Brulotti

Barricate e Decreti

Spagna 36-37 la Rivoluzione infranta

 
Per quanto sia considerata l’ultima grande rivoluzione della storia europea, la rivoluzione anarchica per eccellenza, non esiste un libro in Italia che narri in maniera approfondita ed organica quanto accadde in Spagna nel biennio 1936-37 da un punto di vista antiautoritario. Né ci risulta sia stato pubblicato all’estero. Ovviamente esistono una infinità di volumi su quest’argomento, ma tutti miranti ad affrontare qualche aspetto particolare di quel periodo. È possibile cogliere la dimensione anarchica di quella rivoluzione solo raccogliendo e sovrapponendo svariati elementi che la compongono. 
Attraverso la biografia del più noto militante, o le vicende della sua organizzazione sindacale, o la cronaca della colonna più famigerata... Ma la storia della rivoluzione spagnola nel suo complesso non ha conosciuto né un Volin che ne tramandasse la testimonianza, com’è avvenuto per quella russa, né un Kropotkin che ne ricostruisse lo svolgimento, come per quella francese. I grandi libri specifici su questo argomento, i titoli di riferimento per così dire, rimangono altri: ad esempio, quelli di Hugh Thomas, di Gabriel Jackson e della coppia Pierre Broué-Émile Témime, per non parlare dell’ormai raro studio di Burnett Bolloten. Significativamente il testo più diffuso che riporta la versione anarchica degli avvenimenti è stato per molti anni La breve estate dell’anarchia, antologia di frammenti raccolti da H. M. Enzensberger, edito in Italia dalla sinistra Feltrinelli.
 
