Contropelo

Classi pericolose

 

Louis Chevalier
 
Se il fatto è importante, altrettanto lo è ciò che i contemporanei ne pensano e le conclusioni che ne traggono, e in specie la conclusione che il popolo sia destinato dalla sua espansione demografica, dalla sua fecondità e dalla sua stessa esistenza alla peggiore degradazione, all’emarginazione e ad essere diverso e pericoloso per gli altri.
Non sarà superfluo osservare che l’autore della miglior valutazione delle dimensioni di questa popolazione sventurata e pericolosa a un tempo, Buret, è anche quello che in un testo che non è mai stato apprezzato al suo giusto valore ci dà la principale testimonianza e la più esatta interpretazione di questo fatto d’opinione. Egli paragona la condizione del proletario parigino a quella del selvaggio, riassumendo con questa parola — che così come connota la storia di quel tempo connoterà fino alla fine il seguito della nostra analisi — il fatto precedentemente misurato, l’opinione che lo concerne e il comportamento dettato dal fatto e dall’opinione. Selvaggi i lavoratori lo sono per la precarietà della loro esistenza, «principale caratteristica che rende il povero simile al selvaggio. La vita del proletario dell’industria, come quella del selvaggio, è alla mercé del caso e dei capricci della sorte: oggi buona caccia e salario, domani niente preda e disoccupazione, oggi abbondanza, domani carestia»; per il loro continuo nomadismo, che comincia col vagabondaggio infantile e caratterizza in seguito «la popolazione fluttuante delle grandi città, quella massa umana richiamata dall’industria, che, superando costantemente le sue possibilità occupazionali, viene accantonata come materiale di riserva. È fra questa popolazione, molto più numerosa di quanto non si creda, che si reclutano i poveri, questi pericolosi nemici della nostra civiltà». Questa popolazione operaia e veramente primitiva presenta tutti gli aspetti della condizione del selvaggio: «Se vi avventurate nei quartieri maledetti in cui vive, incontrerete a ogni passo uomini e donne segnati dal vizio e dalla miseria e bambini seminudi immersi nel sudiciume e chiusi in bugigattoli senz’aria né luce. Vedrete là, nel cuore stesso della civiltà, migliaia di uomini ridotti dal loro completo abbrutimento a una vita da selvaggi; la miseria vi si presenterà sotto un così orrido aspetto da ispirarvi più disgusto che pietà, e da indurvi a considerarla come il meritato castigo di un delitto». Spettacolo comunissimo in tutte le grandi città, ma specialmente a Parigi: «Se vi addentrate nei vecchi quartieri ormai lontani dal centro, nella Cité o nelle affollate stradette del IX, dell’VIII e del XII arrondissement, incontrerete a ogni passo l’immagine della povertà e addirittura della miseria. L’indigenza delle grandi città ha un aspetto molto peggiore della miseria delle campagne, e ispira disgusto e orrore, offendendo tutti i sensi a un tempo». Con l’ubriachezza, soprattutto: «Solo i selvaggi si ubriacano con lo stesso impegno delle classi povere più degradate. Per una bottiglia d’acquavite il negro della costa africana venderebbe se stesso e i suoi figli. L’ubriachezza ha distrutto gli indigeni dell’America del Nord molto più della carestia e dei sistematici massacri dei bianchi. Per il selvaggio, una sbornia è la suprema felicità; per il miserabile delle grandi città è una passione invincibile, un piacere cui è incapace di rinunciare e a cui è pronto a sacrificare tutto, anche la salute e la vita. Quale triste confronto, quale deprimente visione quella di questi uomini, nostri compatrioti e fratelli, che sprofondano nel più abietto abbrutimento iniettandosi insieme all’alcol la ferocia delle belve e indulgendo in ignobili orge accompagnate da sangue e ferite!».
