«I diritti dell'Uomo e del Cittadino»

Brulotti

«I diritti dell'Uomo e del Cittadino»

Luigi Fabbri

Ciò che sta avvenendo ora in Francia contro gli stranieri è qualche cosa che sarebbe parso impossibile qualche anno fa e parrebbe pur oggi incredibile a molti, se i fatti non parlassero anche troppo. Episodi isolati di malevolenza se ne sono sempre avuti, specialmente sotto la spinta di qualche sordido interesse particolare; ma il fenomeno xenofobo sta prendendo da qualche tempo un carattere di generalità, per lo meno apparente, che non può non preoccupare. Si tratta, è vero, d'una montatura in gran parte artificiosa, perché lo spirito collettivo francese vi è ancora alieno. Ma le grandi maggioranze, che prima avrebbero reagito, ora lasciano fare, preoccupate egoisticamente dei casi loro, che non sono neppur essi molto rosei.

La guerra e la «fatalità storica»

Brulotti

La guerra e la «fatalità storica»

Rudolf Rocker

Noi conosciamo gli argomenti con cui i sostenitori dell'attuale ordine di cose cercano di giustificare la necessità della guerra. Agli uni essa appare come l'espressione della collera di Dio, perché gli uomini si rendano conto dei propri peccati. Gli altri considerano la guerra come un portato della natura umano. Recentemente si è giunti a vedere nella guerra la manifestazione inevitabile delle differenze razziali. E siccome, secondo questa nuovissima teoria, razza è destino, la guerra è perciò una cosa del destino e non può essere soppressa nel mondo per mezzo di argomenti umanitari. I socialisti di tutte le correnti non danno a tali affermazioni importanza alcuna, poiché esse non resistono ad nessuna critica seria. Però la maggioranza di loro non si accorgono che essi non fanno altro che sostituire il fatalismo dei loro avversari con un altro fatalismo, inculcando nei propri seguaci la convinzione che la guerra è unicamente un risultato del sistema capitalista mondiale, e solo scomparirà con questo.

L'imperio della tecnocrazia

Contropelo

L'imperio della tecnocrazia

André Prudhommeaux

La grande idea della fine del XIX secolo, l'idea del governo della Scienza — così cara ad Auguste Comte, Ernest Renan e Marcelin Berthelot — è saggiamente tramontata e non evoca più che qualche tenero sorriso. Gli uomini di buon senso sanno oggi che se vi è un'etica della Scienza non vi è affatto una scienza dell'Etica. Un postulato morale che è, non permette di dedurre ciò che deve essere. Pretendere di derivare una norma di condotta da un semplice giudizio di realtà, è giocare con la logica. Il mondo conoscibile non fissa nessun scopo alla coscienza umana: accade, invece, proprio il contrario. Tuttavia molti uomini si preoccupano dell'idea di fondare l'ordine della città sul credo personale, provvisorio e riconosciuto come tale, mentre esistono un'infinità di tali credo possibili e l'autorità costituita di ogni società chiusa è irrimediabilmente scossa dalla libertà di scelta che presuppone la tolleranza, di pensiero e d'azione, nei confronti di esperienze volontarie e molteplici.

Fasci di riflessi condizionati

Brulotti

Fasci di riflessi condizionati

Dwight Macdonald

Per quanto lasci perplessi, sembra che le cose stiano come scrive Hannah Arendt: «Invece sia in Russia che nella Germania nazista il terrore era aumentato in proporzione inversa all’esistenza di un’opposizione politica interna, come se questa fosse stata non il pretesto per l’impiego della violenza (come ritenevano gli accusatori liberali dei regimi), ma l’ultimo impedimento al suo infuriare». Ovvero: i nazisti non hanno ucciso sei milioni di ebrei mentre combattevano per consolidare il proprio potere nel 1933-36, ma nel 1942-44, quando avevano da tempo distrutto ogni opposizione reale, quando gli ebrei non costituivano alcuna minaccia per loro, e quando il popolo tedesco era costretto a sostenerli in guerra per una questione di sopravvivenza nazionale.

Famiglia...

Brulotti

Famiglia, tenero apprendistato d'Impresa

Christiane Rochefort

Il mondo nel quale nasciamo — la società industrializzata — è, e non tenta neppure più di nasconderlo, una Impresa mondiale di sfruttamento delle cose, degli animali e delle persone, da parte di un numero ristretto di personaggi, alcuni dei quali sono anche conosciuti per il loro nome, tutti adulti, maschi e bianchi (a parte alcuni Giapponesi la cui pelle si è però notevolmente schiarita all'aria degli Hilton Hotels), che, a forza di eliminare i più deboli, hanno concentrato e concentrano sempre di più nelle loro mani beni e poteri. Questi personaggi sono il risultato logico della meccanica dei rapporti di competizione e dominazione, generata dalle società patriarcali. Pure avendo conservato una forma più o meno umana, essi stanno oggi diventando una forza cieca, un'astrazione regnante, un grande ordinatore servito da giacche e cravatte intercambiabili.