Non è strano? Come mai fra gli anarchici, noti per un impegno editoriale che non ha paragoni all’interno del movimento rivoluzionario, si manifesta tale difficoltà nel rievocare ed approfondire il momento storico in cui si avvicinarono maggiormente alla realizzazione della loro utopia? Forse perché, come sostenuto da qualche storico, la rivoluzione spagnola ha decretato la morte dell’anarchismo? Dopo quell’esperienza, infatti, quale valore e credibilità accordare ad un movimento rivoluzionario che, nel momento decisivo, si fa fagocitare dalle istituzioni e accantona i propri principi di fondo?
Per gli anarchici Spagna 36 è sinonimo di grande entusiasmo, ma pure di notevole imbarazzo. Il primo li sprona ad immortalare i momenti più significativi di quella rivoluzione, a riportarne i tratti gloriosi. Il secondo, invece, li porta ad evitare il più possibile una ricostruzione e valutazione complessiva degli eventi. Come se davanti ad una guerra persa, e persa così amaramente, si preferisca ricordare solo le singole battaglie vinte. Nel corso del tempo questo imbarazzo è stato affrontato raramente. Chi volesse passare dalla versione edificante dei fatti accaduti alla loro interpretazione critica, sarebbe costretto a limitarsi — perlomeno qui in Italia — a quanto affermato a posteriori da un paio di voci discordanti. La prima è quella dell’italiano Vero Recchioni, alias Vernon Richards, i cui Insegnamenti della rivoluzione spagnola da decenni sono reperibili solo negli archivi e in qualche biblioteca. La seconda è quella di Carlos Semprun Maura, il cui libro Rivoluzione e controrivoluzione in Catalogna è stato ristampato nel 1996 dalla Eleuthera. 
Richards pubblicò nel 1953 le sue critiche al comportamento degli anarchici in Spagna, Semprun Maura nel 1975. Nessuno dei due aveva partecipato direttamente a quella rivoluzione, ma entrambi ne parlavano con cognizione di causa. Richards era stato infatti un giovane collaboratore di Camillo Berneri, nonché compagno di Maria Luisa Berneri, figlia dell’anarchico trucidato dagli stalinisti nelle giornate del maggio 37 a Barcellona, e dall’Inghilterra aveva seguito con attenzione gli accadimenti del territorio iberico dando il proprio contributo solidale. Mentre Semprun Maura, benché avesse solo dieci anni nel luglio del 1936, era figlio di un ambasciatore della Repubblica spagnola (nonché nipote di un ex ministro monarchico!). 
Quanto agli anarchici spagnoli che viceversa vissero appieno quella rivoluzione, come Diego Camacho (Abel Paz), mostrarono non di rado una forte insofferenza nei confronti delle critiche. Come se il loro passato glorioso ed eroico meritasse solo rispetto ed ammirazione. Come se, data per assodata la buona fede di tutti i compagni che allora si batterono a morte contro il fascismo, non fosse possibile in alcun modo mettere in discussione il loro operato. Come se l’azione portata avanti dagli anarchici in quel contesto eccezionale fosse un tabù.
Un tabù reso in fondo tanto più necessario dall’impossibilità pratica di pervenire ad una memoria condivisa fra gli stessi anarchici che furono protagonisti di quegli avvenimenti. Ciò spiegherebbe la difficoltà da parte anarchica di formulare una ricostruzione a posteriori di quegli eventi. Se ciò è possibile per giornalisti o storici di professione — liberali, stalinisti o trotzkisti che siano —, per gli anarchici è un’altra questione. In quei fatti lontani non esiste infatti una parte anarchica, ma più parti, spesso rispettivamente contraddittorie e ostili. Chi volesse gettarsi a capofitto in quella storia, si ritroverebbe immerso fino al collo in un fiume di sangue e di fango. Sangue e fango anarchico, versato e lanciato da anarchici. A titolo di esempio, come “conciliare” i ricordi di un Juan Garcia Oliver con quelli di un Jaime Balius?
Ora, la domanda che ci è balenata sovente è la seguente: ma se questa allergia nei confronti della critica, questa propensione a non voler mettere in discussione quanto accadde, persiste ancora oggi... cosa avvenne all’epoca? È mai possibile che una rivoluzione “anarchica” che vide il totale rinnegamento dei fondamenti dell’anarchismo non abbia suscitato pareri discordanti? Di fronte ad anarchici trasformatisi in ministri ci deve ben essere stato qualcuno che abbia alzato la voce. Certo, questo dibattito avrebbe anche potuto essere soffocato o marginalizzato all’interno del movimento spagnolo, dove il pragmatismo del tatticismo organizzativo notoriamente predominava su ogni attenzione alla coerenza. Ma cosa ne dicevano gli altri anarchici? Quelli che, pur disponibili a recarsi in Spagna per impugnare le armi contro lo Stato ed il fascismo, non potevano non accorgersi dell’involuzione della situazione?
 