Non solo la condizione e il modo di vita dei lavoratori sono descritti come analoghi alla condizione dei selvaggi, ma i vari aspetti della rivolta operaia e i conflitti di classe sono esposti in termini di razza: «I lavoratori — scrive Buret — mancano del senso del dovere verso i loro padroni come i padroni verso di loro, e li considerano uomini di un’altra classe, completamente diversa e ostile. Isolati dalla nazione, emarginati dalla comunità sociale e politica, soli con i loro bisogni e la loro miseria, essi cercano di uscire da questa spaventosa solitudine e forse meditano un’invasione, come i barbari cui li abbiamo paragonati».
L’uso di parole come ‘barbari’ e ‘selvaggi’ indica e sintetizza i principali aspetti della condizione e del comportamento operaio, ridotti a tratti biologici e a caratteristiche somatiche. In queste righe sono già condensati tutti i successivi capitoli della nostra analisi, in cui descriveremo da un lato l’importanza attribuita a differenze considerate razziali, e dall’altro il violento comportamento giustificato e spiegato da tali convinzioni. Buret tuttavia si esprime in maniera così logica e lucida che il suo paragone fra proletario e selvaggio è stato da molti considerato come un semplice esercizio accademico, che ha perciò riscosso ben poca attenzione. Che si tratti di un esercizio accademico può darsi, ma fondato però su credenze che, come dimostra la documentazione dell’epoca, caratterizzano sia le classi borghesi che le classi popolari.
Per la borghesia parigina le classi lavoratrici sono e restano al margine della città, come quei gruppi di popolazione che un tempo venivano scambiati per gruppi criminali.
 
La confusione riguardo al reclutamento delle classi pericolose e delle classi lavoratrici
Identico è il reclutamento, o quanto meno viene considerato e presentato come tale. Qui non ci interessano i fatti e l’espansione demografica della città nel suo insieme e nelle sue categorie professionali; ciò che conta è l’opinione, chiaramente manifestata in molti documenti tutti concordi nel loro giudizio e nei termini usati per esprimerlo. Quando nella seconda metà della Restaurazione inizia la fortissima immigrazione da noi misurata, i nuovi arrivati vengono generalmente descritti con termini indicanti delle differenze che noi oggi definiremmo razziali o etniche — con gli stessi termini, cioè, con cui in passato, come già abbiamo visto, si definivano i gruppi estranei, diversi e pericolosi per la città. Questi immigrati, estranei al costume e alle leggi della comunità, sono sempre più miserabili, barbari, selvaggi e nomadi. Così sono descritti dalla letteratura pittoresca e dalla stampa della Restaurazione — ad esempio nel libro di Luchet (1); così sono descritti nella ricchissima documentazione letteraria e amministrativa e nella cronaca nera del tempo della Rivoluzione del 1830 e dei torbidi inizi della Monarchia di Luglio. È a quest’«invasione di nuovi barbari» che allude un sensazionale articolo del Journal des Débats (2); ed è sempre a questa discriminazione fra i parigini autoctoni e gli altri che è improntata la seduta della Camera del 26 agosto 1830, riunita per discutere un progetto di legge che autorizza il ministro degli Interni a stanziare cinque milioni per i lavori pubblici di Parigi (3). Così sono descritti per tutta l’epoca della Monarchia di Luglio, e particolarmente nei periodi di crisi in cui le tensioni sociali si esasperano; così sono descritti soprattutto durante la grande perturbazione del 1848. Parlando della «difficile situazione sociale» della capitale negli ultimi anni del regime di Luglio, e riassumendo l’opinione corrente sulle cause della crisi, Daniel Stern scrive che «essa dipendeva dall’eccessivo aumento di un ampio settore delle classi popolari, che, per una serie di circostanze in certo senso inevitabili, aveva finito col dar vita a una classe separata, quasi una nazione nella nazione, e che la gente aveva preso a indicare con un nome nuovo: il proletariato industriale» (4). Nei suoi Souvenirs, Tocqueville protesterà contro «la rivoluzione industriale che negli ultimi trent’anni ha fatto di Parigi la più importante città manifatturiera di Francia, convogliando entro le sue mura un’intera popolazione di lavoratori cui successivamente si è aggiunta una massa di contadini destinati ai lavori di fortificazione e attualmente disoccupata», accusando «la smania del benessere materiale fomentata dallo stesso governo che pervade sempre di più questa moltitudine e il malanno democratico dell’invidia che nascostamente la rode». Avversari e fautori della rivoluzione del ‘48 saranno tutti d’accordo nell’addossare a questi nuovi arrivati precariamente insediati nella città le più gravi responsabilità di qualsiasi difficoltà e di qualunque disordine (5).
