Contropelo

Arruffapopoli

 

«Non sono mai riuscito a inchinarmi davanti a un Capo scuola o a un partito, fare numero tra la maggioranza, mentire nei giornali, frustare la lasciva Collera, accarezzare l'Intrigo dalla viscida pelle, rendere omaggio alla Parzialità guercia. Disprezzo questi intirizziti ambiziosi che tendono ambo le mani all'operaio, si pettinano, si vestono come lui e si credono obbligati a parlare il linguaggio scurrile dei mercati. Ci si ricordi, prima di tutto, che il popolo non ama i sorrisi forzati, che non li chiede, mentre al contrario si insiste nell'offrirglieli. Ancora una volta, non vi sono commedianti sinistri e cortigiani più vili, di quelli che lisciano il pelo alle masse».
Ernest Cœurderoy
 
 
Uno degli effetti collaterali più desolanti della "svolta" intrapresa da una parte del movimento anarchico negli ultimi anni — l'abbandono dell'alterità assoluta nei confronti dell'esistente in favore di un più pragmatico e realista possibilismo — è stato su altri versanti lo speculare diffondersi di una sorta di allergia per qualsivoglia lotta sociale. In molti casi è sufficiente nominare lo stesso concetto di lotta sociale per indisporre ed irritare non pochi compagni, i quali ormai la identificano con una sorta di cittadinismo d'accatto, con una ricerca di consenso popolare vieppiù disponibile al compromesso. Come se l'intervento in una lotta sociale si potesse concepire solo celando il proprio pensiero ribelle per ostentarne uno compiacente e riformista, come se la ricerca di complici in un simile contesto si concretizzasse necessariamente nella più imbarazzante questua di alleanze.
Questo equivoco non si è venuto purtroppo a creare in maniera casuale, bensì è il risultato diretto del dilagare di una vera e propria ossessione — quella di conquistare le "masse", masse prive di desideri singolari e sensibili solo a bisogni collettivi. Una volta accantonata la questione di come diffondere le proprie idee e i propri metodi — ritenuti troppo esclusivi ed elitari — preferendo concentrarsi sulla necessità di attrarre il maggior numero di simpatie, la "soluzione" non può che essere una: la rinuncia alla tensione utopica, l'abbandono di ogni idea esagerata di libertà.
Il realismo ha fatto così irruzione nel movimento, sostituendo l'eccesso con la misura. Dalle pugnalate alla politica si è passati alle lusinghe e i falsi critici dell'esistente non vengono più visti come nemici con cui venire ai ferri corti, ma interlocutori con cui confrontarsi e all'occorrenza instaurare una proficua relazione. Tanto per dare un esempio di questa parabola, se anni fa si è iniziato a criticare il Tav perché non è in grado come promesso di far aumentare la circolazione delle merci, oggi si è arrivati ad opporsi al Muos reclamando la revoca delle autorizzazioni e appellandosi al rispetto delle norme del Parlamento europeo... 
Qual è l'inevitabile risultato di queste acrobazie strategiche? Che a furia di veder sbandierate le "lotte sociali" per giustificare l'opportunismo politico, a furia di vedere l'anarchismo (nella teoria come nella pratica) messo al bando più dai compagni stessi che dalla magistratura, si è radicata in molti anarchici la convinzione che sia necessario stare alla larga da tali lotte, che sia meglio snobbarle o condannarle senza esitazione. Si tratta di un preconcetto che, a sua volta, ha avuto un proprio ruolo nel favorire lo sviluppo di un nichilismo cupo, identitario, chiuso in se stesso. Da una parte, il rinnegamento di se stessi al fine di poter stare in mezzo a tutti; dall'altra, il rifiuto a priori degli altri pur di non perdere se stessi. O l'allegra politica della comunella o la passione triste dell'autoisolamento? Si tratta di una alternativa secca che rifiutiamo, a cui non intendiamo sottostare e che reputiamo sia urgente spezzare.