Spinti dalla curiosità, abbiamo quindi consultato le annate del giornale anarchico italiano considerato il portavoce nel mondo dell’anarchismo autonomo, «anti-organizzatore», intransigente: L’Adunata dei Refrattari. Giornale settimanale dalla fama sulfurea, reputato ostile in partenza ad ogni ipotesi organizzatrice strutturata, nemico dichiarato di ogni politica e del compromesso. Quali pagine migliori dove cercare quel dibattito a cui gli storici libertari hanno più volte accennato nelle loro opere, pur senza mai riportarlo per esteso? 
L’Adunata dei Refrattari non ci ha delusi. Vi abbiamo trovato quel che ci aspettavamo, ovvero un forte sostegno alla rivoluzione in corso dall’altra parte dell’oceano accompagnato però da una critica puntuale. Non una polemica feroce, sia chiaro, bensì una critica pacata, ponderata, senza toni bruschi. Ma anche senza tentennamenti. 
Leggendo gli articoli, molti dei quali scaturiti sicuramente dalla penna di Max Sartin, si intuisce nei redattori del settimanale italo-americano una duplice preoccupazione. Da un lato l’urgenza di incoraggiare chi stava combattendo contro il potere mettendo a repentaglio la propria vita, dall’altro la necessità di difendere l’anarchismo da una deriva che non poteva che condurre alla sconfitta sia il movimento anarchico in particolare, sia la rivoluzione in generale. Ecco quindi quelli dell’Adunata rendere omaggio al coraggio indomito degli anarchici spagnoli, ma al tempo stesso deprecarne l’opportunismo politico. Riconoscere alla rivoluzione spagnola il carattere unico e l’importanza storica, ma negarne ogni pretesa direttiva sull’intero movimento internazionale. Difendere gli anarchici spagnoli dalle calunnie e dagli attacchi stalinisti, ma rivendicare la totale libertà di critica nei loro confronti.
Non c’è nulla di cui stupirsi. Il movimento anarchico spagnolo era quanto di più lontano si possa pensare dalla prospettiva sostenuta dall’Adunata. Pur ricco di combattività, esso era saldamente legato ad una concezione anarco-sindacalista, avvezzo ai tatticismi, ai calcoli strategici e strumentali, in una parola alla politica. Solo pochi mesi prima l’inizio della rivoluzione, in occasione delle elezioni del febbraio del 1936, gli anarchici spagnoli non avevano abbandonato l’astensionismo per incitare la popolazione a partecipare al voto? E se quel possibilismo, quella disponibilità a venir meno alle proprie idee in vista di risultati pratici immediati, era già forte prima del 19 luglio, è chiaro che l’esplodere della rivoluzione avrebbe fortemente accentuato tale propensione. L’eccezionalità del momento avrebbe indotto a giustificare compromessi sempre maggiori, sempre più gravi. Con quali risultati pratici ed immediati, è purtroppo ormai risaputo: il trionfo della controrivoluzione.
Ora, è chiaro che a posteriori sarebbe facile predicare che le cose sarebbero andate diversamente se gli anarchici avessero continuato a comportarsi da... anarchici. Sarebbe facile attribuire le cause della sconfitta — oltre che ai nemici fascista e stalinista — al rinnegamento delle idee anarchiche operato dai vertici della F.A.I. Sarebbe facile, ma anche privo di senso, giacché in realtà nessuno è in grado di prevedere cosa sarebbe successo se fosse accaduto il contrario, se cioè gli anarchici avessero rifiutato di partecipare al governo o la militarizzazione. L’alternativa ad una sconfitta non è necessariamente una vittoria. Potrebbe essere un altro genere di sconfitta. Ma ciò non giustifica l’equiparazione di compromesso e coerenza, di opportunismo e linearità, di politica ed etica. Per gli anarchici insistere ad impugnare la propria bandiera nera non è affatto garanzia di “vittoria”, tuttavia sventolare quella repubblicana lascia di certo due alternative: o conseguire una vittoria insipida perché ottenuta sotto i colori altrui, o riportare una sconfitta tanto più amara perché accompagnata dal tradimento.
Chi afferma che la rivoluzione spagnola è stata la tomba dell’anarchismo dice una mezza verità, ovverossia una menzogna. Più precisamente, è stata la tomba dell’anarchismo politico. In realtà, quanto accadde allora è la più formidabile conferma delle ragioni dell’anarchismo. Il potere è nocivo, sempre e comunque, chiunque sia ad esercitarlo. Fossero anche individui di indubbia buona fede, come un compagno d’armi di Durruti nei Solidarios, o una donna cresciuta a pane e anarchia. Nemmeno con la collaborazione attiva dei suoi nemici, un governo può portare la libertà. 
 