 
Nomadi e proletari. L’evoluzione del significato delle parole rispecchia esattamente quella delle idee: «una nazione nella nazione che la gente aveva preso a indicare con un nome nuovo: il proletariato industriale», scrive Daniel Stern.
Il proletariato industriale! Termine nuovo, infatti, con cui a Parigi come altrove verrà sempre più comunemente indicata la classe operaia, che connoterà d’ora in poi certe particolari caratteristiche economiche e professionali e in cui le caratteristiche sociali diventeranno un aspetto secondario delle caratteristiche economiche; termine semplice e schietto, senza sfumature né ambiguità, altrettanto indiscutibile e necessario delle statistiche che misurano i gruppi sociali ai quali si applica; imposto dai fatti, riconosciuto e praticamente autenticato dagli uomini e in primo luogo dai lavoratori, alcuni dei quali, nelle liste elettorali del Secondo Impero, si definiscono — e si vogliono — «proletari». Un termine duro e spietato, insomma, che avrà un futuro.
Come non sottolineare tuttavia con quanto ritardo questa parola sarà accettata in senso pieno e definitivo dai tecnici e dai difensori della lingua, di quella lingua che secondo l’autore della Prefazione della sesta edizione del Dizionario dell’Accademia (1835) è «la forma apparente e visibile dell’essenza spirituale di un popolo»? In questa edizione la parola ‘proletario’ è inserita esclusivamente come sostantivo, ed è così definita: «Parola usata nell’antica Roma per indicare i componenti della sesta ed ultima classe del popolo che, essendo poverissimi ed esenti da imposte, erano utili alla Repubblica solo per i figli che generavano. Negli Stati moderni si dice per estensione di coloro che non hanno capitali né esercitano professioni sufficientemente lucrative». Il proletariato farà la sua comparsa solo nell’edizione del 1862, e sarà definito come «la classe dei proletari. Condizione di proletariato. Il proletariato moderno». Così, dopo aver parlato del proletariato romano, il Littré scrive nel 1869 (6): «Usato dagli autori moderni per indicare i membri della classe indigente», e come esempio cita una frase del Contratto sociale, adatta piuttosto al proletariato urbano (7), e una sentenza del Consiglio di Stato del 26 aprile 1806 che, a proposito del legnatico, concerne propriamente il proletariato rurale contrapposto ai grossi proprietari. Nel Nouveau Dictionnaire d’économie politique di Léon Say (1892) le parole ‘proletario’ e ‘proletariato’ non sono citate, nemmeno nel lungo articolo dedicato al socialismo o nel sommario degli scritti di Marx. Alla fine del XIX secolo, quando ormai migliaia di documenti d’ogni genere dimostrano che all’intera classe lavoratrice urbana nulla è più chiaro del concetto di proletariato, l’Accademia delle Scienze morali personificata da Léon Say è ancora ferma al «pauperismo», da lui presentato come la più perfetta espressione dell’evoluzione economica e sociale della seconda metà del secolo e come la quintessenza del pensiero economico (8): termine accademico — o quanto meno coniato per l’accademico — più intriso d’erudizione che di fatti, difficile da distinguere dai vecchi termini di ‘povertà’, ‘indigenza’ o ‘miseria’, ed anzi ancor gravido di tutto quanto attiene al vecchio concetto di mendicità.
