivo; e allora, schizza di nuovo, glorioso, così in alto stavolta che non ci si aspetta di vederlo più ricadere. Il gigante si volta verso i suoi tamburini, le cui dita si stringono sulle bacchette, dà l'ordine, fa dietrofront e, proprio in tempo, la sua mano si chiude sul bastone che cade e la cui punta splendente, invece di toccar terra, si mette a volteggiare come una farfalla. I tamburini battono sulle casse che risuonano da far tremare, gli squilli di tromba fendono l'aria, e il battaglione passa nello splendore delle uniformi e dell'armi, come in mezzo a un polverone di gloria. L'altro ieri, era ormai troppo tardi per vedere queste cose; le tre del pomeriggio almeno. Gabarrot è venuto che avevamo pranzato da un pezzo; era un po' sofferente; un raffreddore che si è beccato il I gennaio, a sentir lui, perché ha messo un soprabito, e da cui non ha potuto ancora guarire anche se siamo ormai agli ultimi di aprile. Tossiva; e nonostante si fosse raddrizzato per passare davanti al piantone che gli presentava le armi (uno dei volteggiatori del reggimento di mio padre), si sarebbe detto che la sua alta figura si curvasse sempre di più sotto il peso di una mano invisibile. S'è messo a chiacchierare con il guardiano capo del giardino, un vecchio ufficiale del corpo africano amico suo; io spingevo avanti il mio cerchio; e quando mi capitava di passare accanto ai due vecchi guerrieri, li udivo parlare del passo di Mouzaïa, o affermare che Abdel Kader era una vecchia volpe. Quando mi sono stancato di correre, mi sono messo a guardare la terrazza sul fiume, dove hanno sistemato una ferrovia per il principino, una graziosa piccola ferrovia, sulla quale avrei proprio voluto fare un altro giro; avevo avuto questa fortuna non molto tempo prima, un giorno in cui mio padre era di servizio al castello e il principe guidava da solo la locomotiva. Ah! Che gioia! E ho guardato tristemente il palazzo dove il piccolo principe era al lavoro, di sicuro, forse in quel padiglione centrale sul cui tetto vedevo sventolare la bandiera tricolore. 
Il colonnello, che aveva lasciato il suo amico, è venuto a raggiungermi e mi ha chiesto se mi ricordavo della partenza della corte per Saint-Cloud, a cui avevo assistito con lui l'estate precedente. Figurarsi se non la ricordavo! Gli staffieri dorati, i cavalli briosi coi finimenti argentini, i calessi con l'attacco alla Daumont e simili a barche di lacca, l'Imperatore che salutava sorridendo, e l'Imperatrice, più bella di una fata, le eleganti signore e i generali coi pennacchi, la seta degli abiti e l'oro delle uniformi, i pizzi, la Guardia Imperiale, le piume e i diamanti, i riflessi degli ombrellini e il lampo delle lame di sciabola! Oh! Figurarsi se non la ricordavo! Come se si potesse dimenticare una cosa così, come se quella prestigiosa sfilata, quando la si è vista con occhi di bambino, non dovesse restare per sempre nella memoria, per offuscare e ridicolizzare, col solo potere della sua evocazione, le caotiche parate dei saltimbanchi liberaloidi! E ho confessato a Gabarrot di aver pensato, spesso, che forse mi sarebbe stato concesso un giorno di figurare in buona posizione in un corteo simile.
— Non è affatto impossibile, rispose; puoi diventare generale, ministro, tutto quello che vuoi. Si tratta solamente di fare il tuo dovere, e tutto il tuo dovere.
Ho chiesto cosa fosse, esattamente, fare il proprio dovere. Il colonnello ha riflettuto un istante e ha risposto:
— È servire l'Imperatore come si deve.
Ma, poco dopo, si è corretto:
— No. È amare la Francia come si deve, sempre; anche quando non c'è più un Imperatore. Solo che, in questo caso, ci sono delle volte in cui è maledettamente difficile! Il sole si abbassava; sotto le giovani fronde dei vecchi alberi faceva quasi freddo. Siamo andati a sederci, un attimo, vicino al muro dell'altra terrazza, in quell'angolo riparato che chiamano «la piccola Provenza». Ho chiesto al colonnello di raccontarmi una storia, e me ne ha raccontata una, splendida; la più bella, credo, che mi abbia mai detto. Era una storia di Russi. L'Imperatore Napoleone I aveva battuto i Russi e spingeva il loro esercito verso un fiume (non so più quale fiume fosse, ma non fa nulla). Aveva dato ordine al reggimento dei dragoni del colonnello Gabarrot di passare il fiume a guado, a monte, e di andare ad attendere il nemico sull'altra riva.
— Arrivammo, dice il colonnello, proprio nel momento in cui i primi di questi furfanti gettatisi a nuoto per sfuggire ai proiettili francesi cominciavano a uscire dall'acqua; li ammazzammo senza misericordia. Dopo di che, smontati di sella, scendemmo alla proda per aspettare gli altri che arrivavano in gran numero, portati dalle acque del fiume. E quando toccavano la sponda e cercavano di afferrare, per issarsi sul terreno solido, ciuffi d'erba e rami di arbusti, noi, con grandi colpi di sciabola, tagliavamo le mani!
Dall'altro ieri non ho più smesso di vedere ciò che mi ha impressionato, come alla luce di un lampo, del racconto del colonnello: le lame dei dragoni che si abbattono sui polsi e li recidono; gli occhi stralunati dei nuotatori, bianchi in faccia, la cui bocca aperta in un supremo grido non è altro che un buco nero; i corpi, le teste che spariscono sotto le onde, sulle quali, un istante, si agitano dei moncherini scarlatti; le acque del fiume, nel freddo pallore del crepuscolo, arrossate come dai raggi di un sole invisibile; e giacenti sulla proda, chiuse, aperte, oppure aggrappate ai rami, artigliate nell'erba, disperate e smorte, con frange di carni sminuzzate e grumi di sangue, delle mani, delle mani...
Ah! era una gran bella storia, di sicuro! E ho obbligato Gabarrot a ripetermela tre volte.
 
E oggi, mi informano che il colonnello sta per morire. Con mio padre e mia madre vado a fargli l'ultima visita. È seduto davanti al fuoco nella sua grande poltrona, con una coperta sulle ginocchia; non ha voluto coricarsi, dicendo che non è malato a tal punto. Lo guardo attentamente per vedere che faccia hanno gli uomini che stanno per morire. La loro faccia non ha nulla di straordinario; è pallida e stanca, semplicemente. Sembra anche che abbiano grandi difficoltà nel parlare. Nonostante le esortazioni di mia madre, prego Gabarrot di ripetermi ancora una volta il racconto dell'altro ieri. Comincia, con una voce impastata e fessa; ma un accesso di tosse lo interrompe quasi subito. Mia madre gli si affanna intorno, e mio padre mi prende la mano, per condurmi fuori dalla stanza. Ma, arrivati alla soglia, sento la voce del colonnello, bassissima, ma imperiosa, che mi chiama indietro. — Jean!
Mi giro. È seduto, col busto retto, gli occhi spalancati e brillanti, il braccio destro alzato come per un tremendo tendente; e in cima a quel braccio mi par di vedere una lama che cala, segando, su un polso teso.
— Jean!... Noi... tagliavamo... le... mani... 
Il colonnello si accascia nella poltrona, e la testa si rovescia sullo schienale.
 
[L'Épaulette, 1905]