La negazione di ogni forma di autorità al fine di assaporare la libertà — l’anarchismo, appunto — non conosce eccezioni né transizioni.
Ora, nonostante l’abisso che divide le piccole lotte del presente dalla grande rivoluzione del passato, è istruttivo notare come le argomentazioni avanzate dagli anarchici politici per giustificare i propri compromessi strategici siano nel corso del tempo sempre le stesse: le necessità del momento, l’urgenza delle cose, la fretta realizzatrice («Quando si è in guerra, quando si ha di fronte un corpo d’esercito disciplinato e ben armato, è imprescindibile disporre per vincerlo di una massa compatta e ben organizzata di combattenti che risponda ad un pensiero e che rispetti le disposizioni dei compagni responsabili che sono nei posti di direzione. Non è opportuno, quando la rapidità nella esecuzione dei piani di guerra si impone, discutere e discorrere censurando tutto. Ciò non perviene che a ritardare le operazioni, a renderle inefficaci, e in tante circostanze a renderle nefaste per noi» — recitava una circolare della F.A.I., sollecitando i compagni a mettersi in riga in silenzio). 
Uguale è anche l’intolleranza nei confronti della critica, accusata di essere una forma di disfattismo messa in atto da «ambigui provocatori». E analoga è la scarsa importanza data in fondo allo stesso anarchismo che, all’incedere della prima occasione propizia, cessa d’essere costante punto di riferimento teorico e pratico per diventare gabbia ideologica da cui evadere il più in fretta possibile. Da qui ad accettare di moderare i toni ed unirsi a fronti comuni ritenuti più efficaci non è che un passo, reso accattivante magari da una retorica a forti tinte emotive.
Ebbene, la lettura degli articoli de L’Adunata dei Refrattari costituisce ancora oggi un ottimo antidoto ai veleni e ai miasmi del modo di fare politico. Antidoto reso tanto più attivo dalla diversità degli autori che vi collaboravano e lo diffondevano, fra cui spiccano sia anarchici «autonomi» come Max Sartin (ex collaboratore di Galleani), sia anarchici «organizzatori» come Gigi Damiani (ex collaboratore di Malatesta). Compagni che non si lasciarono né impressionare e intimorire dalla situazione, né ricattare e ammutolire dall’affettività, e che si adoperarono per ricordare a tutti quanto era necessario sottolineare anche e soprattutto in quel cruciale momento.
 
L’ingresso degli anarchici nel governo? 
— «Invece, dal 4 novembre in poi, gli anarco-sindacalisti di Spagna hanno mandato rappresentanti propri a far parte del governo antifascista, giustificandosi nel nome delle necessità della guerra. In tal modo la guerra civile si allontana ancora dalle origini popolari e rivoluzionarie da cui è scaturita, minacciando di diventare competizione di governi. Senza giovare alla causa antifascista, a cui, sul terreno che gli era proprio, aveva dato impeto e valore e abnegazione insuperati, l’anarco-sindacalismo spagnolo, con questa sua deviazione tattica, nuoce immensamente alla causa della rivoluzione sociale».
 
La trasformazione della rivoluzione in guerra? 
— «Questa era la prima conseguenza delle vittorie riportate dal fascismo, che gli permisero di concentrare le sue forze, costringendo i rivoluzionari a combattere sul terreno della strategia militare, su cui quello aveva i maggiori vantaggi. In principio, difendere la rivoluzione dai parapetti di una barricata o dal fondo di una trincea, non differisce sostanzialmente. In pratica, il passaggio dell’iniziativa, della scelta del terreno e del metodo di lotta, dalla rivoluzione popolare alla controrivoluzione militarista, costituisce un capovolgimento pericolosissimo della situazione, in quanto mette i rivoluzionari nella necessità di adottare una propria struttura militare ed una propria strategia bellica».
Il divieto di critica nei confronti degli anarchici presenti sul campo di battaglia? 
— «Se l’ammirare il loro eroismo è un bisogno spontaneo dello spirito, criticare quegli atti della loro politica che non si sottoscrivono, non può diventare un delitto contro l’anarchia e la rivoluzione, se non nel caso in cui la politica rivoluzionaria degli anarchici e anarco-sindacalisti venga messa sullo stesso livello su cui i dittatori mettono la propria politica d’infallibili... Approvazione senza critica, o non può darsi o è compito d’incoscienza... Dire che la partecipazione di anarchici al governo della Spagna antifascista è una deroga ai principi dell’anarchismo, non è né un insulto né un delitto contro gli eroici difensori di Madrid o i valorosi combattenti del fronte d’Aragona; è una semplice constatazione di fatto, confermata dall’invocazione delle ragioni d’ordine superiore, eccezionali, transitorie, imposte dalla guerra e dalle sue complicazioni, con cui si cerca di giustificare tale partecipazione. Queste ragioni possono persuadere e possono non persuadere. I compagni di Spagna possono sempre invitare chi abbia qualche cosa di meglio da offrire a recarsi sul posto e metterlo avanti. Ma il fatto stesso è incontestabile, e il dirlo, in Spagna o fuori, non deve offendere, non può offendere ed offrir pretesto a scomuniche massime, se non a chi si consideri assurto all’olimpo degli dèi infallibili». 
 — «L’anarchismo spagnolo si è scelta una via che si presta a differenze d’opinioni. Nella Spagna stessa l’anarchismo fa una politica che non tutti gli anarchici approvano. Anche se sono in minoranza, i dissenzienti da tale politica hanno tutto il diritto di dire le loro ragioni; e, all’estero, i compagni hanno il non meno incontestabile diritto di dire le proprie, tanto se queste vadano in favore della politica prevalente, quanto se vi siano contrarie. Questa libertà di opinione e di critica non ha alcun limite morale all’infuori del presupposto della buona fede anarchica; e non dovrebbe averne alcuno in pratica, all’infuori della prudenza che la delicatezza della situazione iberica esige. Disgraziatamente vi sono in Spagna, come dappertutto d’altronde, compagni insofferenti di opinioni avverse alle proprie e di critica sfavorevole, i quali invocano in pratica sanzioni contro i dissenzienti dell’interno, ed assumono atteggiamenti di superiorità morale di fronte a quelli dell’estero».
 