Nella prima metà del XIX secolo la parola ‘proletariato’, considerata non nei dizionari, dove ancora non si è fatta largo, ma nei documenti letterari e sociali dell’epoca e nei fatti, è ancora strettamente legata a caratteristiche che non hanno nulla di economico, è ancora intrisa delle rivalità etniche e fisiche che fomentano le violenze da noi descritte, e deve ancora competere con altri termini o altre immagini che meglio esprimono le caratteristiche biologiche dei conflitti sociali. Ce lo dimostra l’opera di Balzac, in cui il proletariato non è tanto una classe quanto una razza e in cui questa parola connota un modo di vivere barbaro e selvaggio più che una determinata distribuzione professionale o certe caratteristiche economiche; ce lo dimostra l’analisi di Frégier, che classificando il cenciaiolo nelle classi pericolose — non senza un’esitazione e un imbarazzo estremamente significativi — scrive: «Quando il proletario — giacché è certamente lecito usare questa parola parlando del cenciaiolo e del vagabondo — quando il proletario, ripeto, invece di cercare di ovviare alla propria miseria con la sobrietà e il risparmio aspira a bere la coppa del piacere destinata alla classe agiata e ricca, quando non solo tenta di bagnarcisi le labbra ma addirittura di ubriacarcisi, in un accesso di folle orgoglio, la sua degradazione supera di gran lunga il suo desiderio di elevarsi » (9).
Altre parole infatti prevalgono ancora, quali quelle usate da Lecouturier, che nel 1848 scrive: «Non esiste una società parigina, non esistono i parigini. Parigi non è altro che un accampamento di nomadi» (10), o da Jules Brenat, che in Les socialistes modernes (1849) scrive: «La vittima di codesti barbari fu la borghesia, o meglio coloro che avevano raggiunto l’agiatezza grazie all’ordine e al lavoro [...]. Ebbra di disordine e di sterminio, questa plebaglia ripudiata dallo stesso popolo strinse d’assedio il potere». Ancor più significative sono le parole usate come giudizio finale o come suprema ingiuria da uomini quali Thiers od Haussmann.
«V’è una quantità di vagabondi con un salario considerevole — dice Thiers nel suo discorso del 24 maggio 1850 — e altri che, seppure con mezzi illeciti, guadagnerebbero abbastanza da procurarsi una casa, se solo lo volessero. Sono questi gli uomini che costituiscono non la feccia, ma la parte pericolosa dei grandi agglomerati umani; sono questi gli uomini che meritano uno dei più infamanti nomi della storia, notate, il nome di plebaglia, la vile plebaglia che ha mandato in rovina tutte le Repubbliche. È la plebaglia, e non il popolo, che noi vogliamo eliminare; questa plebaglia eterogenea, questo branco di vagabondi di cui s’ignora la famiglia e il domicilio, così instabili da essere inafferrabili e incapaci di creare un ricovero decente per le loro famiglie. È questa plebaglia che la legge si propone di espellere».
È appunto questa plebaglia, questi vagabondi, questi nomadi che Haussmann indica in termini identici in un discorso che lo renderà profondamente impopolare. È necessario infatti sottolineare che la parola ‘nomade’ fu usata per l’ultima volta da Haussmann, sotto il Secondo Impero, in un discorso che buona parte della classe operaia sentì come un insulto, tanto i nomadi si erano ormai definitivamente insediati nella città fondendosi alla popolazione autenticamente parigina.
«L’ho detto e ripetuto tutte le volte che mi se ne è presentata l’occasione — scriverà Haussmann nei suoi Mémoires — Parigi appartiene alla Francia, non ai parigini di nascita o d’elezione che l’abitano e tantomeno alla popolazione fluttuante delle camere mobiliate che falsa il risultato delle elezioni con una valanga di voti irresponsabili; questa “turba di nomadi”, per usare un’espressione che mi è stata rimproverata ma di cui torno ad affermare l’esattezza, i migliori dei quali vanno nella grande città in cerca di un lavoro più o meno regolare, ma con la precisa intenzione, al momento buono, di tornarsene al paese d’origine ove restano le loro vere radici».
