Contropelo

Nessuna legittimazione

«Ma chi mi assicura che la luce è migliore delle tenebre? Al buio io penso meglio. Viene da Apollo la mania della solarità e quell'aggettivo “solare” che ha l'aria di dire tanto e in verità non dice niente... Pensando all'inutilità di certa luce, si ha voglia di scender in cantina»
Alberto Savinio
 
 
Lo si poteva stare ad ascoltare per ore. A bocca aperta. Come si suol dire, parlava come un libro stampato. Ma un libro d'altri tempi, quelli la cui ricchezza di immagini si accompagna ad uno stile quasi cavalleresco. La camicia bianca e vaporosa col colletto lungo, impeccabile, il fiocco nero. Le orecchie lunghe, rassicuranti. E gli occhi, quegli occhi fiammeggianti! Parlava di anarchia e chi lo ascoltava rimaneva incantato davanti a quella sintesi di calma e fermezza. Si chiamava Belgrado Pedrini, ed era stato un partigiano. Ma, in quanto anarchico, era immune dagli intrighi di palazzo e di corte; e non attendeva ordini dall'alto. Per cui, di fronte allo spuntar del nemico in camicia nera, assieme ai suoi compagni aveva impugnato le armi molto prima dell'8 settembre 1943. Arrestato nel 1942, un paio di anni dopo venne liberato da una colonna di partigiani libertari a cui si unì riprendendo parte alla lotta armata contro il fascismo.
Finita la guerra, sbaragliato il fascismo, cosa successe? Che lui e i suoi compagni furono nuovamente arrestati e condannati a marcire in prigione. Avevano commesso un errore fondamentale, non avevano tenuto conto del senso del tempo! Le loro azioni di sabotaggio contro il fascismo erano legittime, certo, ma solo quelle compiute dopo l'8 di settembre. Prima, erano atti criminali. Più o meno nello stesso periodo in cui lui e molti altri partigiani anarchici entravano in carcere, le camicie nere ne uscivano grazie all'amnistia voluta dal “compagno antifascista” Togliatti. Dopo trent'anni di galera – fra pestaggi, torture ed umiliazioni – Belgrado Pedrini e altri anarchici tornarono in libertà e ripresero la loro attività laddove s'era interrotta.
In fondo, furono più fortunati di quel partigiano che poco prima di essere fucilato dai fascisti in un cortile di prigione lasciò espresso il suo ultimo desiderio: che il suo sacrificio non venisse un domani commemorato dal sindaco in fascia tricolore nel corso di annuali celebrazioni con la banda musicale, i mazzi di fiori, gli alunni delle elementari. Non è stato esaudito.
Ma perché questi strani ricordi, personali e anche no, si agitano nella mente?
Sabato scorso, 22 febbraio, è stata una grande giornata di mobilitazione nazionale, di lotta popolare. In una quarantina di città, sparse per tutto il paese, si sono tenuti cortei, presidi e iniziative varie a sostegno della lotta NoTav in Val Susa e in solidarietà con i quattro attivisti arrestati ai primi di dicembre con l'accusa di aver partecipato ad un assalto notturno al cantiere. Migliaia e migliaia di persone hanno risposto all'appello e sono scese in piazza per protestare «contro lo spreco delle risorse pubbliche, contro la devastazione del territorio, per il diritto alla casa, per un lavoro dignitoso, sicuro e adeguatamente remunerato... in difesa del diritto naturale e costituzionale di opporsi alle scelte governative che tengono solo conto degli interessi dei potentati, delle lobby, delle banche e delle mafie a danno della popolazione... contro il delirante utilizzo delle leggi da parte della procura e della magistratura torinese e in solidarietà ai compagni di lotta incarcerati, ai compagni di lotta già condannati, a quella innumerevole schiera di resistenti che ancora deve affrontare il giudizio per aver difeso i beni comuni, una giornata di lotta alla quale seguirà nella metà di marzo un appuntamento a Roma per la difesa e la legittimità delle lotte sociali».