La suddivisione dell’azione rivoluzionaria in ambiti separati, rispondenti a un ordine gerarchico d’importanza? 
— «Una rivoluzione sociale è un avvenimento complesso, che tocca tutti gli aspetti della vita e tutte le categorie di cittadini. Così, a fianco delle operazioni militari, nella Spagna rivoluzionaria si compiono operazioni economiche, politiche, morali, intellettuali, che, tutte insieme, costituiscono il processo rivoluzionario di quel popolo, e tutte sono indispensabili al compimento della Rivoluzione. Stabilire una graduatoria dell’importanza rispettiva di queste varie e immani operazioni è impossibile. Tutte sono necessarie, nessuna può essere trascurata senza minare le basi, senza alterare i caratteri, senza violare le probabilità di vittoria, della Rivoluzione».
 
Ancora più significative sono le osservazioni critiche sulla possibilità e l’opportunità di una collaborazione con altre forze rivoluzionarie, un fronte unito la cui necessità pratica viene evocata talvolta con enfasi barricadera. Anche qui, i compagni dell’Adunata non concedono spazio ad illusioni. I vantaggi di un certo frontismo hanno un prezzo da pagare, i passi avanti iniziali vengono prima o poi seguiti dalla paralisi e dal tradimento: 
— «Gli anarchici spagnoli intendono l’anarchismo in una maniera alquanto diversa dal come l’intendono molti altri anarchici... gli anarchici spagnoli si distinguono anche per una certa propensione all’opportunismo politico, che non si riscontra altrove se non in manifestazioni eccezionali e sporadiche, più individuali che altro. In conseguenza di questa propensione opportunistica è avvenuto che l’anarchismo spagnolo contraesse impegni e compromessi col “Macismo” catalano fin dal tempo della dittatura di Primo De Rivera... in tal modo contraendo con questa coalizione politica di sinistra borghese e conservatrice, un impegno morale e politico che gli rende alquanto difficile far prevalere un indirizzo proprio energicamente e rigorosamente rivoluzionario. Non si può assumere una posizione netta e risoluta verso uomini e partiti che si sono aiutati ad assumere il potere, e si sono indicati al popolo come degni dei suoi suffragi». 
 