L’ideologia del lavoro

Contropelo

L’ideologia del lavoro

P. Mendès [Jacques Ellul]

Prima di qualsiasi ricerca o riflessione sul lavoro nella nostra società, bisogna rendersi conto che in essa tutto è dominato dall'ideologia del lavoro. In quasi tutte le società tradizionali, il lavoro non è considerato né un bene né l’attività principale. Il valore eminente del lavoro appare nel mondo occidentale nel XVII secolo, in Inghilterra, in Olanda, poi in Francia e si sviluppa in questi tre paesi contemporaneamente alla crescita economica. Come si spiega, all’inizio, la trasformazione mentale e morale che consiste nel passare dal lavoro come pena, punizione, o inevitabile necessità, al lavoro come valore e bene? Occorre constatare che questa reinterpretazione che ha portato all’ideologia del lavoro si verifica con la convergenza di quattro fatti che modificano la società occidentale.

Il "bel" paese...

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Il "bel" paese...

Che paese, l’Italia. Non c’è opera che possa venire realizzata senza che si alzi qualche voce contraria; non passa giorno senza che si sappia di qualche movimento di protesta verso questo o quel progetto. Non c’è cantiere che possa iniziare senza che qualcuno contesti, o lavori che possano partire senza che nessuno si metta in mezzo ad intralciare. Ognuno ha un motivo per lamentarsi: lo scempio ambientale, il deturpamento del paesaggio, il depauperamento delle risorse, l’inquinamento della terra, dell’aria, del mare… E poi, come se non bastasse, tutti a lamentarsi – anche loro, i responsabili delle proteste – a lamentarsi, dicevamo, che il paese non cresce, il PIL neanche, la Borsa crolla, l’Unione Europea ci sanziona, lo spread sale e le tasse pure, mentre l’occupazione diminuisce…

L’invidia del penale

Brulotti

L’invidia del penale

P. M.

Di questo legiferare galoppante, di questa piaga giustizialista che investe l’epoca a tutta velocità, come è possibile che nessuno sia terrorizzato? Come è possibile che nessuno si preoccupi per questa smania di legge che cresce senza sosta? Ah! La Legge! La marcia implacabile delle nostre società al passo della Legge! Nessun essere vivente in questa fine di secolo è ritenuto in grado di ignorarla. Nulla di ciò che è legislativo ci deve essere estraneo. «C’è un vuoto giuridico!» — non è soltanto un grido accorato dagli schermi. Dalla pappa di tutti i dibattiti emerge solo una voce, un clamore: «Dobbiamo colmare il vuoto giuridico!».

Lettera sul Parlamentarismo

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Lettera ad Andrea Costa sul Parlamentarismo

Errico Malatesta

Comunque, io credo necessario, perché la prossima, inevitabile rivoluzione non riesca una completa delusione, che vi resti in ogni paese almeno un nucleo, vergine di ogni compromesso borghese, il quale possa tenere alta la bandiera del socialismo e combattere per la sua attuazione piena ed intera. E questo nucleo, questo partito non può essere che quello degli anarchici. Io credo quindi che gli anarchici tradirebbero il mandato che le circostanze hanno affidato loro se — fosse pure a titolo di eccezione o come individui o per protesta — si facessero trascinare a concessioni che menomerebbero il loro carattere rivoluzionario e li avvicinerebbero ai partiti borghesi, che essi han missione di combattere a morte.

L'obiettore

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L'obiettore

Roger Martin du Gard

La città era calma: di una calma tragica. Le nubi che da mezzogiorno s'andavano accavallando, formavano una scura coltre che immergeva la capitale in una specie di crepuscolo. I caffè, i negozi avevano acceso; e la luce che proiettavano attraversava di strisce livide le strade semi buie, dove la folla, privata dei mezzi di trasporto, si pigiava, inquieta e frettolosa. Gli ingressi della metropolitana traboccavano sino ai marciapiedi di gente in attesa sui gradini. Rinunziando ad aspettare, Jacques e Jenny raggiunsero a piedi la riva destra. Ad ogni cantonata, strilloni di giornali: le edizioni straordinarie venivano strappate di mano, scorse con avidità. Ognuno suo malgrado vi cercava ostinatamente la grande notizia: che tutto s'era aggiustato; che, rinsaviti, i governanti avevano di comune accordo trovato una soluzione pacifica; che l’assurdo incubo s'era finalmente dissipato.

La spirale della disperazione

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La spirale della disperazione

Bernard Charbonneau

Chi fa un passo in più sulla strada della verità — di ciò che è o deve essere — lo fa da solo. Le informazioni, la cultura che ha ricevuto, sono d'altronde solo materiale di questa eccedenza. Eppure, l'energia che spinge il suo individuo in avanti, sorta dalle profondità sue e dell'uomo, fonte di una seconda nascita, è ben precedente alla propria. È lo spirito a costringerlo a distinguersi dal dato: a ricercare il vero al di là del falso, a trarre il sensato dall'insensato, il buono dal cattivo, l'utile dall'inutile. Di più, per cui da solo. Questo fatto, nel definire la condizione primaria di ogni libertà e possibilità di progresso umano, fissa il prezzo intollerabile che l'individuo deve pagare. Perché questo passo lo fa uscire dalla truppa dei suoi fratelli.