Al che, in un articolo pubblicato dalla Revue des Deux Mondes nel 1871, Cochin risponderà come segue: «Secondo Haussmann i parigini non esistevano, e la città era soltanto un immenso albergo di ricchi e di lavoratori [...]. L’assedio ha dato ad Haussmann la risposta che meritava. Stranieri, notabili, burocrati, gente a caccia di piaceri, nomadi, tutti sono fuggiti. I veri abitanti di Parigi sono rimasti soli. Erano stati isolati, separati, cacciati di quartiere in quartiere e privati di ogni diritto per vent’anni. Ma la vita municipale non era finita, e alla prova del fuoco è tornata a fluire come il vino dal torchio».
Si dirà che queste espressioni, ‘barbari’ o ‘nomadi’ sono semplici immagini, e non parole del linguaggio di tutti i giorni. In questi discorsi, infatti, esse sono probabilmente usate in senso metaforico, ma con sorprendente frequenza e con un significato molto preciso. È impossibile non vedere in queste parole qualcosa di più di pure metafore, ove si osservi ch’esse compaiono anche nella cronaca nera e perfino nelle statistiche che tentano di accertare quanta parte abbia avuto nell’espansione di Parigi la cosiddetta popolazione «nomade».
L’atteggiamento della borghesia nei confronti delle classi lavoratrici rispecchia dunque per molti aspetti il suo antico atteggiamento verso una popolazione considerata estranea alla città, capace di qualunque violenza e sospettata di tutti i delitti, di tutti i mali, di tutte le epidemie non solo per le sue peculiari caratteristiche, ma addirittura per la sua diversa origine, per il semplice fatto di un’immigrazione immediatamente guardata come una proliferazione dell’antica mendicità. Come ignorare il sorprendente rapporto di quel prefetto del dipartimento della Senna citato da Morogues (11), che indica nello sviluppo industriale di Parigi la causa prima della situazione della città invasa non, come si potrebbe pensare, da una folla di operai, a tutto vantaggio degli imprenditori, ma da una turba di mendicanti decisi a vivere alle spalle della borghesia?
 
Le caratteristiche comuni alle classi lavoratrici e alle classi pericolose
È comunque molto difficile distinguere le classi lavoratrici dalle classi criminali, in primo luogo perché i limiti fra i gruppi compresi in queste due categorie sono tutt’altro che precisi, e secondariamente perché sull’incerto confine che li separa si trovano dei gruppi intermedi di cui è impossibile dire fino a che punto appartengano agli uni piuttosto che agli altri. Come distinguerli, infine, visto che tutti sembrano sottostare a circostanze economiche, politiche e biologiche che li mescolano e li trapiantano da una categoria all’altra secondo gli anni e le stagioni, le rivoluzioni, le crisi e le epidemie?
Come può capirci qualcosa l’opinione contemporanea, disinformata e condizionata dalle apparenze, dai colori, dagli odori e dai gesti di violenza, quando non ci riesce nemmeno un esperto come Frégier, scrupolosissimo nel distinguere e nel misurare e ansioso di capire? Egli infatti si rassegna a constatare fra le due classi una comunanza di condizione e di destino, e a definire approssimativamente un insieme sociale che comprende gran parte della classe operaia, in cui esiste uno stretto contatto e un fitto scambio fra classi pericolose e classi lavoratrici e un’intensa mobilità in entrambe le direzioni. Fra classi lavoratrici e classi criminali, infatti, o meglio su quella frontiera incerta e mutevole che le unisce più che non le separi, esistono dei gruppi sociali di appartenenza indefinibile. Essi appartengono indubbiamente alle classi lavoratrici, ma esercitano mestieri così degradanti, o almeno considerati tali, che la maggior parte delle descrizioni dell’epoca non si peritano di cercare fra loro i più comuni esempi di criminalità.
[...]
 
Classi lavoratrici e classi pericolose soggette agli stessi imperativi
Come potrebbe infine l’opinione distinguere le classi lavoratrici dalle classi pericolose, mescolate e confuse nei reciproci scambi sociali e nel paesaggio parigino, e d’altronde tutte soggette, nello stesso momento e nello stesso modo violento, illegale, selvaggio, insomma, alle stesse pressioni economiche, politiche e biologiche? Crisi, sommosse ed epidemie riforniscono periodicamente le masse pericolose di nuovi elementi, o per meglio dire riuniscono operai e delinquenti, popolo e plebaglia in un’unica turba accanita nelle stesse violenze pubbliche e private.