Queste considerazioni dimostrano, per quanto se ne dica, che l’ostilità anarchica nei confronti di ogni ipotesi di fronte unito non è affatto dovuta a settarismo, al bisogno meramente estetico di non vedere macchiata di sfumature rossastre la propria nera bandiera. Si tratta — questa sì — di una necessità pratica confermata da continue dolorose esperienze. Più che un pregiudizio ideologico, un post-giudizio storico. Dopo gli intrighi nell’Internazionale, il soffocamento di focolai come la Settimana rossa, la repressione degli anarchici russi, il massacro di Kronstadt, vennero le tragiche giornate di Barcellona. Un colpo di mano stalinista che, dal 3 al 7 maggio, tentò di liquidare gli anarchici lasciando sul terreno 500 morti e un migliaio di feriti. A fronte di ciò, il minimo che si possa dire è che «Dell’incoerenza dottrinaria possono sorridere quanti contestano ch’essa rappresenti l’insegnamento di ripetute esperienze storiche. Ma i fatti nudi e crudi di una tragica realtà, non possono altrettanto facilmente essere ignorati». 
Ogni qualvolta gli anarchici si sono uniti a forze della sinistra, si è inscenata la stessa commedia: moderazione delle proprie aspirazioni prima, rinnegamento poi, tradimento altrui, sconfitta. Consapevoli di ciò, è chiaro che i compagni dell’Adunata mettessero in guardia dall’abbandono della propria autonomia di azione e di una prospettiva rigorosamente antiautoritaria: 
— «Le forze libertarie non potranno ipso facto prevalere su tutta la Spagna, è naturale, è umano dato il contrasto di interessi e di passioni che dividono gli uomini; ma dove la prevalenza di consenso esiste sarebbe meglio affermarsi là, al posto di cercare connubi, che nel contrasto di passioni e di interessi sono una catena che intralciano lo sviluppo della propria opera. Accordi di reciproco aiuto ed assistenza sì di fronte al comune pericolo, ma mai unicità di azione e di indirizzo, perché noi abbiamo visto come nelle frazioni del movimento sovversivo i criteri e i metodi si differenziano a misura dell’interesse di parte».
 
Ed a nulla serve ribadire l’eccezionalità della situazione che si era venuta a creare in Spagna (una guerra incombente sulla rivoluzione) per legittimare scelte contrarie ad ogni principio anarchico. Come già ricordato da qualche comunista in modo canzonatorio, è la rivoluzione stessa ad essere l’eccezione. Non si può inveire contro la politica, il potere e lo Stato fino alla vigilia della rivoluzione, per poi farne un allegro utilizzo. Non esiste una teoria da sbandierare in tempi di (relativa) bonaccia e da abbandonare nei momenti di tempesta, giacché bisogna «che nello sforzo dell’azione si avvantaggi la chiaroveggenza praticata dei principi, i quali, se valgono o perché possano valere, devono valere soprattutto nei momenti gravidi di grossi eventi; che – precisiamo – nel doveroso e urgente e affannoso sforzo comune contro il comune nemico non si condiscenda ad anticipazioni, o ad accaparramenti, o ad assorbimenti in favore e verso partiti di futuri governi e di future dittature, sia pur provvisorie, sia pure… proletarie».
 