Perché la resistenza è un diritto, perché il sabotaggio è legittimo. Un diritto, sì, naturale e costituzionale. Legittimo, sì, perché indirizzato solo contro oggetti inanimati ed approvato in assemblea da un movimento popolare. Perché altrimenti... altrimenti in strada sarebbero scesi solo centinaia di sovversivi, non migliaia di cittadini. E fra di loro non ci sarebbero stati parlamentari, né amministratori locali, né bande musicali, né palloncini colorati. Nessuna legittimazione va riconosciuta a sabotatori intempestivi come... Belgrado Pedrini. E qui non possiamo fare a meno di pensare a Baleno, l'anarchico accusato di aver compiuto dei sabotaggi contro l'Alta Velocità e morto in carcere nel 1998, la cui memoria viene tutt'oggi associata dal Signor Movimento NoTav a trame oscure e ambigue manovre, non essendo illuminata dalla luce del sole che riscalda pubblicamente e collettivamente. Perché, se non bisogna confondere legittimità e legalità, non si deve nemmeno confondere legittimità e illegittimità.
Avremmo voluto da tempo dire qualcosa in merito ma, conoscendo l'estrema suscettibilità di certuni, abbiamo preferito attendere. Mica vogliamo venir accusati di sabotare le scadenze di grandi lotte popolari, noi! Ma adesso...
Quale sia il punto, non è difficile capirlo. Questi ultimi anni hanno visto un moltiplicarsi di conflitti ed è facile prevedere che le aule dei tribunali siano destinate ad affollarsi sempre più di persone incriminate – anche nonostante le loro migliori intenzioni – per aver manifestato contro questa o quella decisione presa dall'alto, per aver infranto in qualche misura questa o quella legge. La repressione che sta colpendo la lotta NoTav in Val Susa – con alcune centinaia di imputati e migliaia di indagati fra i suoi attivisti, per non parlare dell'offensiva mediatica lanciata contro di loro – costituisce un lugubre avvertimento ad uso e consumo di tutti gli insoddisfatti dell'attuale ordine sociale; siano essi lavoratori licenziati o studenti deprezzati, precari sfruttati o occupanti sgomberati, cittadini avvelenati o inquilini sfrattati.
Più aumenta il disagio, più si manifestano turbolenze, più aumenta la repressione. Ciò pone ovviamente la questione di come affrontare la reazione dello Stato, al di là del ricorso ai margini di manovra consentiti dalla legge. Ad eccezione di pochissime teste calde che rifiutano ogni confronto con la controparte, la quasi totalità di coloro che finiscono alla sbarra è intenzionata – per così dire – a discolparsi, a giustificare le proprie azioni, a legittimarle agli occhi dei giudici. Cosa resa tanto più scontata dal fatto che non si tratta affatto di nemici dello Stato, ma di suoi delusi cittadini i quali oggi scendono in strada per protestare contro quelli che considerano passi falsi di una autorità forse non amata, ma di certo mai radicalmente odiata.
Ecco perché oggi è pressoché impossibile affrontare tale questione senza venire assordati dal mantra della differenza che intercorre fra «legittimità» e «legalità», e dai vari riferimenti al «diritto alla resistenza», o alla «legittima difesa», o allo «stato di necessità», o allo «stato di eccezione». In effetti l'utilizzo di simili concetti è da un lato inevitabile, ma il nostro interrogativo è: da quale lato? Se è vero che il linguaggio crea mondi, allora non è difficile comprendere quale mondo sia creato, sostenuto e prospettato dall'ossessivo uso di una simile terminologia: quello dello Stato. Perché la diversità di linguaggio non è una semplice diversità di suono e di segni, ma di modi di guardare il mondo. Ovvero di prospettiva.
È una battaglia persa, lo sappiamo. Cercare di dare un senso alle parole, di farle combaciare con i pensieri, tutto ciò è poco funzionale. Meglio la parola d'ordine perentoria, la performance linguistica, come diceva qualcuno già decenni fa. L'affabulazione faconda trionfa ovunque, laddove ogni riflessione sul significato morde la polvere. Ma come nascondere la perplessità nell'udire argomentazioni più che sensate sulle labbra di avvocati diventare veri e propri luoghi comuni anche fuori dalle aule di tribunale? Oltre a sembrarci un triste riflesso di questo mondo rimasto a tal punto privo di coscienza da andarla a cercare fra le pieghe della giurisprudenza, ci domandiamo come si possa da una parte sottolineare l'estraneità al diritto di ogni movimento sociale (le cui dinamiche e pratiche non possono e non devono inchinarsi davanti alla lettera del codice penale) e dall'altra fare continuo ricorso a termini che di quello stesso diritto sono una tipica espressione. Perché tale è la provenienza di tutti i concetti sopra menzionati, che oggi infestano ogni dibattito. 