No, in sé la lotta sociale non è una Circe in grado di ammaliare i compagni, di trasformarli in animali politici per poi rinchiuderli nelle stalle del cittadinismo. Se ciò è accaduto, non è affatto dovuto alla perversità intrinseca della lotta sociale e delle sue dinamiche, ma piuttosto alle scelte operative di singoli compagni e delle quali essi stessi sono gli unici responsabili. Una lotta sociale non è che un conflitto la cui natura, il cui contenuto, la cui posta in gioco per così dire, riguarda tutti indistintamente. Non è una lotta politica il cui unico sbocco finale si trova all'interno del contesto istituzionale. Non è un conflitto privato le cui ragioni e necessità sono comprensibili solo a pochi. La lotta contro una grande opera, una base militare, un inceneritore... è sociale proprio perché prende di mira un progetto la cui nocività minaccia chiunque. Una lotta sociale è tale perché è suscettibile ad allargarsi, a generalizzarsi. Null'altro. Non vi sono quindi motivi per avversarla o liquidarla. Semmai ve ne sono per interessarsene.
Esistono diverse maniere per prendere parte ad una lotta sociale. È una distorsione ottica e ideologica pensare che la compartecipazione quantitativa sia caratteristica fondamentale e distintiva delle lotte sociali. Non è così. Tante persone che manifestano per l'abolizione dell'ergastolo, ad esempio, per quanto numerose siano, stanno conducendo una campagna prettamente politica. Il loro dato numerico non rende affatto sociale la natura della loro protesta, il cui oggetto riguarda per forza di cose pochissime persone e il cui esito non può che essere di natura legale. Viceversa, quando anche pochi individui attaccano i cantieri dell'Alta Velocità, sempre a titolo di esempio, stanno conducendo a modo loro una lotta sociale. Non ha importanza in quanti siano, stanno sollevando una questione che tocca chiunque e con la loro azione suggeriscono a tutti una possibilità di intervento, oltre ad incidere direttamente sul corso degli eventi. Rimanendo nell'esempio, chi sostiene che le odierne lotte di massa in Val Susa non hanno avuto origine anche dai sabotaggi individuali di una quindicina di anni fa mente sapendo di mentire.
Va da sé che una trasformazione radicale non può essere opera di pochi sovversivi. Nessun colpo di Stato o di contro-Stato potrà mai liquidare l'autorità. Nessuna azione, per quanto calibrata e audace, potrà riuscire da sola a sovvertire l'esistente (per altro, non più di quanto potrebbe riuscirvi una assemblea permanente). La tempesta rivoluzionaria ha bisogno di tutto, delle pratiche come delle idee, degli atti individuali come dei movimenti sociali, e dentro il suo vortice ognuno è libero di seguire le proprie attitudini e inclinazioni. Ciò detto, dovrebbe essere ovvio che qualsiasi fiammifero acceso è in cerca della polveriera.
Il rifiuto degli altri può essere una caratteristica individuale — a nostro avviso comprensibile e rispettabile — ma non può certo venir teorizzato, proposto o assunto come tratto progettuale. L'insurrezione non è e non è mai stata la somma degli attacchi realizzati dai soli compagni. L'insurrezione è un fatto sociale la cui enormità pone senza dubbio la questione della ricerca di possibili complici. Una ricerca che può essere intrapresa però con modalità assai differenti.
Indubbiamente una delle strade è quella che porta a battere le vie del consenso politico. Moderare le proprie aspirazioni, mimetizzarsi nell'ambiente, rinunciare alla dismisura pur di farsi accettare. Adeguarsi per essere all'altezza della situazione. Smettere di vestirsi di nero (che spaventa la gente), smettere di bestemmiare (che offende la gente), smettere di dichiarare obiettivi radicali (che allontana la gente)... Fino a smettere di essere anarchici, che la gente non la capisce e non la vuole l'anarchia. Sostenere un anarchismo occasionale, circostanziale, situazionale, da rivendicare con orgoglio il giovedì (quando si è soltanto coi compagni) per dissimulare con scaltrezza il sabato (quando si è soprattutto con operai, disoccupati e massaie). Tentare in ogni modo di carpire la fiducia della gente, entrando in competizione coi vari racket autoritari per il controllo del "movimento sociale" di turno... finendo per diventare politicanti alla stregua di tanti altri.
È quanto stanno facendo oggi coloro i quali, nel maldestro tentativo di giustificare l'ingiustificabile, riescono addirittura a richiamarsi ad esperienze del passato che nulla hanno a che spartire con il loro presente. Come chi equipara la lotta antimilitarista anarchica intrapresa a Comiso trent'anni fa con l'odierno assistenzialismo cattocomunista. Là, una struttura mortale del dominio da attaccare, cercando di coinvolgere quanti più sfruttati possibile attraverso una metodologia anarchica. Qui, un bisogno elementare da soddisfare per raccattare consenso e autorevolezza, arrivando a teorizzare apertamente l'abbandono della «orizzontalità decisionale» pur di raggiungere questo scopo. Ma tutto questo confusionismo interessato non è affatto l'inevitabile risultato del tentativo di coinvolgere altri nelle proprie cospirazioni. Non c'è motivo di scegliere fra la noia del soliloquio e la banalità della propaganda.