Non sono i fatti che contano, in questo caso, quanto la convinzione che la miseria, la malattia e la rivolta, cui spesso si attribuiscono le stesse cause e la stessa colorazione, provochino delle violenze considerate come ondate di criminalità e invariabilmente attribuite alle classi criminali.
È a questa combinazione di temi biologici, economici, politici e criminali che si riferiscono Doin e Charton nelle loro Lettres sur Paris del gennaio 1830: «L’indigenza del contadino non è mai disperata e terribile come quella delle miserande famiglie che vivono al di qua della Bièvre, costantemente assillate e terrorizzate dallo spettro dell’ospedale, della prigione e della Morgue». Nel 1830, descrivendo il faubourg Saint-Antoine nei suoi Esquisses dédiées au peuple parisien, Luchet scrive a sua volta: «Nel 1789 il popolo era analfabeta [...]. Oggi invece sa leggere. Oggi quindi il furore dei lavoratori si traduce in proteste e anatemi, mentre un tempo avrebbe generato la strage e l’incendio. È impossibile soffrire più di quanto soffre la maggior parte di essi, oggi che la miseria è così profonda e l’industria senza risorse [...]. Una pagnotta da 4 libbre costa 22 soldi (che spesso è più di quanto guadagnino in un giorno), e tuttavia non si ribellano, accontentandosi di gemere e protestare [...] aspettano la goccia che farà traboccare il vaso [...] Questa goccia potrebbe essere una moglie o un figlio morti di fame e di stenti. Attenti che non giunga questo momento terribile!».
Infine, dopo aver visitato le strade vicine a Porte Saint-Martin, ancora infiammate dalla rivolta, Mrs. Trollope si chiede «come governare tutta questa gente che non esiterebbe a morire sul patibolo, nel rigagnolo o lasciandosi asfissiare da un fornello a carbone piuttosto che vivere in pace nella condizione in cui Dio li ha posti [...]» (12). Così la pensano molti testimoni oculari dell’epoca. Qualunque sia la causa dei disordini, e sia essa decisamente economica, politica o biologica, è sempre e dovunque considerata un fenomeno anormale con risultati altrettanto anormali, da tutti descritti come manifestazioni criminali.
Le crisi economiche. Poco importano le probabili correlazioni fra crisi economiche e criminalità, e l’aumento parallelo del prezzo del pane e del numero dei reati. Ciò che soprattutto merita di essere sottolineato è che nessun altro fatto è più noto, più frequentemente affermato e più temuto. Quando viene la crisi, il borghese si barrica in casa e il passante si affretta a rientrare. Non a caso Frégier fa della crisi economica una delle cause principali della delinquenza operaia.
Le invernate. Altrettanto pericolose e determinanti sono certe invernate terribili e mortali, i cui effetti spesso si sommano a quelli delle crisi. Nell’inverno del 1845 Balabine scrive: «In questo paese il flagello è terribile, perché colpisce una massa enorme di individui e migliaia di famiglie che non hanno alcun modo di difendersene. Stipate nelle mansarde, sotto tetti da cui spesso filtra l’acqua, strette fra pareti umide e gelide, senza fuoco e senza i mezzi per procurarselo, innumerevoli famiglie e migliaia di lavoratori vestiti soltanto di sordidi stracci soffrono fino alla morte in questa Babilonia di piacere e di lusso. Col freddo, una nebbia fittissima ha avvolto Parigi in un manto impenetrabile e misterioso. Era quello che ci voleva perché il delitto, rampollo della miseria, scendesse nelle strade terrorizzando i passanti attardati. Dai quartieri oscuri e solitari che il ricco abitante dei quartieri di lusso, inondati di luce da migliaia di lampioni, non conosce neppure di nome, i rapinatori — tale è il nome di questa calamità — incoraggiati dal facile successo delle loro imprese notturne, si sono lentamente avvicinati fino a invadere i nostri. Alle nove di sera, sulla porta dell’Hótel Clarendon in rue de Castiglione, proprio di fronte alla sentinella del ministero delle Finanze, un giovanotto ha rischiato d’essere assassinato [...]. Ben presto questi tenebrosi drammi sono arrivati a concludersi in Corte d’assise».