Ora, tutto ciò è logico per chi pensa che il diritto debba essere sempre... diritto, per chi è persuaso che lo Stato non possa e non debba distorcerlo (pena il diventare cattivo, deviato, totalitario). È il caso del Signor Movimento NoTav con il suo cittadinismo al tempo stesso verde, bianco e rosso. Ma per chi non riconosce alcun diritto, considerandolo solo una menzogna al servizio del privilegio, per chi – come direbbe un filosofo ormai fuori moda – ha fondato la propria causa sul nulla, non ha alcun senso potare i rami secchi e rinvigorire una pianta che in realtà si vorrebbe abbattere da tanto è nociva. Ecco perché faranno pure bene gli avvocati – il cui lavoro è esattamente quello di muoversi nell'ambito del diritto – ad andare alla ricerca dei cavilli più idonei a smontare nelle aule di tribunale l'impianto accusatorio. Ma questo non è il nostro lavoro.
Prendiamo in considerazione questi concetti che oggi rimbalzano un po' dappertutto. A cominciare dal principale, ovvero da quella «legittimità» che non va associata per forza di cose alla «legalità». In Val di Susa, ad esempio, la magistratura applica la legalità per colpire il movimento NoTav; ma il movimento NoTav non si stanca di ribadire la legittimità delle proprie azioni. Un piccolo esempio: quante volte avete sentito dire che il cantiere di Chiomonte è «illegittimo»? Per cogliere appieno il significato di questa distinzione, per capire cosa si porta dietro, ci asteniamo dal formulare qualsiasi nostra analisi, facilmente liquidabile come frutto di pregiudizio. Preferiamo lasciare la parola ad un noto filosofo, politico e giurista di sinistra: «Mentre legalità significa osservanza formale della lettera della legge che si autogiustifica senza alcun riferimento ai valori, la legittimità evoca una corrispondenza spirituale che sta alla base del rapporto fra chi emette un comando e il consenso sostanziale di chi è chiamato a obbedire. La legittimazione evoca la continuità spirituale fra chi detiene il potere di porre norme e chi è chiamato a osservarle. La legalità, invece, si realizza soltanto sul piano estrinseco formale della coerenza fra la forma di legge e il suo contenuto imperativo. Perciò il giustizialismo è sempre una fuga dal problema della legittimazione e finisce con l'avvalorare anche le svolte autoritarie che si sono realizzate sotto lo schermo della pura continuità formale. La legge scritta e applicata letteralmente può condurre... a una autonegazione della stessa legalità, come è accaduto durante il fascismo e il nazismo. La legittimazione mette in discussione invece la forma della legge ed esprime la condivisione anche affettiva del rapporto fra chi esercita la funzione legislativa e chi ne è destinatario, il quale è chiamato alla collaborazione sostanziale».
Ora, come si vede ci troviamo qui di fronte alla quintessenza del pensiero cittadinista, di quel radicalismo democratico persuaso che debba esistere una «corrispondenza spirituale», una «continuità spirituale», una «condivisione anche affettiva», una «collaborazione sostanziale» fra chi esercita il potere e chi lo subisce, fra governanti e governati. Si tratta di una pretesa che la dice lunga sulle aspirazioni di chi la esprime, sul mondo che vorrebbe realizzare. Da parte nostra, non solo dubitiamo fortemente che sia mai esistita per davvero una simile sincera corrispondenza di amorosi sensi fra sfruttatori e sfruttati, fra oppressori e oppressi, fra ricchi e poveri, fra dominatori e dominati, ma qualora dovesse effettivamente manifestarsi sarebbe la nostra peggiore nemica. Non abbiamo nessuna ragione per incitare alla sua (ri)costituzione, ne abbiamo infinite per eccitare alla sua definitiva rovina.
