Intempestivi

Sbirri

 

Gli agenti delle forze dell'ordine uccidono. Non lo fanno solo nel corso di conflitti a fuoco con truci criminali tanto tanto cattivi, costretti da circostanze eccezionali che per fortuna restano circoscritte e limitate. Lo fanno comunque. Lo fanno per mestiere. Devono farlo. Sono pagati anche per questo. Negarlo è una infame o stupida ipocrisia. 

Gli agenti delle forze dell'ordine uccidono. A Napoli, un ragazzo di 17 anni che non si era fermato ad un posto di blocco è appena stato ammazzato da un carabiniere che «ha sparato in maniera accidentale un colpo con la pistola di ordinanza». Quante volte abbiamo visto salivare i signori giornalisti sulla accidentalità di simili episodi? Il dolore della famiglia e degli amici, le loro lacrime, i funerali, il vuoto che quella morte lascerà, sono trascurabili in quanto... «accidentali»?

Gli agenti delle forze dell'ordine uccidono. Ma non hanno certo bisogno di ricorrere alle armi da fuoco, per farlo. Un altro caso ha riempito le cronache poco tempo fa: la morte di un ex calciatore della Fiorentina provocata sempre da una pattuglia di carabinieri. In questa circostanza, il nome della vittima e magari anche il video di quanto accaduto hanno aiutato a rompere il muro di silenzio che circonda questi fatti ricorrenti. Mica come la morte – tanto per restare in zona – di un paio di immigrati avvenuta nella Questura del capoluogo toscano all'inizio del 2012. Mica come quella dei molti detenuti suicidi nel locale carcere di Sollicciano, istituto che può vantare per il 2013 il primato nazionale di tentati suicidi (45) e di atti di autolesionismo (358).

Gli agenti delle forze dell'ordine uccidono. Lo fanno tutti, senza distinzioni di corpo. E lo considerano parte del loro lavoro, un effetto collaterale forse spiacevole che talvolta può manifestarsi, ma che rimane comunque del tutto legittimo e normale. Ecco perché tributano un lungo applauso ai poliziotti condannati per l'omicidio di Federico Aldrovandi. Ecco perché il vicesegretario del Sindacato Autonomo della Polizia, come gesto di solidarietà nei confronti dei quattro colleghi di Parma, rimette la medaglia di bronzo al valore civile e il titolo di Cavaliere della Repubblica, ben spiegando che i suoi «colleghi sono stati incarcerati, caso unico negli ultimi decenni, per un reato colposo avvenuto durante il servizio e un'operazione della quale nessuno ha mai contestato la legittimità». Quei poliziotti che hanno ucciso un ragazzo in quella maniera, lo hanno sì fatto, ma stavano facendo soltanto il loro dovere: quindi, perché punirli? Anche l'estensore di questa lettera ammette di essersi ritrovato in situazioni più o meno simili: «Mi è già successo tante volte e spesso mi sono reso conto che le cose sono andate bene unicamente per buona sorte; mi sono trovato coinvolto in colluttazioni che ho fatto di tutto per evitare. Durante le stesse, l'incolumità dei soggetti da fermare e quella degli operatori ha corso gravi rischi. Fortunatamente le cose mi sono andate bene. Altrimenti sarei stato messo alla berlina come il peggiore degli esseri umani».

Gli agenti dell'ordine uccidono. O, alla bisogna, torturano e massacrano. Quando la gestione della caserma di Bolzaneto, durante i giorni del G8 di Genova del 2001, viene affidata al reparto speciale addestrato a reprimere le sommosse in carcere, cosa ci si aspetta che accada? Che i manifestanti fermati siano accolti con un fiore? O che quegli agenti faranno esattamente ciò che è stato insegnato loro a fare? Quando nel corso delle proteste No Tav in Valsusa vengono sparati innumerevoli lacrimogeni ad altezza uomo, cosa si presume che possa accadere? Che i manifestanti colpiti non riportino alcuna conseguenza "collaterale"?

Gli agenti dell'ordine uccidono. Lo fanno dappertutto nel mondo, da Nord a Sud, da Oriente ad Occidente, lo fanno tutti i giorni. A Napoli come a Ferguson, ad Atene come a Pechino, a Parigi come a Johannesburg, a Londra come a Rio de Janeiro. Non importa il colore delle loro uniformi, o del governo che li comanda. Non importa se pregano Dio o Allah, o se li bestemmiano. Sono loro «il braccio armato della legge», spetta a loro imporre l'obbedienza attraverso la violenza. 

Sì, gli agenti dell'ordine uccidono, e torturano, e massacrano. È il loro lavoro, è esattamente ciò per cui sono stati addestrati e pagati dallo Stato – controllare e reprimere, sopprimendo ogni libertà. 

Delle due, l'una: o si ritiene che le forze dell'ordine svolgano un compito importante e necessario, e allora non si può strillare allo scandalo quando nell'adempimento del loro dovere incappano nella cattiva sorte di ammazzare qualcuno, oppure… sarà sufficiente denunciare le presunte mele marce presenti nei loro ranghi, pretendere più accurate «regole di ingaggio», chiedere il numero identificativo sulle uniformi?

Evidentemente, no. Non servono né lacrime, né petizioni. La morte, fra i tanti, di Zyed Benna e Bouna Traoré a Parigi nel 2005, di Alexis Grigoropoulos ad Atene nel 2008, di Mark Duggan a Londra nel 2011 e di Michael Brown a Ferguson poche settimane fa, hanno scatenato una rabbia generalizzata. La stessa rabbia che si respirava l'altra sera a Napoli, quando gli abitanti del quartiere accorsi sul posto hanno attaccato due volanti. Una rabbia che bisogna difendere, far crescere, alimentare. Una rabbia che bisogna cercare di far esplodere al più presto, prima di versare altro sangue e lacrime.

Una rabbia che, no, non ha proprio nulla di accidentale.

 

[5/9/14]