Le crisi politiche. Le crisi politiche — che spesso è difficile distinguere da quelle economiche — sono anch’esse generalmente considerate una diretta causa della recrudescenza della criminalità, quando non vengono addirittura imputate alle classi criminali.
È l’opinione riecheggiata da Frégier quando si chiede se sia il caso «di classificare fra le classi pericolose i sobillatori dei moti popolari», ed è anche l’opinione espressa dalla maggior parte degli scritti borghesi dell’epoca che, descrivendo le grandi sommosse parigine della Restaurazione e della Monarchia di Luglio, ne addossano la responsabilità alle classi criminali o a classi popolari in certo senso contagiate dalla delinquenza. Nel suo libro su La population dans ses rapports avec la nature des gouvernements, pubblicato nel 1837, Richerand parla della Rivoluzione del 1830 in questi termini: «Una plebaglia cenciosa si assiepava intorno alle porte del palazzo [...] e sebbene si fosse affrettata a coprire le sue ripugnanti nudità con giubbe azzurre messe insieme alla bell’e meglio, il suo aspetto rimaneva estremamente sinistro. Una moltitudine di avanzi di galera, sempre in prima fila in ogni sommossa, dopo aver depredato il palazzo reale e alcuni musei, scorrazzava per le strade alla caccia di un più lauto bottino».
‘Plebaglia’ è la parola più comunemente usata per indicare questi gruppi popolari e criminali uniti nelle stesse imprese politiche e insieme delittuose, inserendosi nel lessico borghese accanto alle parole ‘barbari’, ‘selvaggi’, ‘nomadi’ già da noi commentate. Di plebaglia parla Richerand, di plebaglia parla il figlio di un vignaiolo di Auxerre in una lettera in cui descrive al padre le giornate di luglio del 1830 (13), di plebaglia parla Hugo nel suo discorso d’ammissione all’Accademia di Francia, suscitando le violente proteste di Vinçard e dando luogo a una polemica di cui, come abbiamo visto, sono rimaste le tracce nella descrizione delle barricate dei Miserabili. Per non ripeterci, ci limiteremo a osservare che negli ultimi anni della Monarchia di Luglio, e definitivamente dopo le giornate del 1848, le classi popolari parigine cessano di essere chiamate «plebaglia», cessano di essere dette selvagge, barbare o nomadi e diventano esclusivamente «popolo». «Della Rivoluzione del 1848 due cose mi colpirono soprattutto» scriverà Tocqueville nei suoi Souvenirs «la prima fu il carattere esclusivamente popolare — esclusivamente, e non principalmente — della rivoluzione che aveva appena avuto luogo, l’assoluto potere su ogni altra classe ch’essa aveva conferito al popolo, ossia alle classi che lavorano con le proprie mani [...] ».
 
 
(1) Guardiamo ad esempio i moti dei primi anni della Restaurazione. Quelli dell’estate del 1820: «I giovani, quasi tutti forestieri — scrive il prefetto Chabrol nel suo proclama dell’8 giugno 1820 — che si sono lasciati traviare dai nemici dell’ordine pubblico, hanno riscosso il generale biasimo della cittadinanza. I rispettabili artigiani che mantengono le loro famiglie con il proprio lavoro quotidiano si sono distinti per la loro saggia condotta». Un’ordinanza del 15 giugno inasprisce le precedenti disposizioni sulle camere d’affitto.
Il Journal des Débats del 21 novembre così descrive i disordini del novembre 1827: «Un centinaio di miserabili straccioni si sono sparpagliati per le strade con i grembiuli colmi di pietre. Recatisi nei quartieri commerciali, hanno fracassato vetri, sfondato porte e malmenato i cittadini per costringerli — così dicevano — a illuminare i negozi. È deplorevole che questa plebaglia non sia stata perseguita e arrestata dalla truppa».