Ma è chiaro che solo all'interno di una simile prospettiva acquisiscono senso gli appelli ad un «diritto alla resistenza» che da sempre è rivendicato nel nome di un'altra autorità, diversa e superiore. La sua origine risale alle divergenze fra i comandamenti del potere spirituale e le leggi del potere temporale, quando i cristiani pur di rimanere fedeli a Dio arrivavano a scontrarsi con lo Stato. Appena pulpito e trono non si sono più trovati in contrapposizione, ma piuttosto in simbiosi, il «diritto alla resistenza» è diventato sinonimo di fedeltà alla Costituzione contro i suoi possibili travisamenti. Perché, come tutti i diritti, anche questo per esistere ha bisogno di uno Stato che lo conceda. Come è noto, molte Costituzioni includono il diritto di insorgere contro un governo che va contro la volontà popolare. È così per il “Documento dei Diritti” inglese del 1689, per la “Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America” del 1776, così come per la “Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino” francese del 1789, in qualche modo tutte partorite da una rivoluzione. In tempi più recenti, il «diritto alla resistenza» è tornato alla ribalta dopo la Seconda Guerra mondiale e la resistenza al nazifascismo. Esso compare esplicitamente nelle Costituzioni di alcuni Lander della Repubblica Federale Tedesca promulgate dopo la fine del conflitto bellico, così come nella Costituzione francese varata nel 1946. Anche qui in Italia il Progetto di Costituzione prevedeva l'enunciazione di un simile diritto (secondo comma dell'articolo 50) su cui nel 1947 – mentre Belgrado Pedrini ed altri partigiani anarchici (ma anche comunisti) finivano nelle galere democratiche – si dibatté aspramente e a lungo. Alla fine i «padri della Costituzione» decisero di non includerlo di fatto, chi non sapendo bene come formularlo (un onorevole liberale spiccò per sincerità quando ammise che «Bisogna riconoscere che questo diritto di resistenza, che si manifesta attraverso insurrezioni, colpi di Stato, rivoluzioni, non è un diritto, ma la stessa realtà storica... Sono fatti logicamente anteriori al diritto»), chi non volendo offrire giustificazioni giuridiche alla sovversione. Tuttavia molti autorevoli costituzionalisti ritengono che il «diritto alla resistenza», sebbene inespresso, vi sia comunque pienamente legittimato. Come ebbe a dire uno di loro nella sua dichiarazione di voto su questo articolo del Progetto di Costituzione, «La resistenza trae titolo di legittimazione dal principio della sovranità popolare perché questa, basata com’è sull’adesione attiva dei cittadini ai valori consacrati nella Costituzione, non può non abilitare quanti siano più sensibili a essi ad assumere la funzione di una loro difesa e reintegrazione quando ciò si palesi necessario per l’insufficienza e la carenza degli organi ad essa preposti». Perché in fondo tutto si risolve in questo: la rivoluzione è illegale e illegittima perché tende al rovesciamento dell'ordine in atto al fine di realizzare altro, mentre la resistenza può essere illegale ma è legittima – soprattutto quando è non-violenta, il che spiega l'insistenza con cui i cittadinisti ribadiscono il loro rispetto per ogni vita umana – perché tende alla conservazione di questo ordine, ovvero a re-instaurarlo allorché viene «aggredito» dall'esterno e/o «tradito» dall'interno. In questo senso, il «diritto alla resistenza» può essere considerato come l'estremo e più coraggioso atto di fedeltà nei confronti della Costituzione. Una resistenza che nelle parole di un suo teorico è l'«“extrema ratio” per il ripristino della legalità costituzionale, e che può essere praticata anche nella forma della disobbedienza civile, nonviolenta». Perfetta espressione del cittadinismo radicale, per l'appunto.
Considerazioni non molto dissimili si potrebbero fare anche per concetti quali «legittima difesa» o «stato di necessità», i quali anche se ripresi da pensatori radicali che teorizzano l'abbandono della nonviolenza rimangono pur sempre categorie prettamente giuridiche che esprimono una «causa di giustificazione» per fatti considerati perseguibili dalla legge. In sede di diritto, si domanda la non-punibilità per chi ha commesso il fatto essendovi stato costretto dalla necessità «di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa», o dalla necessità «di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo». Si tratta quindi di chiedere comprensione e clemenza alla Corte perché in fondo è legittimo (e pure legale) infrangere la legge, in maniera proporzionata, ovvero non esagerata, qualora si sia costretti a difendere un diritto o a salvare la sopravvivenza.
