Macchianera

La linea gialla

Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà

Alessandro Dal Lago

Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012

 

Non oltrepassare la linea gialla.
È un po’ questa la sensazione che si ricava alla fine della lettura del libro, sensazione peraltro già avvertita con altri lavori dello stesso Dal Lago o altri studiosi di scienze sociali.
Si tratta di uno studio che, partendo dal recente conflitto libico, si propone di mostrare come, nel corso dei secoli, la crudeltà (della guerra, della tortura, della segregazione, ecc.) sia stata lentamente, ma inesorabilmente, messa a margine; dapprima esibita, si è deciso poi di nasconderla. Ciò non significa che la crudeltà, e tutto ciò che contribuisce a generarla, sia scomparsa dall’orizzonte sociale, ma più semplicemente che, allo stato della odierna organizzazione sociale e dei “valori” di cui si fa portatrice, è più conveniente occultarla, per non suscitare reazioni e sdegno nella cosiddetta opinione pubblica, e  per consentire ad essa una capacità auto-assolutoria che, diversamente, sarebbe difficile ottenere. Questo procedimento è analizzato a partire dall’antica Roma fino ai nostri giorni, mediante una analisi storica affiancata ad una letteraria, tramite un processo rigoroso ma forse un po’ forzato, come accade ogni volta che, date certe premesse, uno studioso decide di mostrare vera la propria tesi, accumulando tutto il materiale utile a puntellare la propria idea e far quadrare il cerchio. Ciò comunque non rappresenta un problema, essendo in fondo la linea che ognuno segue quando decide di esporre la propria idea, ritenendola giusta.
La parte più interessante del libro è rappresentata dagli ultimi due capitoli, quelli che parlano della storia recente e contemporanea, in cui si analizza la crudeltà sotto l’aspetto della guerra, e l’evoluzione del concetto stesso di guerra, che da palese e dichiarata si trasforma dapprima in guerra invisibile e infine in guerre che guerre non sono, nel senso che il potere lavora per non farle apparire come tali. Nella trattazione del primo di questi aspetti l’autore attinge anche a concetti andersiani che, prima e meglio dello stesso Dal Lago, hanno analizzato la perdita dell’esperienza umana e indagato l’indicibile, lo scarto tra le possibilità di seminare morte e distruzione e le capacità umane di riuscire a immaginarle e descriverle, quella che Anders definiva “scarto prometeico”. Inoltre indaga il ruolo che l’enorme sviluppo della tecnologia ha avuto nel contribuire a rendere invisibili le guerre.
Per quanto riguarda l’oggi, con la sua possibilità di combattere svariate guerre in ogni parte del mondo da parte degli Stati occidentali, Italia compresa, smentendo a se stessi e ai propri cittadini che delle guerre siano in corso, Dal Lago analizza tutti i mezzi che lo hanno reso possibile: dall’uso sempre più servile dei media e dei vari mezzi di comunicazione, alla mancanza di una dichiarazione di guerra vera e propria ad opera degli Stati, passando per un uso della lingua che tende sempre più a occultare la realtà e che definisce le guerre come “esportazione della democrazia”, “missioni umanitarie”, “operazioni di polizia internazionale”, “protezione armata dei civili”, ecc., passando per una contemporanea inferiorizzazione del “nemico” considerato, oltre che “terrorista” o “insorgente”, anche portatore di valori arcaici e barbarici ed esponente di una cultura inferiore. Oltre l’aspetto meramente propagandistico, Dal Lago individua, giustamente, in alcuni altri aspetti,  la possibilità che permette di auto-assolversi dalle guerre, come per esempio la professionalizzazione degli eserciti (e conseguente sparizione della coscrizione), il ruolo sempre maggiore dei mercenari (i cosiddetti contractors) e quello svolto da una tecnologia bellica sempre maggiore, che permette di dispensare morte senza guardarla troppo da vicino. Tutte cose condivisibili, peccato che non si traggano le dovute conclusioni quando, alla fine del libro, si afferma che “è proprio la passività tipica degli spettatori a definire oggi la condizione degli abitanti dell’Occidente. Essere consapevoli fino in fondo che si uccide in nostro nome, e che quindi anche noi siamo coinvolti, è il primo passo per riconquistare una cittadinanza perduta nel mondo dei conflitti globali. Narrare la crudeltà e la guerra, chiamare le cose con il loro nome, dissolvere l’ipocrisia dell’umanitarismo e dell’esportazione della democrazia è la sola strada per diminuire la violenza che ci circonda”. Come è possibile, alla luce della consapevolezza di ciò che rappresentano e compiono gli Stati ed i governi, appellarsi alla “riconquista di una cittadinanza perduta”? Crediamo che le cose possano cambiare qualora gli Stati tornassero a considerarci davvero cittadini, ammesso che già non lo facciano? E poi, una volta presa consapevolezza che “si uccide in nostro nome” (oltreché nel nome di superiori interessi economici, strategici, geo-politici, ecc.), quello è appunto solo “il primo passo”, ma non bisogna poi compierne degli altri? Dal Lago dimentica di dirci quali sono, o forse non può farlo, perché il suo ruolo  - di accademico, di osservatore, di ricercatore – non glielo permette. Lui è abbacinato dalla luce della Democrazia, quella con la maiuscola, e questo bagliore accecante di una Democrazia lustrata e brillante impedisce di vedere che, una volta presa coscienza del nostro ruolo all’interno di questo mondo e delle sue guerre, possiamo solo guardarci dentro e decidere di andare fino in fondo, mettendoci di traverso nei conflitti, senza necessariamente parteggiare per uno dei due (o più) contendenti. Lo scritto è solo uno dei mezzi a nostra disposizione, e non può essere prerogativa di alcuni, lasciando ad altri il resto.
La linea gialla, che fin dall’inizio è davanti ai nostri occhi, bisogna attraversarla.

 

[18/11/2012]