Allo stesso modo non riuscivano ad impressionare i voli della retorica, la sdolcinata ode alla comunanza combattente, giacché l’aspetto passionale (anche di una rivoluzione) non è disgiunto da quello razionale: «Non ammettiamo il conflitto tra sentimento e ragione. Consideriamo che, senza la ragione, la bontà e la stessa pietà non servono a nulla e che il sentimento deve nascere dall’Idea: l’Idea non deve mai nascere dal sentimento»
Le barricate, gli scontri, i sacrifici, tutte le gioie e i dolori condivisi       — pur nella loro immensità ed eterogeneità — non rendono affatto irrilevante la scelta di fondo individuale, l’aspirazione che muove tutto l’agire anarchico: «Le presenti osservazioni ci costano tanta amarezza quanto ce ne costerebbe il tacerle; tanto più che non vorremmo essere confusi con i frigidi di un materialismo automaticista, che prescinderebbe da ogni fattore “sentimento” nella interpretazione della storia. Non vi può essere malinteso su ciò, trattandosi di noi, che abbiamo sempre sostenuto che il pensiero per divenire azione ha bisogno del sentimento; ma del sentimento corrispondente e non contrastante col pensiero».
Si tratta di considerazioni antiche, ma che purtroppo non hanno perduto la propria attualità. 
«Dicono che sbagliando si apprende. Non sempre. In ogni caso, sulla scorta dei fatti, si può concludere che non sono gli anarchici quelli ai quali le dolorose esperienze hanno insegnato qualche cosa» — commentava amaramente un articolo dell’Adunata. Da allora, è forse cambiato qualcosa? A guardarsi attorno oggi, si direbbe di no. Anzi. Ecco perché riteniamo valga la pena riproporre queste banalità di base, pur nella consapevolezza che difficilmente troveranno un buon numero di lettori attenti.
Quasi sorprendente è stato invece scoprire come molte critiche e proposte avanzate in quegli anni non si differenzino poi molto da quanto viene presentato oggi, seppur in un contesto assai diverso, quasi si trattasse di una innovazione. Ad esempio, la critica al concepire nel solo territorio iberico il luogo dello scontro, difetto ottico che portava ad una centralizzazione che chiudeva il campo d’intervento, lasciando come unica alternativa o la partenza per il fronte o l’assistenza a distanza. Viceversa dalle pagine dell’Adunata, partendo dal presupposto che «La rivoluzione è pluralità, è molteplicità, è emulazione nobile di tentativi vari, è scossa tellurica che ha il suo centro dovunque e quindi non ne ha alcuno», si invitavano tutti i compagni sparsi per il mondo (ricordiamo che quel giornale aveva una diffusione internazionale) ad allargare le ostilità, a portare la rivoluzione spagnola ovunque, perché ovunque si trovavano i suoi nemici. Cosa che avrebbe da un lato dato ossigeno agli stessi compagni spagnoli, alleggerendoli dalla pressione dei governi esteri che collaboravano col generale Franco, dall’altro avrebbe evitato “arruolamenti” frutto più di un sottile ricatto morale che di un reale convincimento.
Non solo, ma in mezzo a quella bufera in grado di disorientare gli animi più saldi, ci fu perfino qualche combattente che trovò il tempo di osservare come il linguaggio stesso faccia parte del campo di battaglia, e come l’uso di determinate espressioni a scapito di altre — ad esempio l’uso di guerra piuttosto che rivoluzione — porti ad un mutamento di prospettiva gravido di tristi conseguenze. Non una sottigliezza semantica scrupolo di pochi intellettuali, ma un autentico problema materiale che dovrebbe riguardare qualsiasi rivoluzionario.
Se a tutto ciò si aggiunge la vigorosa denuncia degli orrori del fascismo, dell’ipocrisia della neutralità dei vari governi esteri, dell’inettitudine del pacifismo, dell’impotenza del legalitarismo, dell’immobilismo della classe operaia degli altri paesi, dei raggiri dello stalinismo, si può capire la ragione per cui abbiamo deciso di raccogliere qui numerosi articoli di quel settimanale, apparsi nel periodo che va dall’estate del 1936 all’autunno del 1937. Oltre ad effettuare una selezione degli innumerevoli testi dedicati all’argomento, per facilitare la lettura abbiamo, dove necessario, alleggerito la punteggiatura e aggiornato qualche espressione arcaica.
 
Dedichiamo questo libro alla memoria di Max Sartin, per mezzo secolo redattore de L’Adunata dei Refrattari, e a tutti i collaboratori di questo splendido settimanale che veniva pubblicato a New York. Ed ovviamente lo dedichiamo agli anarchici che hanno combattuto in Spagna. Ma fra questi, lo ammettiamo, il nostro ultimo pensiero va a quegli incontrollabili — come Jaime Balius, José Pellicer e molti altri spesso del tutto sconosciuti — che si batterono fino alla fine affinché la rivoluzione non venisse tradita, continuando ad abbandonarsi ai sogni d’avventura, vedendo con la febbre dell’immaginazione un mondo diverso da quello in cui erano vissuti, ma che desideravano ardentemente; un mondo in cui nessuno di loro aveva vissuto, ma che avevano sognato. Contro ogni realismo politico.
 

 

l'Adunata dei Refrattari

Barricate e decreti

pp 256, euro 13

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