Intempestivi

Ricordare, demolendo...

Anche quest’anno, come ogni anno ormai da quando è stata istituita nel 2000, la “Giornata della memoria” ha mobilitato milioni di coscienze, disposte a commuoversi per legge in un giorno ben preciso dell’anno. Ma oltre alle coscienze, questa giornata mobilita anche fisicamente alcune migliaia di persone, soprattutto giovani, che in treno ripercorrono il lungo e doloroso viaggio affrontato dai deportati fino alla loro destinazione ultima: i campi di sterminio.
Non c’è dubbio che compiere un viaggio del genere, immaginando i giorni impiegati dai treni dei deportati per percorrere quel tragitto, e poi visitare Auschwitz, possa essere una esperienza incredibilmente intensa. Calcare il terreno innevato in cui morivano in milioni e vedersi circondati dal filo spinato; osservare i forni in cui migliaia di esseri umani erano cremati ogni giorno, dopo essere stati denudati e gasati, procura senza dubbio un brivido, capace di toccare nel profondo il sentimento di compassione e alimentare la rabbia nei confronti di quella che, ormai, comunemente è sentita come una “ingiustizia”, sebbene all’epoca dei fatti era assolutamente “giusta”, se per ciò intendiamo quanto è compiuto in termini di legge. Ma la domanda che mi pongo da qualche anno ormai è un’altra: ha un senso tutto ciò?
È giusto che luoghi simbolo del più grande abominio della Storia debbano essere visitati ed “ammirati”, con tanto di guide turistiche, come si è soliti fare con le grandi opere d’arte, o non sarebbe forse più giusto distruggerli questi luoghi, affinché di essi non permanga neanche il ricordo delle infamie che ha rappresentato e che lo hanno accompagnato? Sradicare il ricordo dell’orrore non significa annientarne la memoria, come sono pronti ad urlare coloro che condannano gli orrori del passato perpetrando quelli del presente, come sono abituate a fare le istituzioni. La pubblicistica sui lager è talmente ricca da fornire dettagli che neanche il visitatore odierno più attento può cogliere, e lo stesso discorso vale per gli stati d’animo, le analisi e le sofferenze che trasudano da migliaia e migliaia di pagine scritte dai sopravvissuti, e non solo, che hanno vivisezionato il fenomeno lager fino negli aspetti più reconditi. Resta l’indicibile, certo, che non può essere narrato ma neanche rievocato al di fuori del suo preciso contesto storico.
Abbattere questi luoghi, rimuovendoli dalla Storia, sarebbe forse l’atto più generoso che si potrebbe compiere per vendicare la violenza commessa sull’umanità che li ha vissuti. Può sembrare un discorso controverso, ma forse, attualizzato, può essere meglio compreso.
Cosa ne faremo dei CIE, che – a ragione – definiamo lager moderni, il giorno in cui dovessimo riuscire a chiuderli? Vorremo conservarne le strutture a imperitura memoria, o affrettarci a demolirle per cancellarne il ricordo? Vorremo forse organizzare pullman di turisti che vengano a visitare l’ex CPT “Regina Pacis” di San Foca (LE), spiegando loro quali erano le stanze in cui il direttore, don Cesare Lodeserto, pestava gli immigrati assieme ai carabinieri, o sarebbe forse più utile affrettarsi a rendere inagibile quella struttura, per evitare che possa tornare a svolgere la stessa funzione che ha avuto in passato, come è accaduto per il centro di Otranto? E le carceri, qualora i sogni selvaggi di chi scrive dovessero tramutarsi in realtà, le conserveremo per farne luoghi di “cultura” ed appartamenti, come accaduto con il vecchio carcere delle Murate a Firenze, o seguiremo l’esempio dei rivoluzionari che hanno reso meravigliosamente affascinante la Bastiglia, così come alcune carceri spagnole nel corso della Rivoluzione del 1936?
A pensarci bene, allora, forse il modo migliore perché gli orrori della Storia non si ripresentino mai più, è quello di cancellarli una volta per sempre, ma c’è un solo modo per farlo davvero: cancellare, con essi, la società che li ha generati.

 

[Tairsìa, foglio @periodico di critica sociale, n°2, febbraio 2012]