Quanto al concetto di «stato di eccezione», ha sempre suscitato in noi un doppio imbarazzo. Il primo è dato dalla disinvoltura con cui espressioni coniate negli anni 30 da filosofi legati al nazismo possano essere rimesse in circolazione così alla leggera non appena risciacquate nell'erudizione di qualche accademico contemporaneo (lungo questa china si trovano anche le esortazioni ad «esserci» o le denunce di innumerevoli «dispositivi»). Davvero non ci sono fonti migliori da cui trarre ispirazione? Ma l'imbarazzo maggiore nasce dall'urgenza di (fingere di) condividere con le anime belle della sinistra lo stupore di fronte alla scoperta dell'acqua calda: lo Stato bara, in determinate circostanze sospende ed infrange le sue stesse leggi (nella caserma di Bolzaneto, nei Cie, nei campi per terremotati di L'Aquila, nelle valli piemontesi, nello stesso Parlamento...). Scandaloso, chi lo avrebbe mai detto? Ora, a cosa mira questa acuta ed originale constatazione? A far perdere per sempre allo Stato ogni legittimità agli occhi dei suoi sudditi, affinché inizino a considerarlo con odio essendosi rivelato mero apparato al servizio di chi detiene il potere? Oppure ad invitarlo a porre infine rimedio alle proprie incoerenze, affinché torni a raccogliere consenso essendo l'ineludibile organizzazione sociale al servizio della collettività? Ci sembra che sottolineare non le infamie istituzionali, ma la loro eccezionalità, vada più nella seconda direzione e serva più che altro a sostenere la normalità e la bontà dello stato di diritto. Ma lo «stato di eccezione» nella politica dello Stato è simile alla «crisi» nell'economia del capitalismo: non si tratta di una eccezione, bensì di una norma. Lo Stato si nutre quotidianamente di soprusi così come il capitalismo si nutre quotidianamente di sfruttamento. Le circostanze possono mutarne forme e caratteristiche, non la sostanza.
Ci si perdoni la cafoneria nel far notare come questa premura di legittimare gli atti di resistenza nasca solo in contesti allargati, di massa. Ci domandiamo quale effetto potrà avere sulla disobbedienza individuale il (tentativo di) legittimare la disobbedienza collettiva. Un eventuale riconoscimento della rivolta dei molti avallerà anche quella dei pochi, o le scaverà la fossa? Considerato che è la cosiddetta sovranità popolare a fondare la legittimazione di un atto di resistenza, la risposta dovrebbe essere scontata. Capiamo bene che le odierne manifestazioni in solidarietà con arrestati per l'accusa di sabotaggio possano fare piacere, ma non intendiamo farci illusioni in merito: quella solidarietà, così diffusa e trasversale, va solo e soltanto a chi è impegnato in lotte popolari, va ad «attivisti» coraggiosi, determinati e percepiti come difensori del Bene Comune. È una solidarietà riservata a legittimi resistenti, ovviamente non accordata alla canaglia rivoluzionaria.
Ed è stupefacente constatare fino a che punto la tentazione legittimista e buonista abbia scavato il cuore persino di certi anarchici, che per difendere i quattro arrestati NoTav non trovano di meglio che protestare contro la loro demonizzazione, contro «il pesante appellativo di terroristi, termine il cui uso mira proprio a separare e allontanare certe pratiche dalla quotidianità di una lotta, come se fossero proprie di alcune grigie persone rinchiuse in scantinati a creare miscele esplosive». Gli scantinati, quei posti grigi dove non entra la luce del sole cittadinista! Eppure, dovrebbe essere banale notare come i soli terroristi che creano miscele esplosive siano i tecnici che lavorano per multinazionali come l'Oto Melara.