(2) «Il lettore ricorderà certamente — leggiamo nel Journal des Débats del 10 luglio 1832 — l’incredibile baccano sollevato qualche mese fa dall’opposizione a proposito di una parola — “barbari” — da noi usata per descrivere una classe tenuta in stato di pericolosa ostilità nei confronti della società dalla sua scarsa istruzione e dal suo precario livello di vita».
(3) Journal des Débats del 27 agosto 1830. Dupin: «La metà di questi cinque milioni è destinata a lavori di costruzione e di scavo; chiedo che siano assunti di preferenza i padri di famiglia e gli operai residenti a Parigi. (Vive proteste). Resta un milione e mezzo senza alcun preciso impiego. Propongo che si stanzino 300.000 franchi per l’assistenza ai tipografi. Il governo deve inoltre trovare la maniera d’indurre l’eccessivo numero di lavoratori attualmente a Parigi a tornare spontaneamente in provincia» (Rinnovate e violente proteste. Una voce grida: «E la libertà?»). Dupin: «Anch’io sono per il mantenimento dell’ordine, e se chiedo che nei lavori pubblici sia data la preferenza agli operai domiciliati nella capitale [...]». (Lunghe interruzioni). Mestadier: «Protesto contro quest’argomentazione dannosissima per la capitale e pericolosa per le nostre province. Monsieur Dupin propone che nell’assegnazione dei lavori pubblici della capitale si faccia una distinzione fra i lavoratori domiciliati a Parigi e quelli provenienti dalla provincia. Vorrei sapere da quest’insigne esperto del calcolo statistico come intende regolarsi per procedere a questo censimento, e soprattutto a una così ingiusta discriminazione. Ho l’onore di essere deputato di un dipartimento che manda a Parigi dai 20 ai 24.000 operai». Diverse voci: «Non ci sono soltanto i lavoratori del Limousin, ci sono anche i lorenesi e gli alverniati». Mestadier: «Questi operai sono altrettanto utili di quelli della capitale: a casa loro sono liberi, ma sono più poveri, ecco l’unica differenza». Viennet: «Nessuno pensa a fare una distinzione di questo genere».
(4) Stern, Histoire de la révolution de 1848.
(5) Tale era il tema dell’indagine promossa nel 1848, su richiesta del Comitato del lavoro, dopo i moti del 15 maggio. Una delle principali domande era: «Quali mezzi suggerite per frenare l’immigrazione nelle città dei lavoratori rurali e per destinare ai lavori dei campi le braccia che non trovano impiego nell’industria?».
(6) Emile Littré, Dictionnaire de la langue française, 4 vol., 1863-69.
(7) «Qualcuno lavorando i campi è diventato un rispettabile cittadino, mentre in città sarebbe rimasto soltanto un povero proletario».
(8) «Il pauperismo è qualcosa di molto diverso, una nuova malattia sociale, nuova come la parola usata per designarla. Questa parola d’origine inglese è entrata nell’uso comune da circa sessant’anni, e denota la condizione di un certo numero di persone mancanti in permanenza del necessario per vivere. Il pauperismo è una condizione nuova, sia per le sue cause che per le sue caratteristiche. Esso è originato dall’organizzazione industriale del nostro tempo, e dal comportamento e dal modo di vita dei lavoratori dell’industria».
(9) Cfr. l’analisi di Proudhon del concetto di ‘povero’ e di ‘proletario’ nel terzo capitolo del libro IV di La Justice, e nel vol. II di La guerre et la paix.
(10) Lecouturier, Paris incompatible avec la République, 1848.
(11) Pierre Marie-Sébastien Bigot de Morogues, Du pauperisme, de la mendicité et des moyens d’en prevenir les funestes effets, 1834.
(12) Mrs Trollope, Paris and the Parisians in 1835, lettera XXXIV.
(13) Revue de la Révolution de 1848, vol. VII.
 
[da Le classi lavoratrici e le classi pericolose, Laterza, 1976]