Certamente una lotta specifica avanza rivendicazioni parziali. Se si dovesse attendere che gli sfruttati comincino a richiamarsi all'anarchia prima di degnarli della nostra attenzione, la solitudine sarebbe la nostra condizione perpetua. Ma battersi a partire da una rivendicazione parziale non significa in sé accettare di diventare amplificatori del più insulso riformismo. Si può anche partire da rivendicazioni parziali per mettere in discussione la totalità dell'esistenza. Si può cercare di diffondere l'ostilità nei confronti di questo mondo, anziché accattivarsi simpatie ripetendo assennati rimproveri. È ovvio che a chi vuole solo difendersi da una nocività non interessa sentir parlare di insurrezione e anarchia, ma forse che per questo si deve esortare alla repubblica o alla democrazia?
Ovviamente no. Qualsiasi lotta contro un progetto dello Stato può benissimo fare a meno di riprendere le ragioni e gli slogan di chi pensa che un altro Stato è possibile. Il fatto che queste ragioni e questi slogan siano più comprensibili, più "sentiti", non significa che siano gli unici che si possano sostenere. Anzi, per quanto ci riguarda vanno evitati con determinazione, se non si vuole dare il proprio contributo alla riproduzione sociale. Si tratta di fare una scelta: meglio privilegiare l'aspetto quantitativo o quello qualitativo? Nel primo caso ci si rivolgerà agli altri dando ampio spazio alle ragioni tecniche che giustificano l'opposizione contro una nocività, accompagnandole magari da tutta quella retorica a metà strada fra il cittadinismo (mancanza di controlli e autorizzazioni, sperpero di denaro pubblico...) ed il sentimentalismo (...il futuro dei nostri figli). Le ragioni altre, quelle più indigeste ai luoghi comuni, vengono accantonate, sfumate, taciute, fino ad essere del tutto dimenticate. Nel secondo caso, avviene tutt'altro. Le ragioni tecniche vanno sì ricordate, ma solo come corollario. Non ha senso battersi contro la società tecnologica usando le sue stesse armi, così facendo si riduce il proprio discorso ad una disputa fra specialisti, ad una competizione tecnica fra esperti. Che un progetto dello Stato o del capitale funzioni o meno, non è certo su questo che possiamo fondare la nostra azione. Molto meglio cercare di dimostrare come quel progetto specifico, in tutta la sua letalità, non sia affatto una contraddizione, un'aberrazione, un errore della società in cui viviamo, ma semplicemente una sua inevitabile conseguenza. Ciò significa, pur con tutti i limiti imposti dalla parzialità della situazione, portare comunque avanti la propria critica. Partire sì da un dettaglio parziale, ma per mettere in discussione la totalità dell'esistente. Non adeguarsi alla situazione per potervi partecipare, ma cercare di eccederla per farla precipitare. Un intervento autonomo quindi non è affatto un intervento che rifiuta a priori il contatto con gli altri, come vorrebbe l'idiota vulgata attivista, è piuttosto un intervento che non fa dell'aspetto quantitativo il proprio punto di riferimento. Un intervento che lascia la porta aperta, talvolta pure spalancata, ma che non per questo apre bottega o è disponibile a stringere la mano a chiunque. Raggiungere gli altri per riverbero più che per contagio, e agire solo con chi non ha mire politiche. Sabotare le manovre degli aspiranti leader, non coadiuvarle col nobile intento di correggerle. Marcare la differenza nei confronti di tutti i politici, altro che rivendicarne la comunanza. 
È chiaro che solo la via politica può garantire un certo «riscontro» numerico immediato, ovvero la certezza di non rimanere soli, oltre ad un lusinghiero prestigio personale. L'altra ipotesi — quella che non sa cosa sia il calcolo strategico — costituisce una incognita, dai risultati spesso tristemente prevedibili. Ma è inutile girarci attorno: se ci avviciniamo agli altri è per scoprire complici, non per fare o reclutare manovalanza.
Checché se ne dica, anche questa è lotta sociale.
 
[20/2/13]