Per quanto pesante e pressante possa essere la minaccia repressiva – per tutti indistintamente, per altri, per i soli sovversivi –, per quanto sia sempre più evidente che le parole hanno perso ogni significato e sono perciò intercambiabili, rifiutiamo di metterci in bocca la lingua del nemico. Lasciamo che siano gli orfani dello Stato di diritto a dolersi delle vessazioni commesse da un brutale patrigno, lo Stato di Sicurezza. Se attraverso la repressione spesso e volentieri il potere cala la maschera, pensiamo sia un errore farglielo notare e invitarlo a riaggiustarsela; meglio cercare di strappargliela del tutto. Approfittare dell'occasione per mostrare come il diritto sia una pura menzogna, sempre e comunque. Tentare di minare definitivamente ogni fiducia nella Costituzione, ogni speranza nei confronti dello Stato.
Il linguaggio crea mondi? E allora, come abbiamo già avuto modo di dire a proposito della Val Susa, in una situazione così allargata e aperta di conflitto, invece di una fantomatica legittimazione troviamo assai più affascinante evocare la secessione. Il riconoscimento della prima viene chiesto al nemico, la realizzazione della seconda viene imposta al nemico. La prima fa parte della mistificazione giuridica – teniamo a mente che essere legittimo significa pur sempre essere conforme al diritto, alla legge, alle disposizioni dell'ordinamento giuridico – la seconda è nella «stessa realtà storica» delle lotte. La secessione etimologicamente è «allontanarsi, separarsi, andarsene»; esprime il «distacco di una parte o di un gruppo dall’unità sociale, politica, militare di cui faceva parte, in seguito a grave disaccordo con la parte restante e come forma di aperta protesta e ribellione». In Val di Susa sono presenti tutte le caratteristiche perché ciò possa accadere. Un'area geografica circoscritta e periferica, una popolazione locale insorta da anni contro il governo centrale il quale ha reagito con l'occupazione militare del territorio e la repressione del dissenso. Ma, soprattutto, nessuna possibilità di pacifica risoluzione in vista: lo Stato non vuole assolutamente rinunciare al Tav, quella valle non vuole assolutamente accettarlo. Fine delle mediazioni. E quindi, anziché cercare di riallacciare i fili di una «continuità spirituale» spezzata, perché non procedere nella direzione opposta e tentare di rendere insanabile questa frattura? E uno dei modi è anche quello di iniziare a rendere la sua ricomposizione impensabile.
Perché la rivolta è una questione di libertà e di dignità. È questione di coscienza. Qui si trova il suo unico fondamento, la sua radice, in questa dimensione umana irriducibile ad ogni istituzionalizzazione. Non certo in un articolo del codice penale o della Costituzione, scritto o tacito che sia. E questo fondamento alimenta la rivolta individuale come la sollevazione collettiva, ispira le proteste che avvengono alla luce del sole come gli attacchi favoriti dal buio delle tenebre, scatena la violenza sulle cose come quella su esseri umani responsabili di infamie. Senza fare distinguo politici. Non ha bisogno di elemosinare a nessuna autorità il proprio riconoscimento, perché si riconosce da sé. 
Lo avevano intuito persino gli antichi romani che nel 450 a.C. codificarono il diritto pubblico e privato nelle "Leggi delle XII Tavole": contro lo straniero, il nemico, la rivendicazione è eterna. E lo straniero, il nemico, è chi parla un'altra lingua, diversa da quella dominante dello Stato – perché espressione di desideri e valori che sono tutt'altro, perché creatrice di un mondo che è tutt'altro – e che perciò lo pone al di fuori del diritto. Ma cosa accade non appena l'intuizione degli antichi giuristi romani viene rovesciata e colta nella sua reciprocità, ovvero vista con gli occhi di chi è nemico in terra straniera?
Come si diceva nel tempo di allora, la rivoluzione non è il trionfo di una positività alienata e oppressa, ma l'irrompere di un movimento sotterraneo e negativo. È la canaglia che spazza via le persone perbene, non è la disputa delle persone perbene su chi sia più perbene. Non si tratta di creare una nuova omogeneità positiva, talvolta costretta ad essere scapigliata ma comunque edificante, bensì di assumere l'eterogeneo e il negativo in tutta la sua forza. Invece un contenzioso fra positività può concludersi solo con una semplice inversione che attribuisce a chi spetta la parte del vero ordine, agli eredi legittimi della società capitalista.
No, no e no. Non contate su di noi.
 
[26/2/14]